20.6.12

Nostalgia di Dino Sani, di un grande Milan... e di un altro calcio (M.Raffaeli)

Sul “manifesto” hanno scritto anche di calcio. Di quello attuale, miliardario, imbrogliato e imbroglione, hanno scritto di rado, forse per misericordia; di quello di un tempo forse un po’ più spesso per nostalgia. Per noi tifosi del “manifesto” quelli che scrivono sul quotidiano comunista scrivono tutti bene, ma tra quelli che hanno scritto (bene) di calcio c’è uno che ne ha scritto benissimo, Massimo Raffaeli.
Riprendo questa paginetta sul Milan di Viani, Rocco e Rivera, sulla coppa conquistata a Wembley, sul grandissimo Dino Sani. Per me, tifoso rossonero fin dalla nascita, è stata fonte di compiacimento, gioia e commozione. Fino alle lacrime. Forza Milan! Viva il manifesto! (S.L.L.)  

La sera dello scorso luglio in cui la nazionale italiana ha per così dire festeggiato al Circo Massimo la vittoria al Mondiale di Germania, guardando in tv quel trionfo pletorico e strafatto, con tanto di reminiscenze littorie, anzi quello sconcio avvicendarsi sul palco di avambracci tatuati e di crani rasati in puro stile-Norimberga, ho avuto un attimo, struggente e prolungato, di nostalgia. Nostalgia di campioni che continuassero a sembrare persone normali e persino ordinarie. E' proprio allora che, di colpo, e senza essere un tifoso del Milan, mi è venuto in mente Dino Sani insieme con il fotogramma di un altro trionfo, di ben più umana ed essenziale scenografia.
E' il 22 maggio del '63, il Milan di Gipo Viani e di Nereo Rocco ha appena conquistato la sua prima Coppa dei Campioni (un oggetto, allora, quasi da nulla, tale da sembrare una piccola anfora di latta) battendo il Benefica di Eusebio e Coluna per 2 a 1 grazie una doppietta in contropiede di Altafini. E' lì che il capitano Cesare Maldini, in maglia bianca, felice ma visibilmente stupefatto, alza la coppa verso il cielo di Wembley; gli è accanto sulla destra il ventenne Gianni Rivera, che ha appena donato la maglia ad Eusebio, chiuso nel trench antracite, mentre a sinistra, di profilo, ricoperto alla meglio da un soprabito nocciola, si vede un tipo magro e pelato che denuncia molto più dei suoi trentuno anni. Nato a San Paolo del Brasile, proveniente dal Boca Juniors, costui si chiama appunto Dino Sani ed è forse il più classico interno di regia che annoveri il calcio mondiale. Ha il fisico di un bancario (un accenno di pancia, i baffetti alla Clark Gable), non corre ma cammina, in campo sembra che non voglia battersi però non smette mai di pensare. Sani vede il rettangolo di gioco come un continuo problema di geometria e di balistica; piazzato davanti alla difesa, alla maniera degli antichi centromediani metodisti, egli si dà il compito esclusivo di recuperare la palla e di lanciarla subito in profondità. Dunque è l'ideale per il modulo di Rocco nello stesso momento in cui funge da maestro per Gianni Rivera molto più di quanto potesse esserlo anni prima, per lui adolescente, lo stesso Juan Alberto Schiaffino, genio avarissimo, uomo di colore itterico e di estri intransitivi.
Pari ad Altafini, detto Mazzola per la somiglianza con Valentino, Sani ha fatto la riserva ai Mondiali svedesi del '58, quando Mister Feola gli preferiva il mediocre Zito per non accorciare, a centrocampo, il raggio d'azione del grande Didì; arriva a Milano (campionato '61-62, vinto proprio dal Milan) per l'incontro con la Juventus e la Gazzetta dello sport non ha una sua foto da pubblicare: molti sospettano un bidone deprecando ancora una volta la mania geriatrica di Rocco ma il Milan vince 5 a 1 e Sani vi risulta il migliore in campo. Scriverà Gianni Brera nella Storia critica del calcio italiano ('78): «Quel giorno pioveva a dirotto, faceva freddo: il buon vecchio Dino ha preso il suo posto in centrocampo e il Milan ha clamorosamente infilato anche la Juventus. (...) In realtà trottignava, il mediano avversario lo saltava puntualmente, e lui seguiva corricchiando a distanza: quando la difesa riconquistava palla, il disimpegno era per lui, del tutto libero alle spalle del proprio avversario diretto: Dino controllava allora con maestria e subito lanciava alle punte. Il suo senso geometrico era eccezionale».
