13.9.12

Parlare male di Garibaldi (di Alberto Banti)

Raccontano che un tempo non si potesse “dir male di Garibaldi” e l’espressione era diventata proverbiale. Credo che non sia così da diversi anni e che le revisioni storiche antigaribaldine siano da altrettanto tempo frequenti, facili e non di rado anche facilone. Non mi riferisco, ovviamente, ai riti celebrativi, quelli del 2007, per i 200 anni della nascita dell’Eroe, o quelli dell’anno appena trascorso, inquadrati nei 150 anni dalla nascita del Regno d’Italia: lì – com’è giusto che sia – le parole usate dalle autorità sono esclusivamente d’ammirazione e di gratitudine; ma basta ascoltare qualche intervento anche nei convegni collaterali oppure leggere articoli divulgativi sulla stampa quotidiana per scoprire che la smitizzazione è già realizzata e che essa è spesso contigua alla demolizione o (quando a parlare o a scrivere è gente di chiesa) alla demonizzazione. Alberto Banti che commentò le celebrazioni bicentenarie sul “manifesto” nel 2007 forse di tutto ciò non s’era accorto. Il suo articolo è costruito su tesi condivisibili (“Garibaldi è uomo del suo tempo e tipico del suo tempo è il culto della violenza e della guerra”), sostenute – nello spazio breve di una pagina di giornale - con buoni argomenti e documenti; ma il tono è quello di chi sta facendo chissà quale trasgressione, di chi sta violando un sacro interdetto. E un po’ dà fastidio. (S.L.L.)
  Un mito inattuale
nel segno della violenza e del dolore
Duecento anni fa, il 4 luglio 1807, nasceva a Nizza l'eroe dei due mondi. Celebrato oggi come uno dei padri dell'Italia moderna, appartiene in realtà a un passato definitivamente chiuso Leader del Risorgimento nazionalista, Garibaldi interpretò senza riserve il culto della guerra. Rimuovendo questo aspetto, rischiamo di trasformare la sua figura in un goffo santino repubblicano
1807-2007. Duecento anni. Due secoli. Non è poco: diverse generazioni, con culture che cambiano, valori che si trasformano, obiettivi e sensibilità che variano. Garibaldi appartiene a una di queste generazioni lontane, essendo nato, appunto, il 4 luglio del 1807: eppure di lui si continua a parlare come se fosse un nostro contemporaneo. Oggi, per esempio, al Gianicolo, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, depone una corona ai piedi del grande monumento che raffigura un Garibaldi pensoso a cavallo; poi, al Senato, il sottosegretario ai beni culturali Andrea Marcucci, presidente della Giunta per le celebrazioni garibaldine, e il senatore Valerio Zanone, hanno il compito di commemorare ufficialmente «l'eroe dei due mondi». E sul sito appositamente allestito dal Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi (www.garibaldi.200.it), Marcucci presenta così l'iniziativa: «Spero che questa manifestazione suggelli la definitiva consacrazione di Garibaldi, patrimonio di tutti gli italiani, quale indiscusso simbolo della patria e della nazione».

Un nobile disinteresse
Tutto ciò è evidentemente segno della straordinaria forza del mito garibaldino, tuttora capace di colpire, così come ha fatto nel 1982, quando sono stati Craxi e Spadolini a promuovere la celebrazione del primo centenario della morte di Garibaldi; nel 1948, quando egli è diventato il simbolo del Fronte popolare; nel 1932, quando il regime fascista ne ha celebrato, con grande fasto, il cinquantenario della morte; nel 1907, quando sono stati ricordati i cento anni dalla nascita; o ancora, nel 1895, quando è stato Francesco Crispi a onorare Garibaldi inaugurando proprio il monumento al Gianicolo, davanti al quale oggi si svolge una nuova cerimonia. Ma quali sono gli aspetti di lui che colpiscono e ne fanno un mito così duraturo? La sua franchezza, certo; il suo coraggio; la sua abilità militare; e poi la sua onestà; il suo nobile disinteresse; il non aver tratto, dalla fama conquistata con le sue gesta militari, alcun particolare vantaggio personale. Non sono cose da poco; anzi sono valori che oggi conviene guardare con ammirazione, e perfino con «stupita» ammirazione. Eppure a osservare ciò che ha fatto, e ancor più lo spirito con il quale l'ha fatto, viene da pensare che Garibaldi sia lontano, anzi lontanissimo. Viene da pensare che tra la cultura politica di Garibaldi e le culture politiche italiane di inizio millennio (e forse anche tra la mentalità di Garibaldi e il più generale «comune sentire» attualmente dominante) ci sia un vero abisso.

