29.9.12

Ferragosto alla Capanna Mara. A scuola da Gramsci (di Ferruccio Rigamonti)

Quest'estate - mi pare - le summer school politiche nate dall'anglofilia secondorepubblicana non si sono svolte. Oppure si sono svolte in sordina. Sono finiti, per sempre spero, i fastosi raduni rutelliani. I partiti ladri e screditati non hanno quasi niente da insegnare e, se lo hanno, devono farlo di nascosto.
M'è accaduto di leggere, per caso, proprio in questi giorni sul libro Gramsci vivo nelle testimonianze dei contemporanei, pubblicato da Feltrinelli nel 1977 e curato da Mimma Paulesu Quercioli, nipote del comunista sardo, il vivido ricordo di un altro tipo di scuola estiva.
Chi racconta è Ferruccio Rigamonti, nato nel 1902 e morto nel 1979. Rilegatore, dirigente prima dei giovani socialisti poi dei giovani comunisti milanesi tra il 1920 e il 1927, attivo nella clandestinità, Rigamonti fu deferito a Tribunale speciale che, il 20 febbraio del 1929, lo condannò a tredici anni di reclusione. Alla lettura della sentenza, il giovane rilegatore gridò rivolto ai giudici: "Viva il comunismo!". Ebbe così una condanna supplementare di cinque anni. Grazie ad un'amnistia, Rigamonti fu scarcerato dopo sette anni di prigione. Nel corso della Guerra di Liberazione si impegnò nella Resistenza e, dopo la Liberazione, militò nel PCI milanese.
A Rigamonti accadde di partecipare ad una concentratissima esperienza di scuola politica, alla Capanna Mara nell'alta Brianza. Si trattava (e si tratta) di un rifugio prealpino, a circa 1200 metri di altitudine, ove gli escursionisti milanesi sostavano nell'ascesa del monte Bollettone. Le differenze tra quella scuola, che aveva come maestro Antonio Gramsci (assistito da Luigi Longo), e quelle di oggigiorno mi sembrano molto marcate. (S.L.L.)

