30.11.12

Ambientalismo e scienza. Amici o nemici? (di Marcello Cini)

E’ scomparso alcune settimane fa Marcello Cini, scienziato di riconosciuto prestigio e uomo di sinistra (era stato tra i fondatori del “manifesto”), a mio avviso assai poco ricordato. In un documentato e polemico articolo del 2002, sulla “rivista del manifesto” diretta da Lucio Magri,  Cini ragionava sull’attacco condotto da una parte della comunità scientifica contro l’ambientalismo (spesso definito “fondamentalista”) e degli interessi non solo scientifici che lo muovevano. Mi pare che, nonostante gli anni trascorsi, le cose che Cini scriveva conservino intatto il loro valore. (S.L.L.)   
Marcello Cini
1.
Negli ultimi trent’anni, con la nascita e lo sviluppo dei movimenti ambientalisti, è andata diffondendosi e consolidandosi nell’opinione pubblica dei paesi industrializzati la coscienza dei pericoli derivanti dalla incontrollata distruzione dell’ecosistema terrestre e della sua biodiversità, dalla vorace dilapidazione delle risorse, dall’incosciente accumulo di rifiuti nell’aria, nell’acqua e nella terra, che minacciano il livello di benessere e la qualità della vita raggiunti dalla civiltà negli ultimi tre secoli. Esempi ormai ben noti di questi pericoli vanno dall’effetto serra, con i mutamenti climatici che ne derivano, all’enorme potenziale distruttivo costituito dalle testate delle armi nucleari accumulate e dalle scorie radioattive delle centrali che nessuno sa come smaltire, dal diffondersi di nuove epidemie prodotte da agenti patogeni di origine sconosciuta ai possibili effetti dannosi dell’immissione nella biosfera di nuovi organismi transgenici incontrollabili.
Lo shock dell’11 settembre ha poi portato alla scoperta dell’estrema fragilità delle società ipertecnologiche e alla messa in evidenza che le radici di questa aberrante e catastrofica forma di attacco al potere economico e militare dell’Occidente affondano nel terreno della crescente esclusione della maggior parte del genere umano dal godimento dei frutti della ricchezza prodotta dal suo meccanismo di sviluppo, una esclusione resa più frustrante e disperata in quanto accompagnata dalla spoliazione delle ricchezze naturali del Sud del mondo da parte del Nord e dalla dissoluzione della trama che, fornendo identità culturale e motivazioni ideali ai suoi membri, teneva insieme il tessuto sociale delle società precapitalistiche. Si comincia dunque a percepire che la nascita dei movimenti di protesta, la consapevolezza dell’accentuarsi delle disuguaglianze fra ricchi e poveri, il moltiplicarsi di reazioni incontrollate di panico ai rischi e ai disastri imprevisti che colpiscono nuovi soggetti, costituiscono una obiettiva minaccia per la stabilità di questa società e colpiscono gli enormi interessi che ne sono coinvolti.
Per reagire a questa minaccia i poteri forti hanno bisogno di una nuova strategia. Fino ad ora, infatti, riconoscendo la fondatezza delle preoccupazioni espresse dal variegato fronte dell’ambientalismo e la legittimità delle sue denunce, i centri del potere economico avevano risposto con una infusione di ottimismo, assicurando che gli strumenti scientifici e tecnologici per risolvere i problemi sollevati erano disponibili o facilmente realizzabili, e investendo capitali nelle industrie del risanamento ambientale e delle nuove tecnologie per l’utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia e del risparmio energetico. Ma con il dilagare del pessimismo, la vecchia strategia non funziona più. Occorre dunque da un lato delegittimare l’ambientalismo, affermando l’infondatezza scientifica delle sue analisi, e dall’altro combatterlo sul terreno morale in nome di un’ideologia forte, trasformandolo in nemico. L’ambientalismo viene fatto diventare, in quest’ottica, un’ideologia fondamentalista, con tutto il carico di associazione simbolica con il Male che questo aggettivo comporta, e antiscientifica.
La nuova strategia mira in sostanza a conquistare il mondo della scienza e a integrarlo nel sistema di potere dominante, proponendo ad esso un ruolo di primo piano all’interno di un modello di sviluppo che bandisce i problemi ambientali dalla sua agenda, dichiarandoli privi di fondamento fattuale e fonte di pericolose instabilità economiche e sociali. Negli Stati Uniti questo cambiamento di strategia inizia nei primi anni ‘90, e si traduce dieci anni dopo nell’adozione da parte di Bush di una serie di misure – la denuncia degli accordi di Kyoto, la ripresa delle perforazioni petrolifere in Alaska, il rifiuto di ratificare gli accordi sulla difesa della biodiversità, e altre ancora – contro l’ambiente.

2.
In Italia la svolta acquista una clamorosa visibilità perché coincide con l’avvento al potere della destra, e con il salto sul carro del vincitore anche di esponenti autorevoli del mondo scientifico. Ho già avuto modo di polemizzare sul «manifesto» con gli autori di ben quattro interventi comparsi sul numero di giugno de «Le Scienze» che attaccano violentemente l’ambientalismo e la sua ideologia definita oscurantista, irrazionale e antiscientifica. Non è un caso che due degli autori, il fisico Renato Ricci e il chimico fisico Franco Battaglia, siano stati immediatamente ricompensati dal nuovo ministro dell’ambiente Matteoli con la nomina rispettivamente a commissario e a presidente del comitato scientifico dell’Agenzia per la Protezione Ambientale. E non è nemmeno un caso che uno dei primi atti del nuovo commissario sia stato quello di ordinare ai suoi funzionari di mandare al macero tutte le copie dei rapporti del World Watch Institute che l’Agenzia aveva contribuito a pubblicare nella passata gestione. Bruciare i libri è una vecchia abitudine della destra.
Una seconda iniziativa del nuovo corso si intitola Manifesto per un nuovo ambientalismo umanista, liberale e cristiano, per una vita buona, promosso, oltre che da alcuni personaggi recentemente convertiti alla destra, anche, purtroppo, da uno scienziato prestigioso come Edoardo Boncinelli. In questo documento si dichiara che l’ambientalismo ha la colpa, tra le molte altre, di negare il fatto che l’uomo sia stato «creato ‘a immagine e somiglianza’ del suo Creatore». È un’affermazione singolare, per scienziati che insegnano come la nostra specie derivi dai primati che 4 o 5 milioni di anni fa scesero dagli alberi della foresta tropicale africana adottando la posizione eretta. A maggior ragione non si capisce come possano sottoscrivere l’affermazione che «negando questa verità, [che l’uomo sia creato a immagine e somiglianza del suo Creatore, n.d.r.] l’ambientalismo riduce la fede a un pastone di superstizioni animistiche, la morale a una serie di prescrizioni biologiche». Ma non era proprio di questo che il vescovo Wilberforce accusava Darwin? La prossima mossa non sarà per caso quella di riconoscere che i creazionisti americani hanno ragione a chiedere che la versione biblica venga insegnata come teoria scientifica insieme all’evoluzionismo darwiniano?

3.
L’impianto teorico del Manifesto per una vita buona inizia con la costruzione di un nemico di comodo da poter demonizzare. La colpa principale del «fanatismo ambientalista» sarebbe infatti quella di farsi portatore di una «ideologia della paura» e di un «continuo e ansiogeno allarmismo». Il suo errore concettuale principale sarebbe quello di «pensare alle risorse come a un’entità determinata» e di immaginare che «il rapporto uomo-natura sia arrivato all’ultimo stadio della sua evoluzione» di modo che «non ci sarebbe che una sola alternativa: o arrendersi, rinunciando a progettare nuove avventure umane, o morire». Di qui nascerebbe «l’opinione che parte rilevante delle applicazioni della scienza andrebbe sospesa finché non vi sia la certezza assoluta che essa non comporti ‘alcun rischio’».
La tecnica adottata è semplice. È facile contrapporre a questi ambientalisti con l’anello al naso l’ottimismo di chi ha fiducia nella «fantasia creatrice e innovatrice dell’uomo e nella sua capacità di farsi carico in prima persona della responsabilità di governare il proprio ambiente». Ma che altro hanno fatto gli ambientalisti (quelli veri, gli unici che meritano questo nome, che da trent’anni si battono per salvare il pianeta dalla distruzione da parte degli amici degli estensori del Manifesto per una vita buona) se non indagare lo stato del pianeta con gli strumenti della razionalità scientifica, arrivando in questo modo a denunciare, per esempio, che non si può violare il secondo principio della termodinamica e dunque che la carrying capacity dell’ecosistema terrestre ha un limite che nessuna ‘iniziativa di individui ingegnosi’ potrà superare? E non è razionale denunciare che nessuna ricerca potrà inventare un modo di smaltire le scorie radioattive con vita media di migliaia di anni che si accumulano nei depositi senza che un giorno o l’altro i nostri pronipoti se le ritrovino nell’acqua da bere? O ancora che nell’ultimo secolo la percentuale di anidride carbonica nell’atmosfera è passata da 300 a 360 parti per milione, con un tasso di crescita cento volte superiore a quello degli ultimi 20.000 anni nel corso dei quali la concentrazione era variata da 180 a 300 ppm, e dunque che se non si fa qualcosa subito per invertire la tendenza si andrà presto incontro a mutamenti climatici catastrofici di origine antropica, che già si intravedono?

