24.8.12

Beckett e il suo attore (di Gianni Manzella)

Nel febbraio del 1990, a due mesi dalla morte di Samul Beckett, Gianni Manzella per “il manifesto” intervistò David Warrilow, l’attore beckettiano per eccellenza. L’intervista è memorabile perché ci fornisce oltre che una interpretazione di Beckett fuori dagli schemi, il significato etico del suo teatro, la storia di un rapporto, illuminazioni sul costume teatrale del tardo Novecento. (S.L.L.)

Un volto nel nulla

Non si scherza con il tempo. David Warrilow non ci scherza per niente.
«Sono sempre più persuaso che prima di nascere noi stabiliamo una specie di itinerario, in funzione di quel che vogliamo raggiungere. Dato che resta la libera scelta, si può cambiare un poco questo itinerario, ma io credo che nella vita incontro delle persone per avanzare nel cammino che ho scelto».
Il destino di David Warrilow si è chiamato Beckett. «Mi sembra di aver sempre saputo che quest'uomo stava per vivere nel mio stesso tempo. La prima volta che ho letto qualcosa di suo, era Aspettando Godot, ho capito che avevo a mala pena la scelta, era qualcosa più forte di me, bisognava che io recitassi i suoi testi. Era 1'inizio degli 60, Warrilow era a Parigi. «Mi avevano proposto di recitare in inglese Vladimir, uno dei protagonisti di Godot, ma alla fine il regista non ha avuto più i diritti e non lo si è potuto fare, ma... era già fatto, ero già preso».
L'incontro dell'attore con il teatro di Beckett è fatto da principio di occasioni mancate. Spettacoli a lungo provati, diritti negati... «Sembra che fosse inevitabile per me conoscere quest'uomo e che dovesse avere un'influenza profonda sulla mia vita». Da una di queste occasioni mancate vien fuori però il primo incontro con il maestro. «Doveva essere forse nel '62. Mi avevano chiesto se volevo fare il doppiaggio di un ruolo di Finale di partita, mi hanno portato a incontrare Beckett che mi ha semplicemente guardato e ha fatto segno di sì con la testa. Poi è passato ad altro, si è seduto per ascoltare una registrazione di Finnegans Wake di Joyce. Credo che non si ricordasse di questo incontro quando ci siamo conosciuti più tardi a Berlino, nel '76, e in effetti fu molto diverso. Fu quella volta che ho sentito qualcosa di profondo in quest'uomo».
Fu a causa del Dèpeupleur. Erano gli anni dei Mabou Mines, il gruppo che aveva fondato a New York con Lee Breuer, una delle formazioni cult della ricerca teatrale degli anni '70. Avevano deciso di fare una lettura di questo testo ma la cosa gli si era gonfiata fra le mani, cosicché alla fine, imbarazzati dai soliti problemi dei diritti, avevano chiesto ai giornali di non parlarne. «Beckett era molto curioso, aveva sentito parlare di questo spettacolo e voleva sapere di che cosa si trattava, voleva vedere la scenografia. Da quel momento abbiamo cominciato a scriverci, ho cominciato a fargli visita a Parigi tutte le volte che ci andavo e questo fino all'ultimo, l'anno scorso».
Si arriva così all'episodio più curioso del loro rapporto. Joseph Papp del Public Theater di New York gli aveva chiesto di fare una serata con pezzi di Beckett, da solo, ma lui aveva rifiutato. «L'aveva già fatto l'attore irlandese Jack Me Gowran, morto da poco. Il pubblico si ricordava di lui e non volevo, come si dice in inglese, entrare nelle scarpe di un morto. Allora ho risposto che avrei cercato un altro modo di presentare Beckett ma non l'ho trovato. Tutto d'un colpo mi è venuta l'idea di chiedergli qualcosa, ho deciso di rischiare. Mi ha risposto immediatamente da Tangeri dov'era in vacanza: ditemi meglio cosa avete in testa. Nella lettera seguente gli ho detto che avevo un'immagine in testa: un uomo solo sulla scena, illuminato in maniera che non si vedesse il suo viso, e che parla della morte. Beckett ha risposto che aveva calcolato il numero delle parole necessarie e purtroppo non aveva tempo, ma potevo prendere quel che volevo dalla sua opera, con la sua benedizione. Così ho lasciato perdere. Un anno più tardi, il giorno del suo compleanno mi ha spedito questo testo, A piece of monologue, dicendo nella lettera che l'accompagnava: ecco un frammento abbandonato e incompleto, non so a cosa vi possa servire, il titolo seguirà fra qualche giorno. E voilà, il titolo è arrivato qualche giorno dopo, era il mese di aprile del '79. In dicembre l'ho messo in scena».
