10.9.12

Via l'angoscia da Lucrezio (Roberto Andreotti)

«La poesia del sublime Lucrezio si estinguerà/ quando un unico giorno porterà il mondo alla distruzione». Così Ovidio - con aggettivo densamente tematico - sulla inossidabilità del De rerum natura: nel frattempo però, quanti interpreti, per volerlo fissare «di loro» con presunta trasparenza, hanno in realtà ottuso il fulgore didascalico di quella poesia e neutralizzato il suo orientamento tattico (istruire e attivare un lettore agonisticamente altrettanto sublime, secondo la bella definizione di Gian Biagio Conte); e a un certo punto, addirittura, ecco spuntar fuori un anti-Lucrezio in Lucrezio, «attraente abisso» (come dice ironicamente Charles Segal) in cui annegare un bel po' del programma filosofico del poema, con la scusa di dar la caccia a incongruenze e contraddizioni interne e con tanti saluti alla sua dimensione conflittuale di cammino cosparso di ferite e cicatrici. E per venire ai più modesti risvolti scolastici che sempre ci toccano, ancora per tutti gli anni settanta nei licei quant'era tenace e losco quel monopolio didattico-ministeriale del Lucrezio «poeta dell'angoscia», per cui compiti in classe sul pessimismo lucreziano, adozioni di manuali con letture critiche per lo più "nazionali" e naturalmente molto zelo ligio nel divulgare l'equivoco: il poema rispecchia la personalità patologica del suo autore! Che questo virus del biografismo (nella fattispecie anche molto vittoriano) sia ormai debellato lo dimostra anche la traduzione di saggi specialistici come Lucrezio. Angoscia e morte nel «De Rerum Natura», di Charles Segal (il Mulino, pp. 302, L. 40.000), pubblicato a Princeton nel 1990 (invero con titolazione più stringente). Con una corsa serrata fra le maglie della poesia e della far macologia lucreziane, Segal apre a un'intellezione del poema più letterariamente orientata, oltre che ricettiva della migliore bibliografia recente (e molti sono i contributi italiani, come egli stesso riconosce nella Prefazione dedicata): in particolare, sgominando appunto gli epigoni di quella tendenza romantica di considerare un'opera letteraria come una descrizione biografica della vita emotiva del suo autore, Segal ha buon gioco anche nel rovesciare la tesi che vuole il racconto lucreziano della morte (e del processo che porta a essa) come «il segno di una personalità morbosa»: semmai esso partirà «dalla terapia stessa che il poema cerca di praticare».
Per decenni hanno attribuito le angosce al medico, piuttosto che ai lettori che egli intende guarire: chi darà ascolto alla tesi di Segal capirà perché Lucrezio «fa in modo che noi, suoi lettori, proviamo sulla nostra pelle che cosa significhi cadere preda dell'ansia incontrollabile quando il tocco della morte è sopra di noi».

“alias”, 31 ottobre 1998

P.S. Excusatio non petita
Non ho mai partecipato da insegnante alla diffusione dell’immagine, di ascendenza cattolica (San Girolamo), di un Lucrezio nevrotico, angosciato e pessimista, se non addirittura un po’ matto. Preferivo il Lucrezio poeta della ragione dell’aureo libretto di Luca Canali (Editori Riuniti) e perfino l’ottimismo relativo attribuitogli da Giancotti e avevo elaborato la formula dell’epicureismo lucreziano come filosofia della salvezza. Ma che quella moda negli anni 70 e 80 fosse diffusa e che contaminasse latinisti di sinistra inclini al compromesso è accertato e, pertanto, Roberto Andreotti fa bene a polemizzare. Sono convinto che Lucrezio (come Leopardi) resta uno spartiacque: antipatie, fraintendimenti e interpretazioni di comodo congiurano contro la sostanza illuministico-rivoluzionaria del suo messaggio. (S.L.L.)

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