4.
Dopo questa premessa gli autori del Manifesto vengono al sodo. Mentre «il fondamentalismo ecologista sogna un ambiente statalizzato dall’alfa all’omega», essi sono convinti che «il dramma dell’inquinamento risieda nell’assenza del riconoscimento di diritti di proprietà sulle risorse ambientali». Questo programma si realizza restituendo «alle istituzioni più vicine ai cittadini le responsabilità per la tutela del territorio». Dunque, niente più «parchi nazionali costruiti a tavolino» ma «federalismo ecologico, che vada a rinsaldare quel rapporto unico e speciale che c’è tra una persona e la terra in cui nasce». Essi chiedono dunque che «i cittadini siano gli unici ad avere diritti sui luoghi in cui sono nati, cresciuti, vissuti» – e credono «che la negazione e l’esproprio di questi diritti corrisponde a un ordine illiberale». Detto più semplicemente, possiamo sintetizzare tutto questo con la parola d’ordine «Dieci, cento, mille Fuenti!». Che altro infatti significa lasciare libero ogni cittadino di trarre il maggior beneficio possibile dal suo pezzo di terra, dal suo scorcio panoramico, dal suo accesso al mare?
Oltre a ‘privatizzare l’ambiente’ la ‘nuova ecologia umanista’ enuncia altri due punti chiave. Il primo suona così: «Fondare le politiche pubbliche per l’ambiente sulla logica del calcolo costi-benefici». Sembra ragionevole. Non si può infatti non essere d’accordo sul principio: «Non è razionale ridurre i rischi arrivando al punto che le risorse necessarie per farlo potrebbero essere più efficacemente utilizzate per migliorare in altro modo la qualità della vita umana o dell’ambiente».
Il problema è tuttavia che sono in genere pochi, ricchi e potenti coloro che godono dei benefici, mentre sono molti, poveri e privi di potere quelli che devono sopportare i costi. Questo è vero sia su scala mondiale che su quella locale. I paesi industrializzati, ad esempio, godono dei benefici derivanti dall’immissione nell’atmosfera di enormi quantità di anidride carbonica, ma gli effetti, sia pure difficilmente quantificabili, delle instabilità climatiche derivanti dall’effetto serra devastano con gli uragani i paesi poveri della fascia tropicale come il Bangla Desh o il Nicaragua, e con la desertificazione quelli dell’Africa settentrionale o dell’Asia centrale. Un discorso analogo si potrebbe fare, ad esempio, per i costi pagati dai cittadini, in termini di danni alla salute e di rischi per incidenti derivanti dall’incentivazione alle industrie che producono beni inquinanti o insufficientemente sicuri, come quelle chimiche o quelle automobilistiche. Come si fanno i conti e soprattutto chi li fa?

5.
Il secondo principio dice: «Promuovere le biotecnologie agroalimentari come applicazioni irrinunciabili per produzioni di qualità, per la conservazione della biodiversità in agricoltura e per lo sviluppo socioeconomico dei Paesi più poveri e delle aree con condizioni climatiche sfavorevoli».
Questo è un altro punto centrale di tutta l’operazione e ne rivela i mandanti. In questa frase si mescolano infatti le due più spudorate bugie messe in circolazione dalle multinazionali dell’agroalimentare. Che le sementi transgeniche della Monsanto o della Novartis contribuiscano alla conservazione della biodiversità è la versione moderna della favola del lupo e dell’agnello. Queste industrie, e le altre due o tre che si spartiscono il 95% del mercato mondiale, rappresentano in realtà il pericolo maggiore per la salvaguardia della biodiversità delle piante alimentari. Ancorando l’uso delle sementi all’utilizzazione dei diserbanti e dei pesticidi da loro stesse prodotte, esse stanno infatti mettendo fuori mercato la stragrande maggioranza delle varietà naturali, che, una volta scomparse, non potranno mai più essere recuperate. Con la brevettazione, poi il mercato sarà irreversibilmente dominato da un numero di varietà diverse che si può contare sulle dita.
La seconda bugia è che le biotecnologie agroalimentari siano l’irrinunciabile strumento per promuovere lo sviluppo socioeconomico dei paesi più poveri. Che la fame nel mondo non provenga da una carenza di cibo è oggi una verità largamente riconosciuta: l’Occidente si dibatte con gli ‘esuberi’ e l’Unione Europea paga chi si astiene dal produrre. La Deutsche Bank, nel suo rapporto 1999 dice: «Gli Ogm vogliono aumentare la produzione in un mondo che sta annegando nella sovrapproduzione dei cereali». Ancora una volta dunque, i poveri vengono presi in giro. La fame nel mondo non verrà alleviata: essa dipende solo dal fatto che coloro che la patiscono non hanno i soldi per comprare il cibo necessario alla loro sopravvivenza, perché i ricchi non solo non comprano i loro prodotti a prezzi sufficientemente elevati, ma saccheggiano e distruggono le risorse naturali di biodiversità che costituiscono la ricchezza delle regioni tropicali più povere del pianeta.

6.
Una terza manifestazione della nuova strategia, più seria ma forse per questo anche più grave, viene direttamente da alcuni esponenti della comunità scientifica. Si tratta del Manifesto dell’Associazione Galileo 2001. Tra i fondatori figurano Renato Angelo Ricci, e Franco Battaglia, che già conosciamo. Tra i trenta firmatari figurano anche alcuni nomi assai noti del mondo della scienza ‘pura’ – e tra loro ci sono anche persone delle quali ho profonda stima come uomini e come scienziati – ma coloro che si occupano professionalmente di problemi connessi alla salute sono soltanto sette o otto, e quattro sono quelli in qualche modo legati a discipline tecnologiche. Sui temi che hanno un diretto impatto sulla vita della gente, dunque, molti parlano, diciamo così, per sentito dire. L’attacco all’ambientalismo è anche qui diretto.
«Un fantasma si aggira da tempo nel Paese, – leggiamo – un fantasma che sparge allarmi ed evoca catastrofi, terrorizza le persone, addita la scienza e la tecnologia astrattamente intese come nemiche dell’Uomo e della Natura e induce ad atteggiamenti antiscientifici facendo leva su ingiustificate paure che oscurano le vie della ragione. Questo fantasma si chiama oscurantismo. Si manifesta in varie forme, tra cui le più pericolose per contenuto regressivo ed irrazionale sono il fondamentalismo ambientalista e l’opposizione al progresso tecnico-scientifico».
I capi d’accusa comprendono temi già noti, ma anche, come vedremo, qualcuno nuovo che appare francamente singolare. Tra i primi figurano, al solito:
- il timore di cambiamenti climatici che, da milioni di anni caratteristici del pianeta Terra, sono oggi imputati quasi esclusivamente alle attività antropiche;
- le limitazioni alla ricerca biotecnologica che impediscono ai nostri ricercatori di cooperare al raggiungimento di conquiste scientifiche che potrebbero tra l’altro combattere gravi patologie e contribuire ad alleviare i problemi di alimentazione dell’umanità;
- il terrorismo sui rischi sanitari dei campi elettromagnetici, che vuole imporre limiti precauzionali ingiustificati, enormemente più bassi di quelli accreditati dalla comunità scientifica internazionale e adottati in tutti i paesi industriali;
- la preclusione dogmatica dell’energia nucleare, che penalizza il Paese non solo sul piano economico e dello sviluppo, ma anche nel raggiungimento di obiettivi di razionalizzazione e compatibilità ambientale nel sistema energetico.
Dei primi due abbiamo già parlato diffusamente. Stupisce soltanto, in un Gotha scientifico così autorevole, la ripetizione acritica di stereotipi pubblicitari diffusi dalle multinazionali interessate, come se si trattasse di verità indiscusse. Per quanto riguarda il terzo è anzitutto il caso di avvertire gli estensori del documento che dovrebbero andarci piano, di questi tempi, nell’accusare qualcuno di terrorismo. Si dovrebbero vergognare di usare questo termine per attaccare coloro che non condividono il loro ottimismo programmatico, quando di terroristi veri, oltre a quei fanatici disperati che si fanno saltare per aria con le loro vittime innocenti, ce ne sono già altri in giro che pochi osano nominare.
Venendo poi al merito della questione, può anche darsi che sia stato prematuro imporre limiti che potrebbero essere troppo stringenti per questo tipo di emissioni, ma non va dimenticato che gli effetti biologici dei campi estremamente deboli sono ancora tutt’altro che definitivamente chiariti, e che solo oggi si comincia a scoprire che la struttura dell’acqua, componente fondamentale ed essenziale di ogni organismo vivente, mostra una complessità assolutamente imprevista. È comunque vero che esistono per il momento problemi più urgenti e gravi, che richiedono l’investimento prioritario di risorse imponenti, ma si tratta proprio di quelli, come i primi due, che, guarda caso, i nostri galileiani considerano inesistenti o irrilevanti.
Per quanto riguarda infine la quarta accusa si tratta invece di una stanca ripetizione di speranze deluse, vecchie di cinquant’anni – tant’è vero che in nessun paese del mondo industrializzato si costruiscono nuove centrali nucleari – che ignora completamente il vero duplice drammatico problema irrisolto (che è il nucleo dell’opposizione degli ambientalisti all’uso dell’energia nucleare) dello smaltimento delle scorie delle centrali e della distruzione delle testate nucleari militari.