Può apparire singolare che questa immagine sia diventata il protagonista quasi esclusivo degli ultimi testi dello scrittore. «Se l'immagine c'era prima non lo so davvero. Immagino che una delle cose che mi attiravano era la sensazione di solitudine che si aveva dai personaggi delle sue commedie». Con una vena di umorismo, no? «Cero, solitudine non vuole dire depressione». Era così anche lui? «Divertente, ah sì. Molto. Rideva soprattutto dolcemente, aveva una sorta di humour quasi nascosto, abbastanza irlandese, un po' briccone ma molto discreto, molto sotto voce. Era fine, molto fine. Si è voluto vedere in lui uno spirito di disperazione. Io non ce l'ho mai trovato. Era molto giocoso, aveva la tendenza a guardare le cose con un occhio del tutto originale. Giocava come un bambino».
Così dunque Warrilow è diventato un «attore beckettiano». «Non so cosa voglia dire. Io non mi sono mai visto sulla scena, dunque non so in cosa consista essere beckettiano. Credo di avere un fisico che si presta, certo, e una conoscenza intima del linguaggio irlandese, e questo conta, è il sangue di mia madre che scorre nelle vene. E so prendere sul serio quel che lui ha scritto. Mi sembra che molti attori credano che la sua scrittura sia, come dire, molto artificiale. Per me è qualcosa di molto diretto e inevitabile».
Segue sempre strettamente le sue indicazioni di messinscena? «All'inizio ho lavorato con registi che non facevano così, ne cambiavano completamente lo stile. A partire da A piece of monologue ho scelto di provare che cosa sarebbe successo seguendo assolutamente alla lettera quel che aveva chiesto, e il risultato fu notevole, per me. Ancora di recente, quando ho recitato L'ultimo nastro, ho seguito tutte le indicazioni che aveva dato l'ultima volta che lui stesso aveva diretto questa pièce. Era fantastico. Non voglio dire con questo che continuerò per sempre a lavorare in questo modo. Tutto dipende dall'occasione. Non ci sono delle regole». A volte forse in un testo ci sono cose che l'autore non conosce, che l'attore o il regista possono scoprire. «Ebbene sì, ho avuto questa esperienza a Parigi nell'86, per i suoi ottant'anni, quando si è allestito in francese Impromptu, Catastrophe e Quoi ou. Beckett aveva appena fatto Quoi ou alla televisione in Germania ed era in estasi, non c'era altro che le teste illuminate degli attori e decise di riprodurlo sulla scena. Ha completamente riscritto il testo, l'ha tagliato per tre quarti e ha totalmente cambiato la messinscena. Evidentemente tutti i registi vorrebbero fare altrettanto ma non ne avevano il diritto mentre era in vita. Adesso si vedrà».
Veniva mai a vedere gli spettacoli? «No, mai. Solo a Parigi è venuto cinque volte alle prove delle tre pièces. Ma è stata l'unica volta che mi ha visto sulla scena. Mai prima né dopo, neppure per A piece of monologue. Mi ha spiegato a Berlino che aveva una fobia di apparire in pubblico. Credo che non avesse bisogno di vedere le cose. Anche quando faceva la regia non vedeva gli spettacoli. Io, dal canto mio, mi dicevo sempre che la realtà della cosa valeva meno di quel che aveva in testa. E poi alla fine niente di fisico gli sarebbe piaciuto, l'immagine che aveva in testa era certo quel che preferiva e tutto il resto era delusione».
Qual è l'eredità di Beckett? «Per me personalmente quest'uomo ha talmente trasformato il teatro che ha aperto una porta interiore su me stesso. Credo che mi abbia donato una possibilità di espressione maggiore di ogni altro scrittore. Ho sempre l'impressione, quando recito Beckett, di toccare una risonanza che attraversa tutta una serie di vite, e questa è una cosa che sento soltanto con Shakespeare. Ho l'impressione di non recitare che me stesso. Non cerco di creare un personaggio ma semplicemente di respirare e di vivere sulla scena. Tocco delle cose che sono profondamente conosciute al fondo di me stesso. E ciò avviene in maniera del tutto naturale. Per esempio, al momento di recitare L'ultimo nastro ho scoperto che ho sempre conosciuto la vecchiaia e che la vecchiaia è sempre stata molto dolce, molto confortante, per niente triste, semplicemente una cosa che fa parte dell'esperienza umana. Credo anche che Beckett ha saputo mostrarci l'immensa poesia della banalità».
Anche il silenzio, il suo amore per la precisione... «È vero, una cosa mi ha attirato verso di lui: mi ha mostrato che la parte di me solitaria disciplinata e rigorosa, che tutto questo era molto bene, e del tutto raccomandabile e non bizzarro. Io avevo un po' paura della mia serietà: con Beckett mi sono reso conto che era preziosa. E ha corroborato qualcosa che sapevo nel mio fondo ma che non era per niente incoraggiato dal mondo moderno. Amo il lato monacale in Beckett, il suo lato eremitico».

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