1.7.12

Wu Ming: la Somalia negli occhi degli italiani (1903 – 1936).

Brani da una riflessione di Wu Ming (nome collettivo di un gruppo di scrittori impegnati a sinistra) dal suo sito intitolato al generale vietnamita Giap.
Il testo integrale era stato pubblicato nel n. 5 di “(nuova rivista) letteraria”, l'ultimo costruito da fondatore Stefano Tassinari, scomparso nel maggio scorso, nella sezione monografica Paesaggio, colonialismo, letteratura. (S.L.L.)
Donne in Somalia
«Una Colonia, un territorio di dominio, vale non soltanto per quello che è, ma anche per quello che può essere. Nella intuizione della sua funzione, nella visione del suo sviluppo, sta la ragione dello sforzo che essa può richiedere allo stato dominante, dei sacrifici che essa reclama dagli uomini che si sono votati a servirla. Saper vedere è, per i forti, volere, e, per chi abbia intero il senso della responsabilità, appassionatamente volere». Comincia così uno dei primi capitoli di Orizzonti d’Impero, resoconto di cinque anni da governatore della Somalia (1923-’27), che Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon pubblicò per Mondadori nel 1936.
Saper vedere è volere. La formula, ripulita del suo afflato prometeico, rivela il ruolo centrale che il paesaggio ha svolto nel compiersi dell’impresa coloniale, dai tempi di Cortés fino ai giorni nostri. Paesaggio inteso non come elemento materiale – sinonimo di ambiente o di territorio – ma come prodotto culturale, percezione collettiva che estrae significati dal suolo e dalle piante. Un paesaggio che non si plasma soltanto con l’ascia e con il cemento, ma ancora prima con le storie e con le idee, piantando paletti concettuali tra selvaggio e addomesticato, bello e brutto, sacro e profano. Un paesaggio che, di rimando, influenza pratiche e pensieri.
Nel mondo anglosassone esiste una vasta tradizione di studi sul rapporto tra landscape e identità nazionale, su come questa si costruisce a partire dallo sguardo che i cittadini gettano sulle montagne e i fiumi della Patria, montagne e fiumi che a loro volta contribuiscono a trasformare in cittadini gli uomini che li guardano, suggerendo l’idea di un “confine naturale”, di una “culla della civiltà Tal dei tali”, di un legame privilegiato tra una certa stirpe d’uomini e un determinato ambiente.
Lo stesso meccanismo si ritrova nella formazione delle identità coloniali: dominatori, dominati, sudditi, assimilati […]
Gli avventurieri e i fuggiaschi del Vecchio Continente, che popolarono il Nord America nel corso del XVII secolo, avevano in testa un’immagine ben chiara del Paradiso terrestre: un giardino bello e ordinato, dal quale Adamo ed Eva erano stati cacciati verso un mondo caotico e selvaggio. Compito dei loro discendenti era trasformare di nuovo la Terra in quell’Eden perduto. Secondo il principio del “vacuum domicilium“, chiunque si dedicasse a tale sforzo sopra un suolo “vuoto”, lo faceva suo grazie alla cura e alla dedizione (husbandry).
Pertanto, la prima “strategia visiva” messa in campo dai coloni, consisteva nel vedere di fronte a sé uno spazio vuoto e selvaggio. Ma poiché quello spazio era tutt’altro che vuoto, questa strategia ne presupponeva un’altra: includere nel paesaggio anche i nativi, guardarli come se fossero “natura”, di modo che la loro azione sul territorio apparisse come un fenomeno naturale quanto l’alternarsi delle stagioni. Così facendo gli europei si sentivano liberi di occupare quello spazio “vuoto”, con una conseguente contrazione dell’uso della terra da parte dei nativi, dunque un infittirsi delle foreste, che in tal modo potevano essere viste come ancora più selvagge, per appropriarsi così di uno spazio  più vasto. Cancellando il paesaggio degli indigeni, negandolo alla vista, era possibile sostituirlo con un ambiente primitivo, un territorio disordinato pronto a farsi possedere da chi lo avrebbe trasformato in un giardino (e in una tomba).