7.
Tre accuse sollevano invece a dir poco un certo stupore. La prima è di fomentare «la ricerca e l’esaltazione acritica di pratiche mediche miracolistiche che sono ritenute affidabili solo perché ‘alternative’ alla medicina scientifica». È un’accusa ridicola. Magari, vien da dire, avessero tanto potere. Perché invece non si discute seriamente di questo problema? Sono convinto, per esempio, che i nostri esagitati galileiani non sanno che l’Istituto Superiore di Sanità ha organizzato tre anni fa un Convegno sulle ‘Medicine non convenzionali’ nel quale sono state pacatamente presentate e discusse pratiche come l’agopuntura, la fitoterapia e persino (orrore!) l’omeopatia.
Certo, nessun ambientalista serio negherebbe gli enormi progressi compiuti dalla medicina ‘convenzionale’ negli ultimi decenni del XX secolo e che hanno contribuito notevolmente a uno spettacolare aumento della durata della vita nei paesi ricchi (in quelli poveri si muore ancora a quarant’anni). Non va dimenticato tuttavia che le ragioni che portano un crescente numero di persone a cercare sollievo ai propri malesseri (somatici, psichici o psicosomatici) al di fuori della medicina ufficiale non sono effetto di un malvagio complotto: non sarebbe il caso che i medici facessero anche un pizzico di autocritica? Non sarà che il modo in cui l’istituzione medica tratta i pazienti – come una officina di riparazione di auto alle quali basta cambiare il pezzo che si è rotto – non è precisamente ciò di cui un malato, che non è un’auto, ha bisogno per guarire, se è possibile, o per affrontare serenamente un male incurabile?
Antonio Damasio, neurofisiologo di fama mondiale, ad esempio, scrive a questo proposito nel suo libro L’Errore di Cartesio che «l’idea di una mente distaccata dal corpo [ha] foggiato il peculiare modo in cui la medicina occidentale affronta lo studio e il trattamento della malattia». E aggiunge: «Una visione distorta dell’organismo umano, insieme con l’esigenza di specializzazioni sempre più spinte, contribuisce ad aggravare l’inadeguatezza della medicina, piuttosto che a ridurla».
La seconda accusa – di volere «il permanere di una condizione di emergenza nel trattamento e nello smaltimento dei rifiuti di ogni tipo» – è invece scandalosa. Chi, se non il movimento ambientalista, si è battuto per anni contro le discariche di veleni che hanno devastato città e campagne del nostro paese, uccidendo centinaia se non migliaia di persone, dall’Acna di Cengio alla Montedison di Porto Marghera, dal Petrolchimico di Brindisi a quello di Augusta? Chi, se non Legambiente impegna ogni giorno migliaia e migliaia dei suoi soci a denunciare discariche abusive, inquinamenti di acque dolci e marine, depuratori mancanti o inoperanti? Chi, se non gli attivisti delle associazioni ecologiste, sono i protagonisti della battaglia per chiudere al traffico automobilistico privato quei centri storici che stanno diventando ogni giorno di più camere a gas, combattendo contro l’ottusa ignoranza di automobilisti col sedere incollato alla macchina, la gretta cecità di commercianti spaventati dal dilagare della grande distribuzione e gli enormi interessi delle industrie automobilistiche e petrolifere?
La lettura delle relazioni della Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti, presieduta per due legislature dal deputato verde Massimo Scalia, è agghiacciante. Al Nord sono le industrie, gli allevamenti intensivi, le amministrazioni locali che scaricano indisturbati rifiuti tossici, rifiuti urbani non riciclati, schifezze di ogni genere. Al Sud sono mafia, camorra e ndrangheta che gestiscono il lucroso traffico di rifiuti di tutti i generi. Tutta colpa degli ambientalisti? Altro che «soluzioni tecnologiche adottate da decenni in tutti i paesi industriali avanzati»: ma dove vivono i miei illustri colleghi?
La terza accusa infine – di «opporsi sistematicamente ad ogni tentativo di dotare il Paese di infrastrutture vitali per la continuità dello sviluppo e per il miglioramento della qualità della vita della popolazione» – è, a dir poco, assai ambigua e generica. Andiamo a vedere nel concreto, caso per caso, di quali grandi infrastrutture si tratta, e di chi e come le dovrebbe fare. Se gli estensori del documento sono, ad esempio, per il ponte sullo stretto di Messina, si documentino meglio: se ne analizzassero il progetto con lo spirito critico che usano nel loro lavoro di scienziati si convincerebbero che si tratta di un’opera faraonica, la cui realizzazione richiederebbe il superamento di ostacoli geologici, climatici ed economici forse insormontabili, e sarebbe soprattutto uno spreco spropositato di denaro, che potrebbe essere molto più utilmente investito a risolvere gli enormi problemi strutturali delle due regioni interessate. Se invece si tratta dei cantieri delle imprese di proprietà del ministro Lunardi, non si parla di scienza, ma di lucrosi affari privati.

8.
Vorrei concludere con alcune osservazioni che in qualche modo vanno incontro alle preoccupazioni di quegli scienziati di tutto rispetto e persone in buona fede, alcuni dei quali sono oltretutto ben lontani dal simpatizzare per l’ideologia e gli interessi della destra che oggi governa il nostro paese, che hanno firmato questi documenti.
La prima cosa che vorrei dire loro è che il movimento ambientalista, o per lo meno una parte fondamentale di esso, riconosce l’esigenza di dare alla ricerca scientifica un ruolo determinante per affrontare razionalmente ed efficacemente i grandi problemi ecologici che incombono sul nostro futuro. Non siamo luddisti, e pensiamo che la conoscenza del mondo fondata su criteri riconosciuti di razionalità e su regole metodologiche che garantiscano un giudizio oggettivamente fondato della sua validità, sia un patrimonio dell’umanità da difendere e da accrescere. Siamo tuttavia convinti, non per pregiudizio ideologico, ma sulla base di fatti incontrovertibili, che il contesto sociale ed economico in cui la crescita di questa conoscenza avviene oggi è profondamente mutato negli ultimi decenni del secolo appena finito rispetto ai tre secoli precedenti.
Gli elementi che caratterizzano questo mutamento sono, a mio giudizio, essenzialmente tre. Il primo è l’intrecciarsi sempre più stretto dei due momenti in cui tradizionalmente l’intervento umano nei confronti della natura si articolava: quello della conoscenza disinteressata (scienza) attraverso la scoperta dei suoi elementi costitutivi e delle sue leggi e quello della utilizzazione pratica di queste scoperte attraverso l’invenzione (tecnologia). Il secondo elemento è la graduale interpenetrazione tra la sfera propria di queste due attività umane che si occupano di ‘fatti’ e la sfera dei valori che stanno alla base delle norme (etiche e giuridiche) intese a regolare le finalità e i comportamenti degli individui nei loro rapporti privati e nelle loro azioni sociali. Il terzo infine è la crescente invasione di queste sfere, e la loro conseguente subordinazione alle ‘leggi del mercato’, da parte degli interessi economici. Non si possono dunque più usare le vecchie categorie per distinguere le attività dei diversi soggetti che contribuiscono al processo di crescita della conoscenza, e le loro responsabilità relative. Occorre, secondo noi, introdurre almeno due nuove distinzioni.
La prima è quella che deve essere fatta fra ricerca pubblica e ricerca privata, e di conseguenza fra scienziati controllori e scienziati controllati. Diversi sono infatti i diritti e i doveri che spettano agli uni e agli altri. Possiamo infatti ben dire che c’è una differenza fondamentale fra i ricercatori dipendenti o i consulenti di imprese private legati al segreto industriale e gli operatori degli enti pubblici di ricerca che dovrebbero rispondere dei loro programmi alla collettività che li finanzia, o per lo meno concordare con i suoi rappresentanti le scale di priorità da rispettare. Chi può negare che i primi hanno come dovere contrattuale quello di massimizzare i dividendi dei propri azionisti e i secondi, come minimo, dovrebbero attenersi alle norme deontologiche mertoniane dell’universalismo e del comunitarismo?
L’unico controllo efficace di questi ultimi sui primi sarebbe quello di istituire albi professionali separati per chi partecipa allo sviluppo di innovazioni destinate ad essere immesse sul mercato, e chi deve non solo identificare e valutare gli eventuali danni già prodotti o che potrebbero insorgere in futuro, ma anche investigare e prefigurare i diversi scenari (e i relativi gradi di incertezza) che dalla loro diffusione potrebbero a breve, o a lungo termine derivare. Ognuno è libero di stare da una parte o dall’altra, ma deve dirlo.
La seconda discriminante riguarda il brevetto. Fino alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1980, che ha concesso il primo brevetto su di un batterio geneticamente modificato, la materia vivente non poteva essere brevettata. Non solo. Si potevano brevettare solo le invenzioni (il risultato dell’ingegno), non le scoperte (ciò che esiste in natura). Nemmeno gli elementi transuranici (come il plutonio) che pure non esistono stabili in natura, sono mai stati brevettati, in quanto sono comunque trasformazioni artificialmente indotte in elementi naturali. A maggior ragione la regola dovrebbe valere per gli organismi geneticamente modificati, dato che si tratta sempre di modificazioni artificiali di organismi naturali. Si è trattato dunque semplicemente di un colpo di mano che ha permesso a un piccolo numero di privati di appropriarsi di beni comuni. È, d’altronde, quello che il capitalismo ha fatto fin dalla sua nascita.
Gli estensori di questi documenti, tutti favorevoli alla brevettabilità di ogni risultato che anche indirettamente potrebbe un giorno condurre a un prodotto da immettere sul mercato, sostengono anche che la scienza, per raggiungere una conoscenza oggettiva, deve essere disinteressata e libera da ogni condizionamento. A rigor di logica, dunque, se fossero coerenti con la loro definizione di scienza, dovrebbero aderire alla campagna degli ambientalisti per l’abolizione della brevettabilità degli organismi viventi. Non sembra infatti esserci altro modo per liberare la ricerca disinteressata, motivata dalla curiosità di capire come è fatto il mondo – un ideale che gli scienziati, a mio giudizio giustamente, rivendicano come proprio diritto-dovere – dai lacci che la costringono a seguire strade tracciate con il fine di produrre qualcosa che possa immediatamente trasformarsi in profitto.

