17.7.12

Medio Oriente. Una modernità a colpi di sure (di Augusto Illuminati)

Jamâl Ad-dîn Al-afghânî (1838-1897)
Con la Storia del Medio Oriente, 1798-2005 (il Mulino, pp. 257, euro 13) Massimo Campanini unisce brillantemente - e mai momento fu ahimè più opportuno - la storia dei due ultimi secoli di colonizzazione e resistenza mediorientale e la filosofia politica sottostante, nelle grandi varianti di un adattamento all'Occidente o di una via islamica alla modernizzazione. In quest'ultima, contrariamente alle banalità correnti e alle proclamazioni ideologiche, rientra anche l'integralismo, di cui sono arcaiche solo le forme e la retorica, non gli obiettivi e i mezzi.
I movimenti messianici o riformistici di rinnovamento dell'Islam, ivi compreso il conservatore wahhabismo, si manifestano nell'universo arabo e islamico prima e a prescindere dal contatto con l'Occidente (metà del XVIII secolo), come moto interno di purificazione dei costumi e revisione dottrinaria, salvo a fondersi rapidamente con il nascente movimento anticoloniale. Vanno cioè considerati come forza riflessiva e autonoma, non semplicemente reattiva, e il loro volgersi alle origini e alle fonti scritte coraniche non è poi molto differente dai grandi movimenti occidentali di restaurazione dell'antico e della purezza evangelica, che in realtà furono momenti di rivoluzione culturale e politico-economica.

Genesi ottocentesca
Campanini, sempre attento alla necessità didattica di sottrarre la storia mediorientale alla nebbia di un presunto immobilismo e indifferenziazione geopolitica, segna alcune tappe fondamentali dei processi di modernizzazione e riforma contrapposti al colonialismo europeo e al suo alone culturale di «orientalismo»: le riforme di Muhammad Alì nell'Egitto post-napoleonico e la tortuosa opposizione liberale e nazionale al susseguente protettorato britannico, il movimento messianico del Mahdî Muhammad Ahmad in Sudan, che porterà nel 1885 alla conquista di Khartoum e alla morte del generale Gordon (prima vittoria anticoloniale sul campo, insieme ad Adua), le riforme ottomane (tanzîmât) fra il 1839 e il 1876, che cercano una mediazione fra «Legge» religiosa e legislazione laica preparando la strada alla rivoluzione dei Giovani Turchi agli albori del secolo successivo, la rivoluzione costituzionale persiana del 1906-1911, la resistenza anticoloniale nei paesi del Maghreb e nella Libia invasa tardivamente dagli italiani sotto Giolitti e più tardi durante il fascismo.
Parallelamente a questi eventi si sviluppa su vari piani un risorgimento politico-culturale (nahda), che si manifesta nel giornalismo, nelle istituzioni culturali, nella formazione di concetti politici moderni destinati a giocare in seguito un ruolo rilevante (nazione-patria, watan, e libertà, hurriyya), nonché in una rivalutazione della tradizione filosofica araba medievale, polemica verso l'interpretazione riduttiva di Ernest Renan, che pure aveva fatto riscoprire Averroè.
Significativo è il fatto che in tale discussione si impegnino a fondo due intellettuali quali Muhammad Abduh e Jamâl al-Afghânî, protagonisti eminenti del progetto di islamizzazione della modernità (salafiyya), che concepiva l'Islam come una ideologia perfettamente in grado di anticipare e governare la modernità senza sottostare a particolari restrizioni o modificazioni. Adepto di tale tendenza, sia pure nella variante più conservatrice, fu anche il siriano Rashîd Ridà che, trasferitosi al Cairo, influì in modo decisivo sul fondatore dei ben noti Fratelli Musulmani, al-Bannâ.
Venendo a tempi più recenti, Campanini nelle conclusioni privilegia - ancor più che il movimento salafita - quella che chiama efficacemente una teologia islamica della liberazione. I maggiori esponenti (analizzati più in dettaglio in due libri precedenti, Islam e politica, 2003, Il pensiero islamico contemporaneo, 2005) ne sono l'egiziano Hasan Hanafî, che mira a trasformare la teologia in antropologia e ideologia rivoluzionaria, passando da una concezione verticale a una orizzontale per cui il tawhîd (unicità di Dio) è interpretato come distruzione del dispotismo, l'iraniano sciita Alî Sharîatî che legge nel profetismo monoteista il primo riconoscimento del ruolo decisivo delle masse nella storia, e soprattutto Muhammad Mahmûd Tâhâ, cui si deve una rilettura del Corano tanto originale quanto indispensabile per una riforma dell'Islam dall'interno. Questo pensatore e agitatore politico sudanese, che fu fatto giustiziare dal dittatore militare Nimeiry nel 1985, sostenne che, contrariamente alla tesi corrente rivelazionistica per cui le sure posteriori abrogano quelle anteriori, nel Corano vanno distinte due parti, una universale e anteriore (quella meccana) e una posteriore, condizionata dall'esperienza organizzativa medinese e ormai storicamente esaurita - con il che la sharîa viene largamente svuotata, ferma restando la sacralità del «Libro».

La sovversione dei miscredenti
La vera e propria storia politica del XX secolo, con la chiara esposizione dell'articolazione dei protettorati nel primo dopoguerra e l'ovvia centralità della questione palestinese nel secondo, sino ai più recenti sviluppi iracheni e libanesi, occupa la maggior parte dei capitoli e ci limitiamo qui a segnalare alcune definizioni poco consuete a chi si sia formato sulla letteratura orientalistica à la Lewis o, a livello ancora peggiore, sulle veline in stile Magdi Allam o agente Betulla. Per esempio, la netta differenza fra il salafismo e il riformismo dei Fratelli Musulmani da una parte e i gruppi fondamentalisti contemporanei come al-Qâ'ida dall'altra e persino tra il fondamentalismo violento degli anni Settanta e il terrorismo degli anni Novanta. Salafiti e islamisti integralisti condividono gli obiettivi ma non la strategia, puntando i primi a una islamizzazione dal basso mediante la propaganda e l'organizzazione sociale, i secondi a una islamizzazione dall'alto mediante la lotta armata e la sovversione dei governi «miscredenti». Laddove tali organizzazioni non godano del sostegno popolare, scivolano facilmente verso il terrorismo.
Diversa è la composizione sociologica degli stessi gruppi islamici militanti degli anni Settanta, di provenienza urbana e di istruzione medio-alta, rispetto ai giovanissimi di origine contadina e di bassa cultura degli anni Novanta, prodotti dell'emarginazione e della repressione.
Tale proletarizzazione accentua il carattere terroristico e il loro isolamento rispetto alle masse arabe e musulmane, anche se non va ignorata la loro diffusione negli ambienti dell'emigrazione anche di seconda e terza generazione, dove incontrano radicate frustrazioni e maggiore libertà d'azione rispetto ai regimi polizieschi dei paesi di origine. Questa tendenza è accentuata dalla difficoltà delle organizzazioni islamiche moderate di farsi valere legalmente a causa della repressione dei governi arabi, terrorizzati da qualsiasi movimento politico-religioso, e trova naturalmente molteplici occasioni di indignazione e proselitismo negli errori e crimini commessi dall'imperialismo, soprattutto dall'amministrazione Bush e dai governi israeliani di Sharon e Olmert.

“il manifesto” 5.9.2006 

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