A distanza di trecento anni, lo sguardo dei coloni italiani sulle terre dei Somali utilizzò una versione riveduta e corretta di quell’originaria strategia del vuoto.
Bernardo Valentino Vecchi, nel 1930, riporta queste impressioni sulla città di Mogadiscio: «Si è molto fabbricato e su un ottimo piano regolatore, riuscendo così a sottrarre gli europei dal vivere in case arabe, spesso a contatto con indigeni… vera piaga per noi che non dobbiamo mai dipartirci dal concetto di mantenere alto il prestigio del bianco, ad ogni costo. Fra pochi anni Mogadiscio avrà larghe e dritte strade ombreggiate da cocchi che le daranno il civettuolo e pittoresco aspetto di una vera cittadina equatoriale. Il coloniale appassionato rimpiange molti aspetti pittoreschi della colonia che la civiltà invade sempre più. Fortuna che basta mezz’ora per giungere fra uomini nudi, placidi e silenziosi, che vivono indifferenti a tutto nelle ombrate accolte di conici tucul sul fiume…»
Quegli stessi indigeni che nel contesto urbano – dove non è possibile assimilarli alla natura – sono considerati vicini imbarazzanti, lungo il fiume sono invece placidi, silenziosi, indifferenti come tronchi d’albero. Elementi di quel paesaggio pittoresco che è motivo di rimpianto per il coloniale appassionato.
Fuori dalla città, infatti, si stendono spazi immensi, infiniti, omogenei e quindi vuoti, in quanto privi di segni riconoscibili. «L’alba ci trova su l’alta duna di Brava di dove ci soffermiamo ad ammirare uno dei più bei colpi d’occhio della colonia: la cittadina candida, raccolta e protesa sul mare immenso, mentre un altro mare, parimente azzurro, così velato di nebbie mattutine, e sterminato, si stende al di là della duna: l’infinita boscaglia.»
Non diversa – se si esclude la tonalità emotiva – è la descrizione del porto di Chisimaio scritta da Bruno Barilli nel 1931: «Che squallore – una vera tabula rasa. Non un segno di vita. Kisimaio si nasconde, si difende: piccolina, incolore, sommersa dalla sabbia».
Quando però dalla tabula rasa emerge una presenza umana innegabile (in quanto deposita sul paesaggio evidenze “agricole” riconosciute anche dagli italiani), essa viene minimizzata come irrilevante. Nello sguardo di Vecchi le rive del Giuba sono talmente feconde e produttive che agli indigeni basta niente per farle fruttificare.
«Il terreno della piana, che all’aspetto esteriore è poco promettente, non appena irrigato, si è tramutato per contro in orti verdissimi e lussureggianti di cui un grandissimo numero è dovuto anche solo a rudimentali lavori irrigui di nessun conto, eseguiti dagli indigeni rivieraschi.»
Appena un anno dopo, quelle stesse opere agricole “di nessun conto” venivano attribuite da Bruno Barilli ai progressi che la valle del Giuba aveva conosciuto dopo essere passata dalla Gran Bretagna all’Italia: «Verso l’interno invece è tutt’altra cosa [rispetto allo squallore della costa]. Questo estremo lembo di colonia ha subito in pochi anni una trasformazione incredibile. Risalendo il corso del fiume le opere agricole han fatto progressi rapidissimi.»
Da notare che Barilli è al suo primo viaggio in colonia, dunque non può riscontrare quei “progressi rapidissimi” in base alla propria esperienza. Eppure, incapace di attribuirli agli indigeni – di vedere cioè la loro capacità di trasformare il paesaggio – li mette sul conto dei brillanti successi italiani.
Un’altra versione della strategia del vuoto, infatti, è quella che nega l’esistenza di un paesaggio indigeno in quanto i nativi non sarebbero consapevoli di esso, non avrebbero cioè quella capacità di vedere il territorio, descritta da De Vecchi nel testo che ho citato in apertura.