“la rivista del manifesto” n.26, marzo 2002

Carlo Dionisotti. Filologia e passione politica (di Angelo D’Orsi)

Appartengo a quella schiera di giovani insegnanti di belle lettere che nei primi anni Settanta, usciti da Licei e Università ancora fortemente crociani, nel cercare la loro strada si imbatterono negli studi di Carlo Dionisotti, a partire dai saggi contenuti in Geografia e storia della letteratura italiana (tra i quali uno, memorabile, su chierici e laici) e li considerarono come una “chiave”. Non conoscevo allora le passioni civili del Dionisotti, ma in qualche modo le intuivo; per cui mi piace “postare” l’articolo di uno storico impegnato che recensisce un’antologia degli scritti politici dell’illustre filologo e critico. (S.L.L.)
Carlo Dionisotti
Carlo Dionisotti è stato davvero un personaggio, nel senso nobile del termine, ma anche per certi suoi caratteri, antropologicamente parlando, che facevano di lui una sorta di chierico vagante della cultura europea, ancorché saldamente connesso alla sua terra pedemontana. Nemico dei trasformismi – tipico male italico, soprattutto degli uomini di cultura – egli fu non soltanto eccelso studioso di lingua e letteratura italiana, capace come pochi di contestualizzare diacronicamente e sincronicamente, guardando a latitudini ed epoche diverse.
Amplissimi furono i suoi interessi, che coltivò leggendo, prima che scrivendo (attitudine rara: di solito gli intellettuali meno leggono e più scrivono, troppo intenti a scrivere per leggere, insomma…), e fu uomo di forti passioni civili, orientate innanzi tutto contro il fascismo, e, poi, per difendere i risultati della lotta epocale contro Mussolini, ma altresì le speranze che la guerra di Liberazione aveva suscitato.
Ne è prova l’utile volume appena uscito: Scritti sul fascismo e sulla Resistenza (Einaudi),  egregiamente curato da Giorgio Panizza; anzi, persino con ridondanza, che forse, in un teorico dell’asciuttezza come Dionisotti, avrebbe provocato qualche commento sardonico. Vi si raccolgono scritti di un doppio tenore: scientifico e militante.
In una lettera al “Mondo”, nel 1965, Dionisotti scriveva, serafico e fermo: «Non esiste filosofia o storia che non sia insieme e anzitutto filologia». Un insegnamento persino ovvio, che alla luce della sua biografia, appare di straordinaria forza, quasi cifra identitaria dell’uomo e dello studioso. All’insegna di questa inesauribile passione filologica – che altro non è che passione per la verità – Dionisotti ha affrontato sovente il tema rovente del fascismo, e, in parallelo, quello dell’antifascismo: la sua idiosincrasia verso il primo, da ogni punto di vista, non gli impedì di esprimere giudizi liberi e non di rado critici sul secondo. Ne abbiamo prova in questi testi, perlopiù editi, ma con qualche inedito, che coprono un arco cronologico ampio: oltre mezzo secolo (dal ’42 al ’95), ma invero la stragrande maggioranza si ferma al 1946. Ne risulta una volontà recisa di lotta senza quartiere contro il fascismo: «Vendicheremo quelli che sono morti con la rivolta armata contro la dottrina e gli uomini che li hanno gettato allo sbaraglio e sacrificati. E vendicheremo così quelli che sono morti contro di noi, contendendo la loro terra in Africa e Spagna, Grecia e Jugoslavia, alla nostra prepotente rapina». Così scrive in un foglio inedito del ’42. La stessa determinazione troviamo in ogni scritto coevo: l’angoscia della guerra, dei bombardamenti, della catastrofe incombente, non lo induce ad arretrare, o a chinar la testa come davanti a una fatalità ineluttabile. Ogni sua parola suona come una campana che vuole risvegliare i dormienti, sospingere
gli esitanti, rincuorare i dubbiosi. La battaglia al fascismo è una lotta rivoluzionaria: ora o mai più, insomma. Si tratta di cogliere l’occasione storica, e non sempre il movimento cui è vicino, GL e il PdA, sembrano in grado di farlo, se non a parole. Non basta proclamarsi rivoluzionari, come tendono a fare gli “azionisti”; occorre un paziente, concreto lavoro, in cui v’è il momento dell’intransigenza, e quello del compromesso; le armi della politica devono sostenere la politica delle armi.
Lo scritto più celebre è quello del 1944, sui Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà, dedicato alla morte violenta di Giovanni Gentile. Non vi si trova solo la difesa di un atto da molti esecrato, né una franca rivendicazione della “sentenza”: è il profilo di un uomo e di un’epoca, dipinto con analisi raffinata, in cui la figura di Gentile (verso il quale non manca la pietas), emerge come un protagonista cui tocca condividere le pesanti responsabilità storiche di un regime che lo ha «involto in quella realtà di crucci e di sangue». Dunque la morte è un atto di espiazione, terribile e inevitabile.
Anche la lucida analisi del postfascismo comprende un riesame storico ed etico del rapporto tra popolo italiano e fascismo: «non è solo un problema di epurazione, e tocca una grande massa», nella quale prevale la classe media uscita «umiliata» e «dissestata», priva della sua «sciocca illusione». Nel lungo dopoguerra, il diradarsi degli interventi dell’autore tradisce un crescente disincanto, la
rinuncia, via via più netta, al sogno di un’Italia, che liberandosi del fascismo, attraverso una guerra senza quartiere, si fosse infine sbarazzata anche di mali assai più vecchi. In questa chiave, Dionisotti non ebbe indulgenze nel ’68, non con i “contestatori”; ma con i professori che facevano i “compagni”. Nemico aspro della retorica non vide di buon occhio i Guido Quazza che stabilivano una continuità – ideologica e fittizia – tra lotta partigiana e movimento studentesco. Troppo era il rispetto per la serietà della conoscenza in Dionisotti per fargli accogliere tali semplificazioni propagandistiche.
Sicché, anche quando i suoi giudizi non possano oggi da noi essere (tutti) condivisi, meritano qualcosa di più del rispetto: una curiosa e appassionata attenzione, come a fonte preziosa per capire, e ragionare, fuori dai luoghi comuni.

“Liberazione”, 17 dicembre 2008

Matteo Renzi e il popolo degli impediti (S.L.L.)

