26.8.12

"Sussurri e grida" di Bergman. Un film reazionario (Rossana Rossanda)

L'articolo che segue, esempio notevole di critica militante, fu pubblicato per la prima volta sul "manifesto" l'8 novembre 1973 e ripubblicato sullo stesso quotidiano molti anni dopo, il 31 luglio 2007, in una estiva rubrica di rievocazioni. (S.L.L.)


La forma assoluta e bellissima del dolore
Il vantaggio dell'età non più verde è la memoria. Quella vera, fatta di esperienza personale; non quella mutuata dai documenti. Così, vedendo Sussurri e grida di Bergman e sentendo parlarne come di pochi altri film, vengono in mente le vicende della «critica comunista» o «militante».
Proviamo a pensare: dopo la resistenza, Sussurri e grida sarebbe stato accolto, e bene. Uscivamo dai film fascisti con i relativi telefoni bianchi, e non è che il nuovo cinema realista precludesse la scoperta di altri filoni, che ci erano stati vietati, dagli schermi e dalle librerie, per troppi anni. Insomma, era il «politecnicismo» dei tempi migliori, ricezione attiva, non spaventata, non acritica. Poco dopo, con la guerra fredda, Sussurri e grida sarebbe stato coperto di improperi. Non era Stalin che aveva detto all'Achmatova che le poesie d'amore riguardano solo colui che le scrive e quella o quello che le ha ispirate, per cui non dovrebbero essere stampate più che in due copie? Figurarsi una morte di cancro, o cirrosi epatica che sia, con relative angosce familiari. Bergman sarebbe stato additato come l'obbrobrio del cosmopolitismo decadente. E andiamo al '56: dopo il XX° Congresso, la critica militante avrebbe riaperto il discorso - possiamo giurarlo - in termini di «marxismo creativo». Vedete un po' cos'è la società svedese, quale isolamento, quale alienazione, quale angoscia. Questo Bergman è grande, fa un'analisi di classe della Svezia e non lo sa. Con il 1968-69 e la nuova sinistra saremmo tornati alla guerra fredda; ben altre gatte ha il proletariato da pelare che non i problemi della vita e della morte, e chi glielo fa dimenticare non è che una carogna socialdemocratica.
E oggi? Oggi anche i giovani, i compagni, parlano di Sussurri e grida e se non dicono che è un grande film, dicono che è «assolutamente da vedere». Perché? Qualcuno risponde, come all'epoca del «marxismo creativo», «perché riflette l'angoscia di questa società alienata». Ma è proprio vero? In verità, esso afferra anzitutto per la perfezione formale e la sobrietà della costruzione: per quanto giustamente male possa pensare Ugo Pirro della «critica estetica», senza il modo di dire una cosa, la cosa non è detta, e un film non è un film. Metà della forza di Sussurri e Grida sta nell'uso emotivo, violento, delle sontuose e lente immagini destinate a scoprire, per contrasto, l'insopportabilità delle situazioni-limite, l'agonia di Agnese, l'automutilazione di Karin. L'altra metà è non la denuncia della borghesia - che pure c'è, ed è la parte più debole del film - ma l'impatto con l'irrazionalità della malattia e della morte, della illusione di felicità, della solitudine. Tutte cose che il movimento operaio, rivoluzionario, mette fra parentesi. E con ragione, perché non è né una religione né una filosofia della vita.
Il guaio è, semmai, che spesso non sa di non esserlo, e coltiva la tentazione di ridurre ad una sola tranquilla sintesi società e persona, politica e morale: uno fa le barricate ed è risolto, lotta contro l'organizzazione capitalistica del lavoro e, zac, via la nevrosi (c'è poco da ridere, i paesi «socialisti» fingono di crederlo e guai a chi si permette di dubitarne). Duro, ma adulto, sarebbe riconoscere che la condizione dell'uomo, appeso fra vita e morte, questo suo dato biologico, astorico, il residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, è il limite oscuro che incontra, al limite del suo cammino, una emancipazione politica: la cui forza e missione non sta nel restituire l'uomo alla felicità, ma soltanto (soltanto!) liberarlo dall'intollerabilità della ingiustizia.
Poi, viene il resto, e ci sarà sempre qualche Bergman a ricordarlo. Solo che c'è modo e modo di ricordarlo. Quello di Bergman ci pare il più perfettamente reazionario. Nel senso che ormai - assai più che non fosse nel Posto delle fragole - egli fa ormai di tutto ciò che non è natura, pura corruzione. Le vere urla non sono quelle della malata, ma il pianto del prete, delle sorelle, le confessioni di aridità e disgregazione, le sofferenze diventate ferocia reciproca, l'orrore della propria condizione assunta come vizio. Questa è la sola forma in cui l'uomo, come coscienza e storia, si esprime. E nulla sfugge a questo giudizio: dove l'uomo tocca, contamina; marciume sovrapposto alla natura, il cui ciclo, per ineluttabile che sia, è il solo - come Anna - capace di pietà e continuità placata fra vita e morte. È il rifiuto di ogni mediazione attiva, di ogni cultura, di ogni valore che sia altro dal puro lasciarsi ingenuamente andare alla volontà di dio e delle stagioni. Non è reazione, questa? Lo è. Così composta e rivissuta, così fatta realtà in quattro donne (la materia umana più scoperta e dolente) da parerci bellissima - bellissima perché ci investe, come alcuni grandi poeti decadenti, in quella parte di noi che nella crisi profonda e storica della persona è dentro fino al collo, anche se vorrebbe non accorgersene. Bergman lo sa meglio di tutti; visto che di queste sofferenze, assolute, fa un prodotto perfetto, e ce lo vende.

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