Scrive ad esempio Giuseppe Zucca (1926), nel raccontare la sua visita al Villaggio Agricolo Duca degli Abruzzi, sullo Uebi Scebeli: «Al nostro giungere, una moltitudine di gente nera e lustra sotto il sole meridiano lavorava, vigilata da pochi bianchi, alla costruzione di un canale terziario. Era un andirivieni affiatato e disciplinato di formiche umane, delle quali ognuna portava il suo piccolo carico di terra per alzare la doppia gobba dell’argine. Quella moltitudine operosa serviva inconsapevolmente a questo alto sogno di bellezza latina».
[…]
Va da sé che questo annientamento strategico del paesaggio altrui si riversa anche sulla resistenza concettuale e pratica dei nativi di fronte a tale annientamento: essa è sconosciuta oppure non riconosciuta. A latere della sua esperienza nei lavori di canalizzazione, il bellunese Edoardo Costantini si lamenta, nelle lettere alla famiglia, di quanto sia difficile istruire la manodopera locale, poiché i somali, appena imparato il mestiere, se ne vanno così come sono venuti, dopo pochi mesi, “senza che si riesca a capirne il perché”. Secondo Vecchi “indurre a lavorare i somali in modo che rendano è pressocché una utopia”, specie se si tratta di pastori nomadi. Questi, non a caso, vedono un paesaggio molto diverso dagli italiani: per loro la ricchezza non è la terra coltivabile, ma un pascolo in boscaglia dotato di un pozzo d’acqua, quella stessa infinita boscaglia dove Barilli non vede altro che orizzonte: «Quanto orizzonte. Qui lo spazio non è caro. Non è l’aria preziosa e tassata delle nostre città. Là, in fondo all’orizzonte, dove finisce il nostro dominio, a tre ore di macchina da qui, accade che si presentino armati gli uomini delle tribù limitrofe. Contestazioni di confine. Diritti di pascolo. Intrighi dei Ras vicinanti». Eppure, proprio i “diritti di pascolo” e le “contestazioni di confine” dovrebbero dimostrare che quello spazio è in realtà prezioso, e che il conflitto per conquistarlo è tutt’altro che un semplice intrigo.
Un’altra strategia per trasformare il territorio in paesaggio coloniale consiste nel tradurre in sguardo una qualche versione di determinismo ambientale, cioè la teoria secondo la quale il colonialismo europeo era nella natura delle cose, e la Natura stessa lo invocava con le sue caratteristiche. Una tesi che, in forme più “accettabili”, riesce a trovar spazio ancora oggi, quando ad esempio si sostiene che furono i grandi spazi e la spinta demografica europea a rendere inevitabile l’espansione coloniale in Nord America. La (presunta) verginità dei luoghi è una caratteristica che ben si presta a questa lettura (dato che, nella mentalità dell’epoca, una vergine altro non è che una ragazza da marito, un corpo in attesa di restare in dolce attesa).
Ecco ancora Vecchi: «La foresta di Mansùr è quanto di più bello e di più africanamente suggestivo ci si possa attendere. Nessuna descrizione dell’immaginoso e sventurato Salgari supera l’impressione profonda suscitata da questo meraviglioso intrico di vegetazione imponente. Vi è stata tracciata una strada da noi, dopo la cessione del Giubaland da parte degli Inglesi che l’avevano lasciata inesplorata. Noi per primi abbiamo violato la verginità di questa barriera di tronchi [...] di cui si ebbe ragione soltanto a colpi di scure».
Preoccupato da quello stesso determinismo ambientale, Edoardo Costantini confida ai parenti i suoi timori: «Io spero, prima che il sole tropicale abbia da indigenirmi, di scappare in Italia.»
Giuseppe Zucca, invece, per un intero capitolo, descrive le donne somale come prodotti della terra a disposizione della madrepatria:«Belle, bellissime donne – come già da millenni le montagne e le vallate della Penisola – produce all’Italia, ottima buongustaia, la sterminata pianura della Somalia, voluttuosamente distesa sotto il potente sole dell’Equatore». Su questo punto, però, bisogna notare come il maschilismo sopravanzi l’atteggiamento coloniale, dato che pure le donne italiane vengono considerate come prodotti della terra […]

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