Stamani in banca rete bloccata. Una decina di persone in attesa a chiacchierare sul Paese che va in rovina e sulla ladroneria dei politicanti e dei banchieri. Sono popolani, operai, camionisti, muratori e pensionate. Uno ce l’ha con Napolitano che avrebbe incamerato chissà quale incremento dell’appannaggio già regale. Un altro dice: “C’è questo giovane che vuole aggiustare le cose e se lo vogliono mangiare vivo. Già gli combinano tranelli”. Gli altri e le altre, con maggiore o minore convinzione, consentono.
Immagino che parlino di Renzi, e mi pare di risentire i discorsi dei tempi d’oro di Berlusconi. Anche allora si sprecavano i “si lu vuonnu mangiari”. Quanto all’oggi ho vagamente avuto notizia di una polemica a proposito della pubblicità di Renzi sui grandi giornali che invita a votare al secondo turno delle primarie e immagino che nel conversare bancario sia quello il tranello cui si allude.
Tornato a casa vedo in tv un tal Giuliano da Empoli, uno scrittore del comitato Renzi, che fa la vittima: “Non c’è neanche l’invito a votare Renzi. Vogliamo incrementare la partecipazione e a questo fine facciamo girare il modulo per la registrazione facile di chi vuol votare”. Non dice che per regolamento al ballottaggio delle primarie possono votare solo i votanti del primo turno e che la deroga riguarda esclusivamente chi non ha potuto partecipare per ragioni indipendenti dalla volontà.
Di certo sono regole bizantine, che aprono spazio a contenziosi, ma a nessuna persona ragionevole passa per la testa che la deroga riguardi centinaia di migliaia di persone. Quelli che non han votato per malattia, viaggi per lavoro, lavoro senza viaggi, assistenza ad infermi saranno poche decine di migliaia; gli altri di certo non hanno avuto altro impedimento, se non la propria mancanza di volontà.
In verità non è per gli impediti che Renzi e i suoi comitati comprano a peso d’oro le pagine dei giornali: hanno il vento in poppa e spregiudicatamente invitano al voto tutti, sul Corsera e altrove, lasciando intendere che cattivi son gli altri, quelli che nun ce vonno sta’ . Fanno un po’ come il Cavaliere prima maniera che, nel dubbio, mandava Mike Bongiorno e Raimondo Vianello a fare i comizi nelle trasmissioni leggere e che, alle proteste altrui, gridava al teatrino della politica, ai comunisti che vogliono tappare la bocca ai personaggi più popolari.
Lo stile è sempre quello, per Berlusconi come per Renzi: spregiudicatamente ci si finge vittime perché non ci si contenta di una vittoria regolare, si vuol mostrare da subito che le regole sono un impaccio, un intralcio, una trappola piazzata dai “politici” per impedire il ben fare.
Il gran puttaniere vellicava il popolo delle televisioni, il sindaco bullo lancia messaggi agli impediti, sperando che quello italiano sia un popolo di impediti. Forse non si sbaglia.

P.s.
Immagino che qualcuno tra i pochissimi lettori possa legittimamente immaginarmi sostenitore di Bersani e pensi di replicare dicendone peste e corna. Lo anticipo. Stimo l’ex ministro dell’industria, persona cristallina (accettava contributi da Riva e li registrava), ma non mi fido del Pd e alle primarie non ho partecipato. Non credo che voterò Bersani alle elezioni vere. Non mi pare tuttavia che egli ostenti il disprezzo delle regole che era caratteristica di Berlusconi e resta una sua maleodorante eredità.

Riesumazioni. L'assassino di Lincoln (di Roberto Zichittella)

Ho ritrovato un curioso e gustoso articolo in un ritaglio de “il riformista”. Ne posto gran parte. (S.L.L.)
J.W.BOOTH
Altro che "riposi in pace" e "gli sia lieve la terra". Non c'è requie per i defunti nei tempi dei processi postumi, dei processi alla storia, delle serie televisive, che ci hanno reso familiari anatomopatologi, autopsie, ricognizioni di salme, scheletri, carcasse e frattaglie. Oggi una riesumazione e un esame del Dna non si nega a nessuno. «Si scopron le tombe, si levano i morti», scrisse nell'Ottocento il poeta patriottico Luigi Mercantini. Era un inno a Garibaldi, non si parlava ancora di zombie, ma rilette oggi le sue rime appaiono una anticipazione profetica.
In Italia, fra le riesumazioni più recenti, si ricorda quella di Pico della Mirandola, l'umanista e filosofo morto nel 1494. Due anni fa venimmo a sapere che, dopo attente indagini scientifiche nelle quali furono anche coinvolti i Ris dei Carabinieri, Pico della Mirandola fu avvelenato con l'arsenico. Il caso, davvero coki dopo circa mezzo millennio dal fattaccio, non sembrò appassionare l'opinione pubblica. Interessò qualche storico, ma per fortuna non si fecero avanti bizzarri magistrati affamati di riflettori e neppure lontani discendenti dell'illustre defunto in cerca di vendetta o di giustizia.
Ora, dagli Stati Uniti, arriva la notizia che presto ci potrebbe essere una doppia riesumazione eccellente, legata a uno degli episodi più clamorosi della storia americana: l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, ucciso il 14 aprile del 1865, cioè 145 anni fa. Nessuno per fortuna disturberà il sonno eterno del barbuto presidente all'Oak Ridge Cemetery di Springfield, nell'Illinois. La riesumazione riguarda infatti l'assassino di Lincoln, che si chiama John Wilkes Booth, e suo fratello Edwin. L'obiettivo è accertare se le spoglie che riposano nel cimitero di Green Mount, a Baltimora, sono veramente quelle di John Wilkes Booth. Per scoprirlo sarà necessario riesumare i resti di Edwin e confrontare i campioni di Dna.
Se verrà accertata la compatibilità dei codici genetici, nulla di nuovo sarà aggiunto a quanto già sappiamo. Cioè che John Wilkes Booth venne scovato e ucciso dodici giorni dopo la morte di Lincoln. Se invece non sarà possibile dimostrare il legame di parentela dei due uomini diventerà più credibile un'ipotesi che periodicamente si affaccia tra gli storici e gli appassionati di "gialli" della storia. L'uomo sepolto a Baltimora, cioè, non sarebbe John Wilkes Booth, ma forse un suo sosia. L'assassino di Lincoln, quindi, sarebbe riuscito a fuggire all'arresto per vivere da uomo libero e indisturbato per altri 38 anni, fino al 1903.
Il "via libera" alla riesumazione è stato dato dai discendenti di Edwin Booth, che oggi vivono parte a Filadelfia e parte nel Rhode lsland. Una di loro, Joanne Hulme, ha detto al quotidiano “Philadelphia Enquirer”. «Sono assolutamente favorevole a riesumare Edwin, scopriamo la verità e chiudiamo questa storia». La storia va avanti da molto tempo. «È una di quelle che non sembra morire mai», commenta Jan Herman, storico principale del Navy Medical Department.
In effetti la presunta fuga di John Wilkes Booth cominciò a circolare grazie a un libro pubblicato già nel 1907. Nel 1991 si occupò della vicenda un popolare show televisivo della Nbc. Nel 1995 una richiesta di riesumazione da parte dei discendenti dei Booth fu respinta da un tribunale. Ora forse sarà la volta buona. E se restano dei dubbi sul reale luogo di sepoltura di John Wilkes sembra possibile provare a estrarre campioni del suo Dna dalle tre vertebre cervicali che sono conservate Museo nazionale della sanità e della medicina di Washington.
Sia Edwin che John Wilkes Booth erano attori.
Nacquero entrambi a Bel Air, nel Maryland. Edwin nel 1833, il fratello cinque anni dopo. Calcare il palcoscenico era una tradizione di famiglia. Il padre, Junius Brutus Booth, era un attore immigrato dall'Inghilterra nel 1821. Fra i due fratelli, Edwin era quello di maggior talento. Fu considerato tra i più bravi attori della sua epoca, eccelleva nel repertorio di Shakespeare, tanto da essere considerato un insuperabile Amleto. Nel 1869 Edwin fondò anche un teatro a New York, tra la 23a strada e la 6a Avenue, che portava il nome di famiglia: Booth's Theatre.
John Wilkes fece il suo debutto in palcoscenico a 17 anni. Bello, aitante, gli erano congeniali i ruoli di azione. Ebbe successo, fece parecchi soldi, fu elogiato dai critici teatrali. Ma per lui il teatro non era tutto. La politica era la sua grande passione. Fervente simpatizzante dei Confederati (i Sudisti della guerra di secessione esplosa nel 1861), John Wilkes Booth fu anche a favore dello schiavismo e si trovò inevitabilmente contrapposto al presidente Lincoln, eletto presidente nel novembre del 1860. Nel 1863 Booth fu anche arrestato durante una tournée a Saint Louis per aver pubblicamente mandato «all'inferno» Lincoln e il «suo maledetto governo».
Dopo il primo mandato Abramo Lincoln venne rieletto "a valanga" nel 1864 e Booth, in contatto con gli ambienti legati ai Confederati, cominciò a maturare l'idea di colpire il presidente, da lui considerato alla stregua di un "tiranno". Booth pensò prima a un rapimento, da attuare nella residenza estiva del presidente, per ottenere in cambio la liberazione dei prigionieri sudisti. Ma la gestione dell'ostaggio sarebbe stata troppo complicata e a Booth sembrò più praticabile la soluzione dell'omicidio.
L'occasione si presentò il 14 aprile 1865, quando Booth venne a sapere che Lincoln e la moglie avrebbero assistito alla commedia Our American Cornili in scena al Ford Theatre di Washington. In teatro Booth era di casa, tutti lo conoscevano e non gli fu difficile muoversi indisturbato in assoluta libertà per appostarsi vicino al bersaglio. Durante lo spettacolo, poco le dieci di sera, Booth riuscì ad entrare nel palco del presidente e gli sparò alla nuca. Tentarono di fermarlo, ma lui fu lesto a saltare dal palco e a darsi alla fuga (si disse anche che nel salto si ruppe una gamba, ma pare sia solo una leggenda). Fuori dal teatro lo aspettava un cavallo e Booth fuggì al galoppo nella notte mentre Lincoln, in coma, sarebbe morto all'alba del 15 aprile.
Booth fuggì verso sud accompagnato dal suo complice David Harold. A mezzanotte fecero scorta di armi alla Surratt Tavern, in Maryland. Poi ancora al galoppo, sempre verso sud. La foto di Booth comparve sui manifesti dei ricercati, stampati il 20 aprile. Per l'assassino «del nostro amato Presidente Abraham Lincoln» fu fissata una taglia di 100 mila dollari. Alle calcagna di Booth si misero i soldati del 16° reggimento di cavalleria. Il fuggitivo e il suo complice furono scovati alla Garrett's Farm, una fattoria della Virginia, all'alba del 26 aprile. Harold si arrese subito. Booth sfidò i soldati gridando dal suo nascondiglio che preferiva combattere. Fu ucciso non appena provò a puntare la pistola verso i militari.
Diverse testimonianze confermarono la sua identità. Anche la madre, la sorella, il fratello e il dentista che lo curava riconobbero la salma. Tuttavia cominciarono a diffondersi diverse teorie sul vero destino di Booth. Una sostiene che il killer di Lincoln fuggì, assunse il nome di John Stefelen e si stabilì in Texas, dove visse indisturbato fino al 1903, quando andò a suicidarsi in Oklahoma. Secondo un'altra teoria, sostenuta da un libro del 1998, Booth emigrò addirittura in Giappone.
Ora si farà finalmente chiarezza? Un lontano discendente di Booth, Lois Trebisacci, la butta sul ridere. «Il mio antenato era un attore abituato a interpretare diversi ruoli. Secondo me, dovunque sia nell'aldilà, tutto questo casino sulla sua sorte lo sta divertendo un mondo».