La vida del hombre
Bisogna ascoltarlo, Garibaldi, mentre va al fondo delle sue più rarefatte convinzioni ideali. È allora che, nella Prefazione alle sue Memorie , scrive: « La guerra es la verdadera vida del hombre » (La guerra è la vera vita dell'uomo). Frase forte, certo. E coraggiosa, anche. Ma riflettiamo per un momento: quale politico di oggi vorrebbe mai pronunciare una frase del genere? Credo quasi nessuno, e certo non «le massime cariche dello Stato». Per nostra fortuna, la cultura che domina adesso è piuttosto quella della pace. E paradossalmente, è proprio in nome di questa «egemonia culturale» che le missioni di guerra si trasformano, miracolosamente, in missioni umanitarie o di pace, mentre i ministeri addetti si chiamano «ministeri della difesa». Nell'Ottocento le cose vanno diversamente. I ministeri si chiamano, senza tante storie, «ministeri della guerra»; e il mito della guerra volontaria - come ha mostrato George L. Mosse, uno dei più grandi storici del XX secolo - è la figura che domina l'intero immaginario politico dell'epoca che va dalla Rivoluzione francese agli anni compresi tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale. Ma c'è di più. Oggi si ha paura della morte. Si ha paura della malattia, del dolore, dell'invecchiamento. Le persone pubbliche non vogliono farsi vedere vecchie, doloranti, sofferenti. Men che meno vogliono apparire perdenti. Quando perdono, devono essere abili nel far dimenticare le sconfitte, non le devono certo esibire come se fossero stimmate vivificanti. Ma nell'Ottocento, nella peculiare cultura politica che si formò intorno all'idea di nazione, e che alimentò una grandissima parte della cultura risorgimentale, le cose non andavano così. Non è che allora non si avesse paura della morte o della sofferenza; è che quelle erano dimensioni consuete, alle quali si sapeva bene di non poter sfuggire; che si conoscevano, e non si temevano ciecamente, né si rimuovevano in fretta e furia. C'era un'intera tradizione che spingeva in questa direzione, ed era la tradizione cristiana. Se oggi Mel Gibson affronta la Passione di Cristo con toni da pietismo splatter, le reazioni oscillano tra lo spaesamento e l'orrore; invece tra Settecento e Ottocento la Passione di Cristo attraversava una fase di intenso revival, capace di influenzare profondamente il discorso politico nazionalista. E così, a quell'epoca, i termini «sacrificio», o «martirio», messi in corto circuito con espressioni come «crociata» o «guerra santa», finivano per indicare la grande esperienza attraversata dai combattenti caduti onorevolmente per una giusta causa politica, com'era considerata quella patriottica. Se tutto ciò apparteneva in generale al nazionalismo ottocentesco, era ancor più intimamente proprio di un movimento che si denominava «Risorgimento», parola che - all'inizio dell'Ottocento - aveva un solo significato, quello religioso di «Resurrezione». Ciò che dicevano i leader politici risorgimentali si ispirava a questa trama narrativa: «è necessario che le nostre sofferenze (politiche e militari) siano testimonianza (martirio significa proprio questo), affinché la nazione italiana possa scuotersi dalla caduta (la decadenza politica e militare) e, attraverso la passione dei suoi eroi, possa rinascere a nuova vita». Questo era un discorso nel quale anche Garibaldi credeva. E questo è il motivo per il quale il Garibaldi sconfitto (militarmente o politicamente), nell'Ottocento era quasi più popolare del Garibaldi vittorioso. Perché lui era questo: un eroe bello e perdente. E nella sua bellezza e nella sua sconfitta stava una grande parte del suo irresistibile fascino. E questo è anche il motivo per cui capita così spesso di incontrare immagini ottocentesche di Garibaldi nei sembianti di Cristo sofferente; perché le stimmate della sconfitta erano per lui (e per il movimento nazionale risorgimentale) testimonianza di una fede che non moriva neanche davanti ai peggiori disastri. Può sembrare strano che un mangiapreti come Garibaldi fosse immerso in un discorso e in un immaginario così intensamente derivato dalla tradizione cristiano-cattolica; ma il discorso nazionale ottocentesco ricavava forza proprio dal suo prendere in prestito figure che appartenevano a quella tradizione religiosa. E d'altro canto, indipendentemente dalla sua opinione su Pio IX o sulle gerarchie ecclesiastiche, come tutti gli altri leader nazionalisti anche Garibaldi parlava con decisione questo linguaggio del sacrificio e del martirio. Ascoltiamolo solo per un attimo: «Nullo, Cairoli, Montanari, Vigo, Tucheri, del vostro nobile sangue è rossa la terra degli schiavi, ma il sublime esempio del vostro eroismo non è perduto per questa gioventù destinata a compiere ciò che voi sì gloriosamente iniziaste. (Delle) vittime che sono i martiri d'una causa santa, i coraggiosi ne raccolgono il sangue, vi tingono le fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la memoria e ... la vendetta. E Dio alle volte paga tardi, ma paga giusto». Che cosa stava dicendo qui, come in molti altri passi dei suoi numerosi testi e discorsi? Stava celebrando il bollettino mortuario dei «suoi» martiri, cioè dei suoi compagni caduti in qualcuna delle numerose battaglie combattute al suo fianco; e stava dicendo ancora di più: stava dicendo che, affinché i bambini potessero capire il vero valore del sacrificio per la patria, era necessario che i combattenti sopravvissuti immergessero le fasce per i neonati nel sangue dei caduti, per avvolgerle poi intorno ai corpicini degli infanti, i quali, in quel modo, avrebbero assorbito i valori (coraggio, dedizione, spirito di sacrificio, prontezza a offrire la propria vita) di cui la patria aveva bisogno.

