24.6.12

La soia irresponsabile (di Fulvio Gioanetto)

Dalla rubrica terraterra del “manifesto” riprendo un articolo che risale a quasi un anno fa. Le pratiche che vi si raccontano restano invece, purtroppo, attualissime. (S.L.L.)
Vera e propria pubblicità ingannevole. Un gruppo di imprese multinazionali dell'agro-business (Monsanto, Bp-Gargill, Unilever) e la catena di supermercati Ahold sono riusciti la settimana scorsa a collocare sul mercato 218.000 tonnellate di soia transgenica della brasiliana Maggi, dichiarandola e certificandola come «soia responsabile». I semi saranno comprati da Unilever e da un gruppo di imprese olandesi di alimenti dietetici e altre di alimenti per animali.
Gli standard per definire «sostenibile» la soia in questione sono dettati dalla «Round Table on Responsible Soy» (Rtrs, o «tavola rotonda sulla soia responsabile»), un gruppo imprenditoriale finanziato dal governo olandese fin dal 2005 (www.responsiblesoy.org), che promuove la coltivazione di soia transgenica su 224.000 ettari in Bolivia, Brasile, India, Argentina e Paraguay. Chi ne definisce i criteri sono dunque 69 imprese commerciali che operano nella catena della soia, fra cui Adm, Cargill, Bunge, Rabobank, Bp, Shell, Unilever, Monsanto, Syngenta e Ahold, oltre a una decina di organizzazioni non governative, secondo le quali questa soia è stata coltivata secondo modelli agricoli di sviluppo sostenibile, utilizzando tecnologie compatibili con l'ambiente e favorendo il progresso sociale - tra l'altro permettono che la soia sia coltivata in suoli deforestati. Pare incredibile, ma a dare la pennellata verde a questa operazione commerciale ci sono anche il Wwf e altre due organizzazioni ambientaliste, The Nature Conservancy e la brasiliana Fundacion Vida Silvestre.
Definire «responsabile» la monocoltura della soia è anacronistico e abusivo, quando nel solo Paraguay si valuta che annualmente 9.000 famiglie contadine siano espulse dalle loro terre per fare spazio a questo coltivazione intensiva e che almeno 200.000 famiglie rurali in Argentina abbiano perso le loro terre per la stessa ragione. La monocoltura della soia è causa di aumento dei prezzi alimentari e della perdita della sovranità alimentare in tutto sud America; è la ragione dell'aumentato uso di prodotti agrochimici, della perdita della biodiversitá, dell'aumento delle emissioni dei gas con effetto serra e della contaminazione di acqua, di erosione dei suoli. Oltretutto questo modello produttivo della soia transgenica esclude e impoverisce le popolazioni locali. Nessun gruppo di piccoli agricoltori (i principali danneggiati da questo monocultivo che a 500 dollari la tonnellata spazza via i loro cultivi alimentari) e nemmeno le associazioni indigene partecipano a questo tipo di certificazione industriale.
Di fronte a questa farsa ambientale, 235 Ong e gruppi ambientalisti - tra cui Friends on the Earth, Greenpeace, Food and water Europe, Via Campesina - riuniti a San Paolo, in Brasile hanno lanciato un appello ai consumatori europei e nordamericani a non lasciarsi ingannare da queste etichette manipolate dalla grande industria nei supermercati. Secondo Kirtana Chandrasekaran, «invece di mettere una etichetta "responsabile" a un prodotto irresponsable, questi signori dovrebbero rivedere gli allevamenti di bestiame intensivo in Europa; sarebbe davvero una buona notizia per i produttori, per i consumatori e per l'ambiente e disminuirebbe il foot-print del carbonio mondiale. Annualmente estensioni immense di boschi e selva sudamericana sono distrutti per questa monocoltura bulldozer con cui fabbricare agrocombustibile e foraggi».
Nel documento finale (www.toxicsoy.org), le organizzazioni chiedono di eliminare progressivamente le piantagioni di soia per implementare sistemi agricoli agroecologici, lanciare riforme agrarie nei paesi dove si produce soia, abbandonare i sistemi intensivi di allevamento per fare spazio a sistemi di allevamento a piccola scola diversificati e che si interrompano i progetti di semina di agrocombustibili, che non sono una soluzione fattibile al cambio climatico.

“il manifesto” 30.06. 2011

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