“Il riformista”, 2 gennaio 2012

29.11.12

De Amicis. Un modo di raccontare gli italiani (di Luigi La Spina)

L’articolo che segue, la cui lettura suggerisco, può contribuire a liberare De Amicis dal limbo in cui è stato relegato, quello dei minori, e di riportarlo tra i grandi scrittori di cose italiani, dove peraltro lo collocava con forti argomenti Sebastiano Timpanaro. (S.L.L.)
Non era possibile, naturalmente, ignorarlo. Così, tra i libri che hanno fatto gli italiani compare anche il suo volume più famoso, quel Cuore iniziazione romanzesca, assieme a Salgari, di intere generazioni del nostro Novecento. Una citazione doverosa ma imbarazzata, quella che ricorda De Amicis nell'ambito dei festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità nazionale, perché lo scrittore ligure-torinese è tuttora sottoposto alla «damnatio memoriae» letteraria a cui lo condannò prima Carducci, con la famosa definizione di Edmondo dei languori, e poi Umberto Eco, con il sarcastico Elogio di Franti. L'occasione celebrativa, invece, poteva costituire un ottimo pretesto per sottrarsi al conformismo pseudochic del sostanziale oscuramento che gli organizzatori hanno compiuto su di lui. Si sarebbe fatto apprezzare agli italiani il fondatore di una figura letteraria, quella dello scrittore-giornalista, che ebbe in De Amicis il suo più celebre e, forse, unico rappresentante fino alla grande stagione del secondo dopoguerra, quella di Moravia, di Parise, di Soldati, di Piovene.
La modernità del De Amicis giornalista è caratterizzata proprio dal canonico metodo del reportage, fondato su una descrizione che raccoglie il paesaggio umano assieme a quello naturale, in un mix seduttivo affidato a una vivace accensione delle emozioni…
Folco Portinari, nella bella introduzione al Meridiano che raccoglie gli scritti di De Amicis, scrive a questo proposito che i suoi libri di viaggio sono «ancora dopo oltre cent'anni la miglior guida turistica», perché inducono il lettore, «incuriosendolo e appassionandolo», a «ripetere la stessa esperienza (come oggi con fotografie o spezzoni filmati)». Oltre all'aspetto formale dei suoi scritti, De Amicis è un grande maestro di giornalismo per la capacità di cogliere la realtà che vede senza alcun pregiudizio. «Lui non parte per i suoi viaggi - osserva la curatrice del Meridiano e fine studiosa dello scrittore, Giusi Baldissone - per trovare conferma delle opinioni che si è costruito in precedenza e, così, riesce a scoprire gli aspetti più importanti, ma anche i più curiosi e significativi, del mondo che sta cambiando sotto i suoi occhi».
E' il primo, infatti, ad accorgersi del grande fenomeno emigratorio di quell'Italia che, tra il 1876 e la fine del secolo, disperde nel mondo cinque milioni dei suoi abitanti. Cosa che non viene assolutamente rilevata, ad esempio, dai più famosi scrittori del realismo d'epoca, da Verga a Capuana. Perché, nel 1887, si imbarca su una nave che va in Sudamerica e scrive un bellissimo libro, Sull'Oceano, resoconto dolente e struggente di quella disperata umanità in cerca di una vita sognata. De Amicis racconta agli italiani la loro terra, anche quella più lontana e sconosciuta, appena riunita in una nazione. A partire dai suoi lunghi soggiorni in Sicilia, tradotti in profondi reportage sulle condizioni sociali degli abitanti. Il primo avviene nel 1867, quando lo scrittore, giovane ufficiale, viene spedito nell'isola per alleviare le sofferenze della popolazione colpita, soprattutto nella zona di Catania, da un'epidemia di colera. L'esperienza finisce in un libro, intitolato La vita militare, nel quale si esprime comprensione per le rivolte che costringono i militari a difendersi da chi li crede «avvelenatori», untori mandati da un governo nemico, «perché la superstizione, la paura, la miseria sono assidue compagne della morìa presso tutti i popoli e in tutti i tempi». De Amicis, cantore del patriottismo unitario, però, è così attento e sensibile osservatore della società siciliana da auspicare uno statuto di autonomie per l'isola che attenuino «le troppe uniformità di leggi e norme» che sono state applicate su tutto il territorio nazionale. L'acutezza del giornalista che riesce a cogliere i primi fermenti delle novità dall'osservazione minuta della vita degli uomini e dalle trasformazioni del paesaggio è testimoniata, poi, da molti altri suoi resoconti. Oltre al valore della scuola, ovviamente, come crogiolo dell'Italia futura, De Amicis rileva l'apporto dell'educazione fisica per l'inserimento della donna in un ruolo sociale di maggiore autonomia. Così come scruta i nuovi mezzi di trasporto urbano, i tram, microcosmi viaggianti di curiosi bozzetti cittadini, in un libro intitolato La carrozza di tutti. I viaggi di De Amicis percorrono tutta l'Europa, dalla Spagna a Costantinopoli, e si aprono alla conoscenza dei maggiori intellettuali stranieri, a partire dai francesi Zola, Hugo, Daudet. Evita così il provincialismo di tanti suoi coevi scrittori, anche per l'intensa frequentazione di importanti cenacoli artistici e letterari. Durante il lungo soggiorno a Firenze entra nel famoso salotto Peruzzi, dove incontra, tra gli altri, Ruggero Bonghi, Silvio Spaventa, Pasquale Villari. Nei quasi tre anni passati a Taormina è ospite di lady Florence Trevelyan, dama di compagnia della regina Vittoria. Nello splendido palazzo Cacciola (di proprietà del sindaco divenuto suo marito) si alternavano personaggi come Wagner, Nietzsche, Oscar Wilde, Gustav Klimt, il kaiser Guglielmo II, lo zar Nicola I. Ecco perché sarebbe il caso di essere meno provinciali, anche noi, nel giudizio su De Amicis, scrittore e giornalista. Quelli che Benedetto Croce chiamava spregiativamente «descrittori in ozio» riuscivano a capire e a far capire la realtà molto meglio di tanti letterati chiusi nelle loro in biblioteche. Senza offesa per nessuno.