Marinismi estremi
È un'immagine di una violenza desituante. Vero che è un'immagine figurata, di un marinismo un po' estremo. Ma è anche vero che appartiene in tutto e per tutto alla temperie di un'epoca. Cosicché di nuovo si impone la domanda: quale leader politico, oggi, potrebbe pronunciare frasi del genere? e nel caso, quale italiano o italiana le accetterebbe a cuor leggero? Per fortuna quasi nessuno, credo. Ma il punto sta proprio qui: mentre la cultura esibita da Garibaldi era condivisa dalla maggior parte di coloro che - nell'Ottocento italiano - si occupavano di politica, oggi quel sistema di valori - fondato sul bellicismo, sul sacrificio, sul culto della morte e della sofferenza testimoniale - non fa parte né della sintassi della maggioranza degli attori politici, né di quella condivisa dalla maggioranza dell'opinione pubblica. La verità è che un profondo fossato antropologico ci allontana dal Garibaldi leader di un movimento nazionalista com'era il Risorgimento ottocentesco. Se ce ne dimentichiamo, se rimuoviamo la pratica e il culto della violenza, che Garibaldi interpretava senza riserve, non possiamo fare altro che trasformare la sua figura in un goffo e irrigidito santino repubblicano. Riconoscere quella distanza antropologica non deve indurre a ignorare Garibaldi, né deve autorizzare a «parlar male» di lui. Deve invece far misurare tutta l'enorme differenza simbolica e valoriale che separa da gran parte dei valori oggi correnti i suoi ideali, il suo modo di concepire la politica come guerra, e il campo politico come uno spazio occupato solo ed esclusivamente dal soggetto «nazione».

Né compagno né maestro
Per questo non credo che «celebrare» Garibaldi come il padre di una repubblica del XXI secolo sia un modo convincente di avvicinarsi a lui. Semmai c'è bisogno di prendere sul serio quello che ha fatto; c'è bisogno di rispettare le ragioni per le quali lo ha fatto; e c'è bisogno di riflettere attentamente su di esse. Facendolo, si deve concludere che Garibaldi non è più nostro compagno; e che difficilmente può essere ancora - in tutto e per tutto - un nostro maestro. Non so se si tratti di un bene o di un male: dico che mi sembra un fatto che, in definitiva, non è né saggio né giusto nascondere o rimuovere.

il manifesto 4 luglio 2007

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