Vince subito il campionato e la Coppa dei Campioni, poi se ne torna in Brasile dopo il terzo anno al Milan, nel '64, peraltro con un tabellino nient'affatto eccezionale, in tutto 62 partite e 14 gol. I maligni accusano Rivera d'averlo indotto ad andarsene. Il golden boy tiene a smentirli nel momento in cui detta le sue memorie giovanili nientemeno ad Oreste del Buono, gran tifoso milanista, in un libro (molto bello e purtroppo mai ristampato, Un tocco in più, Rizzoli 1966) dove infatti si legge: «Come, io cercar di sbarazzarmi di Dino, al cui avvento nel Milan debbo in buona parte la mia definitiva affermazione? Mezzala destra lui, mezzala sinistra io, lui dietro a far la regia, io avanti a rifinire per gli altri e ad attaccare, ci capivamo bene, mi pare...». Giusto la finale di Wembley è la partita in cui Dino Sani attinge il puro sacrificio dell'inapparenza, ed è infatti la sua partita. Il Milan parte sfavorito rispetto ad un Benfica che ha vinto le due ultime edizioni della Coppa. Al solito, Rocco affianca alla pattuglia di giovani alcuni campioni molto navigati: Giorgio Ghezzi in porta e davanti a lui capitan Maldini; in centrocampo, oltre a Dino e Rivera, il quasi imberbe Trapattoni e il ruvido Benitez: in attacco José Altafini (che dicono paventasse in trasferta le difese avversarie) sostenuto da un'ala di ruolo, Bruno Mora, e da una finta ala con funzioni di copertura e interdizione, l'anziano Gino Pivatelli. Pochi minuti ed il Milan è sotto di un gol, per una sciabolata di Eusebio. Dino sembra immobilizzato insieme con la squadra, non alza gli occhi dal terreno se non quando, con un takle portato in ritardo, Pivatelli tocca duro Coluna, baricentro portoghese, di fatto escludendolo dalla partita. Piccato, furente, il Benfica preme alla cieca e prepara pertanto l'inizio della propria fine: gli spazi si allungano davanti nella stessa misura in cui il Milan si accartoccia all'indietro; lì Dino calamita la palla e subito la allunga su Rivera che a sua volta apre in diagonale, pescando sullo scatto Alfafini. Due volte di seguito, e due gol: l'italobrasiliano pieno di efelidi e col ciuffo alla Mazzola prova a sbagliare la seconda ma è troppo solo per temere delle sue caviglie e fa centro lo stesso.
La cerimonia del trionfo è una cosa modesta, quasi domestica, perché lo stadio è per due terzi vuoto. I londinesi hanno snobbato la finale, per disinteresse e per evidente complesso di superiorità: quattro anni prima, nel medesimo stadio, la nazionale italiana era stata accolta non dall'inno di Mameli ma dalla Marcia Reale: le era stata risparmiata Giovinezza, che un tempo seguiva quella nobile musica, ma l'infortunio aveva comunque prodotto un mezzo incidente diplomatico. Il sole adesso si vede solo a sprazzi, pioviggina; anche il collegamento televisivo è disturbato, il chiarore di Wembley assume in video una tonalità lattescente, la voce di Nicolò Carosio va e viene, spesso surrogata da studio coi toni asettici e compunti (mai sbracati né isterici, tuttavia) che usavano allora. Ecco il ricordo di Rivera: «Quando ci fu la premiazione, mi toccò coprirmi con un impermeabile. Dino si coprì con un soprabito. Non era giusto che a torso nudo fossimo restati proprio noi due, i più smunti della squadra. (...) E io, poi, sono quello che ci rimette di più: il soprabito di Dino almeno ha un taglio elegante, fa di lui un compito signore che con un sorrisetto vagamente ironico si congratula con l'atleta, ma il mio impermeabile è un disastro, a parte tutto è troppo abbondante, con una smorfia priva di qualunque allegria, affogo in un mare di grinze di nailon».
In appendice al suo libro, uscito due anni dopo la partenza di Sani dall'Italia, è menzionata una lettera di Dino a proposito dei loro presunti dissapori e relative maldicenze giornalistiche; a parte l'ortografia, ovviamente incerta, c'è scritto a chiare lettere: «Puoi stare tranquillo che io non faccio importancia dei jornalisti, io so molto bene che i jornalisti voglion fare confusione. Spero che ti camine sempre come prima, giocare il tuo bel calcio». Oggi Dino Sani ha settantaquattro anni, vive in Brasile, e avrà visto anche lui la «cerimonia» del Circo Massimo.

“il manifesto” 27.12.2006

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