“La Stampa”, 22 aprile 2011

Argentina 1978. Calcio, tango e dittatura (di Dimitri Papanikas)

Dimitri Papanikas è uno storico della canzone latinoamericana e critico musicale. Dal 2009 dirige e presenta sul canale Radio 3 della Radio Nacional de España il programma di storia «Café del sur». L’articolo racconta - tra l'altro - abbagli, debolezze e compromissioni di un artista importante. Da leggere. (S.L.L.)
La Junta militar argentina del 1976.
Da sinistra l'ammiraglio Massera
e i generali Videla e Agosti
Il 24 marzo del 1976 in Argentina la Junta militar presieduta dai generali Jorge Rafael Videla e Orlando Ramón Agosti e dall'ammiraglio Emilio Eduardo Massera, a capo rispettivamente dell'Esercito, dell'Aviazione e della Marina, dichiarava deposta la presidentessa María Estela Martínez de Perón dando inizio al Proceso de Reorganización Nacional, come eufemisticamente lo chiamarono gli stessi militari. Il generale Ibérico Saint Jean, nuovo governatore de facto della Provincia di Buenos Aires, ne diede una definizione meno sfumata: «Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, poi i loro simpatizzanti, successivamente quelli che resteranno indifferenti e infine gli indecisi».
Seguirono incarceramenti, fucilazioni, sequestri di persona, torture sistematiche, furti di bambini e vuelos de la muerte, nei quali vennero gettati nell'oceano migliaia di prigionieri ancora vivi, detenuti clandestinamente nelle carceri segrete del regime. Trentamila risultarono i «dissidenti» desaparecidos. Il tutto con la complicità silenziosa, - ma anche partecipe, Vaticano in testa - della comunità internazionale, dagli Stati Uniti all'Unione Sovietica, dalla Cina, all'Italia del governo Moro (e seguenti), la cui ambasciata istituì con prontezza un sistema di doppie porte per impedire più efficacemente l'accesso ai perseguitati che vi avessero cercato scampo, come ricorda l'ex console italiano che, agendo di sua spontanea iniziativa, contrariamente agli ordini ricevuti, riuscì a salvare numerosi perseguitati politici. (Enrico Calamai, Niente asilo politico. Diario di un console italiano nell'Argentina dei desaparecidos, 2003).
Molti intellettuali, artisti, operai, docenti, sindacalisti, studenti ripararono all'estero. Ma furono in tanti, in troppi, quelli che chiusero volontariamente gli occhi di fronte alla repressione militare, nascondendosi, più o meno compiaciuti, dietro le conniventi formule «por algo será» o «algo habrán hecho».
In questo drammatico contesto un evento significativo come la Copa Mundial de Fútbol del 1978 permise alla comunità internazionale di manifestare in mondovisione la propria indifferenza per la tragica situazione argentina. Ad ogni modo, nonostante la propaganda, a poche settimane dal fischio di inizio, non tutto il mondo sembrava disposto a restare in silenzio. Paesi come Francia, Olanda e Svezia furono i più critici. Migliaia di esiliati organizzarono un boicottaggio senza precedenti. Insieme a loro, grandi nomi della musica e della cultura come Paco Ibañez, Georges Moustaki, Yves Montand, Juan-Paul Sartre, Roland Barthes e Louis Aragon. In particolare in Francia un gruppo di esiliati giunse a stampare alcune vignette raffiguranti il logo del Mondiale nascosto dietro il reticolo di un campo di concentramento. In altri casi le vignette raffiguravano i membri della giunta militare argentina giocare a calcio con un teschio al posto del pallone tra due arbitri d'eccezione: Hitler e Pinochet. Insomma, nel 1978 chiunque avesse voluto sapere quel che stava accadendo era in grado di farlo. Esattamente come nella Berlino del 1936, teatro delle famose Olimpiadi disputate in un paese dove da tempo procedevano le violente persecuzioni contro ebrei, rom, dissidenti politici, omosessuali, mendicanti e portatori di handicap, largamente annunziate dalle leggi di Norimberga del 1935.
Sul carro del vincitoreSe da un lato il mondo intero, salvo rare eccezioni, non era disposto ad accogliere i messaggi disperati che arrivavano dagli esiliati, in Argentina il mondo dello spettacolo iniziava a salire sul carro dei vincitori, con gli abiti, le cravatte e i frac di circostanza e con una retorica nazionalista che non diede scampo neppure ai bambini, come nel caso di un popolare cartone animato che raffigurava la placida mucca argentina attaccata improvvisamente da una miriade di pulci e pidocchi neri e che il gauchito, il piccolo cow boy delle Pampas, ripuliva integralmente, come documentato dal giornalista Pablo Llonto, autore dell'importante volume La vergüenza de todos, nel 2010 tradotto in Italia col titolo più rassicurante de Il mondiale della vergogna.
Ma la propaganda internazionale era iniziata da tempo. Nel 1977 l'allora ventenne chitarrista Tomás Gubitsch fu scritturato da Astor Piazzolla per partecipare allo storico tour europeo del suo Octeto electrónico. Il giovane chitarrista si trovava in Francia quando si rese conto della strumentalizzazione di cui lui e i suoi stessi compagni erano stati vittima, trattandosi di concerti organizzati dalla Marina argentina come controffensiva contro la cosiddetta «campagna antiargentina». A causa di alcune sue dichiarazioni in proposito il Consolato argentino gli ritirò il passaporto comunicandogli che a partire da allora non sarebbe più stato possibile «garantire la sua sicurezza a Buenos Aires». Se voleva rientrare, doveva pubblicamente denunciare «di essere stato manipolato dal marxismo internazionale». Racconta Gubitsch in un'intervista al quotidiano argentino Página/12 dell'agosto 2005, in occasione del suo rientro dopo un esilio quasi trentennale, che Piazzolla, messo al corrente della notizia, lo rimproverò severamente. Giorni dopo, prima dell'inizio di un nuovo concerto in Italia, il grande rivoluzionario del tango tornò patriottico sull'argomento, intimando ai propri musicisti il divieto di parlare della situazione argentina: «Gli europei pensano strane cose. Non bisogna danneggiare l'immagine del paese».
Astor Piazzolla
Morricone, l'inno della vergogna Mentre Gubitsch sceglieva l'esilio, Ennio Morricone firmava El mundial, inno ufficiale del Mondiale. Piazzolla dal canto suo contribuiva all'apoteosi sportiva dei Generali con il disco Piazzolla 78, una raccolta di temi di pura propaganda, come Marcación, Penal, Gambeta, Golazo, Corner, Campeón, che all'estero fu però venduta con il volpino titolo di Chador. Anche i brani mutarono pelle, trasformandosi rispettivamente in Panic, Tango fever, Chador, Gooal, Milonga strip e Tango blues: una strategia mimetica che guardava lontano, e che infatti si rivelò molto utile quando il vento cambiò direzione.
Quattro anni dopo, il 2 aprile 1982, l'allora presidente de facto, il generale Leopoldo Fortunato Galtieri, si affacciò al balcone della Casa Rosada dichiarando guerra al Regno Unito per il possesso delle isole Malvine. Una plaza de Mayo inaspettatamente gremita, considerando quanto avevano dovuto subire gli argentini dai militari, accolse con entusiasmo la notizia di un conflitto che in poco più di due mesi avrebbe causato oltre 900 vittime e quasi 2mila feriti.
Ma non c'è guerra senza musica. Nel maggio successivo il  Regina di Buenos Aires si riempì di centinaia di spettatori convenuti per un appuntamento speciale, un concerto in appoggio alle truppe argentine impegnate nel conflitto tenuto da Piazzolla e dal suo Quintetto, accompagnati dal popolare cantante Roberto Goyeneche. Naturalmente ci fu il tutto esaurito. Per avere un'idea della serata basti sapere che venne eseguito il celebre tango Cambalache, di Enrique Santos Discepolo, con Goyeneche in versione patriottico-militare che inseriva tra gli «immorali» presenti nel testo niente meno che la «dama di ferro», Margaret Thatcher.
Dedica a un personaggio ripugnanteNell'occasione venne presentato anche un altro tango, che con l'avvento della democrazia riapparse sotto mentite spoglie. S'intitolava Los lagartos. Piazzolla l'aveva dedicato a un personaggio ripugnante, successivamente condannato all'ergastolo per delitti di lesa umanità: Alfredo Astiz, famigerato capitano della Marina militare argentina, comandante del corpo speciale de Los lagartos de las Georgias nella guerra delle Malvine, assassino, sequestratore e torturatore, che sarà chiamato «l'angelo biondo della morte» perché col suo aspetto rassicurante si infiltrava spacciandosi come familiare di desaparecidos tra le Madri di Plaza de Mayo e nei gruppi clandestini di attivisti.
Nel 1983 il brano sparì immediatamente dalla circolazione per ricomparire due anni dopo col titolo di Tanguedia e diventare, per atroce ironia della sorte, il tema principale della colonna sonora del film Tango: el exilio de Gardel, del regista Fernando Ezequiel Solanas, di ritorno in Argentina dopo il lungo esilio parigino.
A dire il vero non era la prima volta che Piazzolla mostrava di essere a proprio agio con il Potere. Ai tempi delle elezioni presidenziali del 1951, per esempio, non si fece problemi a salire sul carro del vincitore e a musicare Epopeya argentina, una specie di inno peronista scritto da Mario Núñez, le cui tracce si premurò in seguito di cancellare dopo la caduta di Perón nel '55. C'è chi sostiene che la sua disinvoltura politica fosse figlia dell'indifferenza, ma non fu così.
Il grande rivoluzionario del tango infatti se ne andò con un rimpianto. Rivelando non poco di sé qualche tempo prima di morire, confidandosi con un suo amico, il giornalista sportivo Natalio Gorín, confessò: «Probabilmente all'Argentina, in un certo momento della sua storia, mancò un po' di fascismo». (Astor Piazzolla, A manera de memorias, 1998).
“il manifesto”  2 novembre 2012.