Il sentiero che conduce alla Capanna Mara, che si intravede in fondo
La scuola ebbe luogo, nella settimana di ferragosto del 1925, alla Capanna Mara, ben nota ai milanesi perché meta di molte gite domenicali. Era situata in una posizione comoda, facilmente raggiungibile e allo stesso tempo abbastanza isolata per essere poco notata dalla polizia che allora già cominciava a perseguitarci.
Io e Bruno Monfrini rappresentavamo l'organizzazione di Milano. Tra gli altri partecipanti ricordo bene Celeste Negarville e Bustico Domenico di Torino, Agostino No­vella e Bensi Pietro di Genova, Porcari e Cavestri di Par­ma, Ferrari e Magnani Aldo di Reggio Emilia, Fontana e Peioni di Bologna, Guizzi e Castellani di Firenze, Lorenzo Cuoco di Padova, Mannini di Siena, un compagno di Trie­ste, un altro di Verona e altri ancora dei quali non ricordo il nome. C'era anche Altiero Spinelli in rappresen­tanza dei giovani comunisti romani. Eravamo più di una ventina, tutti sui vent'anni, alloggiati alla garibaldina; an­che perché si viveva già in piena clandestinità.
Mantenevano i collegamenti, facendo la spola tra la Capanna e Milano, Pietro Secchia col nome di battaglia di Bottecchia (perché correva sempre in fretta) e Edoardo D'Onofrio che chiamavamo papà, perché, pur essendo qua­si un nostro coetaneo, possedeva già una maturazione e un'esperienza politica molto superiore alla nostra e inol­tre aveva nei nostri confronti un atteggiamento quasi paterno.
Le lezioni cominciarono subito. Ci si allontanava un po' dalla Capanna e su un prato ci si sedeva a semicer­chio attorno a Gramsci ed a Longo. Longo, infatti, fun­geva da "supplente" e si alternava con Gramsci nell'inse­gnamento. Che ci fosse tanto bisogno del loro aiuto ci accorgemmo subito, in quanto le lezioni di Gramsci bat­tevano in breccia le convinzioni che fino allora ci era­vamo formate. Accidenti che snebbiata! Non avrei mai creduto che in solo otto giorni di scuola avrei dovuto fare piazza pulita di un bagaglio ideologico immagazzi­nato in quasi un quinquennio!
Altro che previsione catastrofica, secondo la quale la società capitalistica avrebbe finito coll'essere vittima delle sue contraddizioni, lasciando inevitabilmente il posto alla società socialista sua erede storica e naturale! Gramsci ridicolizzò questa specie di automatismo, dimostrandoci la non automaticità dell'evento e la conseguente necessità di formare un partito saldo ed omogeneo strettamente le­gato alle masse popolari. La funzione del partito era essenziale per portare le masse alla lotta e alla vittoria. Ma per ottenere questo risultato era indispensabile non una valutazione generale e generica del problema ma una acuta e minuta analisi della società italiana; l'individua­zione dei suoi diversi strati sociali; la necessità di saper trovare per ciascuno di essi parole d'ordine e programmi d'azione atti ad interessarli e a mobilitarli, portandoli nella sfera di influenza del nostro partito.
Cosi imparammo a distinguere fra proletariato e sot­toproletariato, fra contadini, braccianti e salariati agricoli, mezzadri e coloni, nonché cosa noi dovessimo intendere e fare verso il ceto medio e le sue numerose suddivisioni. Dovevamo insomma cessare di fare di ogni erba un fa­scio se volevamo conquistare alla nostra causa la maggio­ranza degli italiani, neutralizzarne un'altra parte e ridurre al minimo numero possibile gli avversari da combattere decisamente.
Proprio il contrario dei "molti nemici, molto onore" mussoliniano.
Certo la via che Gramsci ci indicava e che Longo riba­diva nelle sue lezioni era tutt'altro che facile ed esigeva un impegno di attività e di studio che si contrapponeva nettamente alla faciloneria e genericità nel lavoro alle quali eravamo stati abituati sino ad allora. Infatti, la convinzione che sino a quel momento ci aveva guidati era quella del partito dei "pochi ma buoni", che alla fine le masse avrebbero riconosciuto come quello giusto.
Gramsci ci proponeva invece un partito che deve andare verso le masse, deve guidarle nella lotta, ma essere avanti a loro di un passo e non di due. In modo da non staccarsi mai dalla loro mentalità e dalla loro capacità di intendere.
Secondo me fu questo il principale insegnamento che traemmo da quelle lezioni…
Come ho già detto le lezioni duravano tutto il giorno e si protrassero per otto giorni consecutivi. Al mattino si faceva colazione tutti assieme con un po' di pane, polenta e latte sul lungo tavolo nel salone. La Capanna era infatti una capanna montana con una grande sala, due o tre stanzette al piano di sopra e un ampio fienile dove dormivamo tutti noi e anche quelli che venivano per le gite domenicali. Distaccato dal corpo centrale c'era una specie di capanno dove si raccoglieva il fieno nel periodo di raccolta e al quale si accedeva per una scala di quattro o cinque gradini. Era questo uno dei luoghi di riunione: sul primo gradino in alto sedeva Gramsci con a fianco Longo, sui gradini più bassi tutti noi con le nostre matite e un quaderno sul quale prendevamo gli appunti.
La lezione del mattino durava tre ore, tre ore e mezzo, poi si interrompeva per il pasto. Anche a mezzogiorno si mangiava sul grande tavolo, tutti insieme, senza tovaglia; arrivava il piatto con la polenta calda e, dato che eravamo tutti giovani con molto appetito, non aspettavamo certo che venisse fredda. Finita la colazione, si andava fuori per una mezz'ora di ricreazione e li si esprimeva tutta l'umanità di Gramsci. Non era molto più vecchio di noi, anche rispetto al più giovane del gruppo ci superava di appena dieci anni, poteva essere un fratello maggiore, e come tale si comportava. Non si dava arie, scherzava e giocava; ci dava "lezioni" sul lancio dei sassi. Ricordava le scene della sua Sardegna dove i pastori lanciano i sassi alla pecora riottosa che si stacca dal gregge per costrin­gerla a rientrare. Egli lanciava i sassi dal sentiero che conduce alla Capanna Mara con una tale precisione e una tale forza da superare tutti noi che pure eravamo fisicamente molto più robusti di lui. Si facevano anche altri giochi di forza: per esempio, al "braccio di ferro" aveva una mano che pareva una tenaglia, stringeva il polso dell'avversario in modo tale da costringerlo a mol­lare. Poi si raccontavano le barzellette, noi e lui, e si rideva di gusto. Vivevamo dei momenti veramente lieti e, anche se eravamo tutti giovani, non sentivamo minima­mente i disagi dell'isolamento; poi devo dire che aveva­mo piena coscienza di assistere a delle lezioni che sareb­bero state di grande utilità per noi tutti.
Finita la ricreazione si riprendeva a studiare, e in ogni lezione veniva dato largo spazio alle domande, ai chiarimenti. Senza che mai Gramsci perdesse la pazienza. Alcuni di noi non riuscivano a capire immediatamente le cose; allora interveniva anche Longo, anche lui con molta calma; insomma volevano che il corso di lezioni desse i migliori risultati possibili. Alle cinque, quando comincia­va a venir buio, bisognava rientrare perché non avevamo mezzi di illuminazione. Si consumava il pasto della sera, quando eravamo soli, cioè quando non erano presenti altri escursionisti, allo stesso tavolo si continuava a di­scutere. Il proprietario era quasi un compagno, sapeva chi eravamo e in sua presenza si poteva parlare liberamente…
Vorrei dire ancora qualcosa di Gramsci come mae­stro: perché lo era nel vero senso della parola. Non met­teva in difficoltà nessuno; era sempre pronto ad ogni chiarimento che gli venisse richiesto. Era un grande capo di partito, perché non solo sapeva spiegare e chiarire, ma soprattutto dava l'esempio. Noi giovani eravamo di­sgustati dal contegno del Partito socialista di allora nel quale convivevano una quantità di tendenze e di concetti, in cui nessuno riusciva a capire cosa si dovesse fare. Anche molti dirigenti socialisti che predicavano bene raz­zolavano poi molto male. I giovani sono esigenti nei con­fronti dei loro capi: li riconoscono se vedono in loro anche un esempio di comportamento. E Gramsci fu pro­prio questo: un maestro che insegnava soprattutto con l'esempio. Fino alla sua morte in carcere.
La maggior parte dei giovani compagni che partecipa­rono al corso della Capanna Mara, furono arrestati. Ma anche nelle prigioni fasciste continuò la lezione di Gram­sci: sapevamo che era stato arrestato ma tutte le notizie che ci pervenivano su di lui erano di un comportamento esemplare, fiero, di grande serietà politica e morale…

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