Vandana Shiva a Perugia. Nuovo imperialismo e mafie globali. (S.L.L.)

“E’ un errore pensare che mafia e criminalità organizzata indichino la stessa cosa. Le mafie implicano ‘connivenze’ e ‘convivenze’ con poteri legali, politici ed economici, sono un sistema di potere” –  così Tonio Dell’Olio, responsabile di Libera Internazionale e direttore della Cittadella in Assisi, ha esordito nell’incontro con Vandana Shiva svoltosi alla Sala dei Notari di Perugia il 9 novembre. Ha aggiunto: “Nel mondo è sempre più evidente il collegamento tra mafie capitaliste, capaci in tempo di crisi di accumulare e muovere ingenti ricchezze, e capitalismo mafioso, tipico delle grandi finanziarie e delle multinazionali”. La manifestazione, organizzata da “Perperugia e oltre” e da “Libera Umbria”, aveva un titolo a maglie larghe, Dalle colture alle culture, ma il taglio che i due hanno dato al racconto si connetteva alle loro esperienze e all’impegno attuale.
Vandana Shiva è una filosofa, economista, ambientalista indiana, il cui attivismo culturale e sociale gode da tempo di attenzione mondiale. E’ fondatrice della associazione Navdanya (“nove semi”), che – a partire dall’India – raccoglie e custodisce i semi delle colture tradizionali e aiuta le comunità contadine in varie parti del mondo a resistere agli Ogm e alla pressione dell’imperialismo agricolo. Dell’Olio è uno dei preti cattolici più noti per il suo impegno sociale in Italia (carcere, recupero dei drogati e dei giovani delinquenti) e fuori (“Pax Christi” e Libera). Un particolare rapporto lo lega al popolo palestinese e alle comunità contadine dell’America latina.
Dell’Olio racconta episodi emblematici di “terra violentata” e “depredata”: in Guatemala, ove leggi infami riconoscono il titolo di proprietà sui terreni ma non sul sottosuolo, permettendo la forzata sottrazione di terreni ai coltivatori per consentire l’estrazione di materie prime; in Colombia ove le fumigazioni che dovrebbero far “guerra alla droga” non distruggono solo piantagioni di coca, coltivazione ancestrale degli indigeni, ma avvelenano indiscriminatamente uomini, piante e animali, senza con ciò fermare la potenza dei narcos; in Honduras ove in territori amplissimi vige la monocoltura della palma nana e del biocombustibile. Il prete di “Libera” indica le forze, spesso coalizzate, che muovono contro i contadini (multinazionali e latifondisti, governi, magistrati e poliziotti corrotti, eserciti regolari e organizzazioni criminali), narra di dure resistenze e lotte vittoriose, di contadini e capi sindacali ammazzati dalle mafie per piegare le popolazioni e di esperienze di liberazione tra i Sem Terra del Brasile o nelle comunità colombiane.
Vandana Shiva parla di semi. Da una parte quelli brevettati da Monsanto, Syngenta ecc., che non si rigenerano: “Il mito che gli Ogm siano la panacea per la fame è pericoloso: essi non aumentano la resa agricola, sono più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, lavorano contro gli interessi dell'umanità”. Racconta dell’India:“L’unica coltura Gm ampiamente introdotta, finora, è il cotone Bt, diffuso attraverso una pubblicità fraudolenta. Ai contadini è stato fatto credere che si sarebbero arricchiti comprando i nuovi semi, che avrebbero incrementato le produzioni. Di 200 mila suicidi di agricoltori in India la maggior parte sono concentrati nei settori del cotone Bt: si indebitano per comprare i semi dalle multinazionali e non riescono a pagare”. “Navdanya – aggiunge - ha creato banche del seme: aiutiamo gli agricoltori a coltivare il cotone biologico e a trovare mercati. Gli agricoltori biologici guadagnano assai più degli agricoltori Ogm: fino a dieci volte”. La studiosa indiana non teme solo la scomparsa della biodiversità e della “sovranità alimentare”, ma anche una contaminazione genetica capace di aggredire le colture biologiche e l’abuso di sostanze chimiche tossiche legate all’aumento di parassiti.
Sul ruolo delle mafie la celebre attivista “no global” è più prudente di Dell’Olio, pur non negandone un peso nell’uccisione di contadini e attivisti, ma è drastica sulla “mafiosità” delle multinazionali, sulle loro capacità di corruzione (“anche della scienza”) e sullo stretto connubio con molti governi: “L’uso della forza è diventata la norma di fronte alle proteste. In una democrazia – che si suppone sia dal popolo, del popolo e per il popolo – le proteste e i movimenti sono manifestazione di ciò che la gente vuole o non vuole. Ascoltare è un dovere democratico. Ma i governi stanno diventando il governo delle corporation e questa mutazione trasforma la democrazia in fascismo. Uno Stato privatizzato aziendale comincia a vedere come una minaccia la lotta per il bene pubblico e la democrazia economica dei cittadini”.
Sono tesi non nuove, ma non sembrano aver perso attualità per le settecento e più persone che riempiono come un uovo la sala perugina, spesso dividendosi le cuffie per capire l’inglese (solo 350 quelle disponibili). Il successo dipende dalla qualità dell’incontro, garantita dal prestigio delle associazioni organizzatrici, ma ancor più dal fatto che questa “iniziativa culturale” contiene assai più politica di quanto non riescano ad esprimerne partiti e simili. E per questo sulle poltrone, sugli scranni laterali, seduta per terra, appiedata in fondo c’è tanta sinistra perugina.
Restano i dubbi sull’approccio “no global”. E’ certo che le politiche agricole mondiali ripercorrono la via dell’imperialismo, è forse vero (lo sostenne uno dei fondatori del “manifesto”, il compagno scienziato Cini, di recente scomparso) che diversità è il nome nuovo dell’uguaglianza. Tuttavia, di fronte a poteri anche criminali sempre più concentrati oltre che ramificati, non convincono il “locale” e il molecolare, la mitologia delle “terre liberate” o l’esaltazione della varietà eterogenea dei movimenti contro la globalizzazione neoliberista e la crisi che ha prodotto. Con tutte le cautele del caso, prima o poi, a una strategia unificante, a una rivoluzione dell’uguaglianza e della diversità, alla fondazione di un nuovo potere democratico mondiale, bisogna tornare a pensare. 

"micropolis", novembre 2012 

Notizie da Cuba. Due agenti davvero speciali (di Osvaldo Fressoia)

Dall'ultimo "micropolis" un'intervista piena di informazioni rare e illuminanti sulle forme dell'assedio Usa alla Cuba castrista. (S.L.L.)
L'Avana 1991, Foto di Mariano Di Franco
L’appuntamento è dentro un bar, al riparo di una pioggia battente che non accenna a smettere, e sono proprio loro, Aleida Godinez Soler e Alicia del Carmen Zamora, da vere agenti speciali, a “riconoscermi” per prime in mezzo al tramestio vociante degli avventori. Fra meno di due ore parteciperanno ad un incontro pubblico organizzato da Asi Cuba, il primo di un tour in Italia per far conoscere la realtà dell’Isla grande anche attraverso le vicende avventurose, drammatiche e talvolta grottesche, di due ex agenti segrete infiltrate nella “opposizione”.
“Le virgolette sono d’obbligo perché si tratta, in realtà, di gruppi assai esigui, squalificatissimi, di livello culturale molto basso e senza alcuna presa neanche verso chi non è tenero verso il governo”, dicono subito Aleida (poco meno di 60 anni) e Alicia (poco meno di 40) con un sorriso e una lieve sorta di sarcasmo che ti mettono subito a tuo agio. I loro volti e movenze paiono più simili a quelli della donna che di solito incontri sotto casa o dal panettiere, che non a quelli, suadenti o cinici descritti dalle spy stories.
“Fra di noi questi gruppuscoli li chiamavamo ‘Comitati del sofà’, proprio perché solo un sofà può contenerne il numero. Come, per esempio la ‘Gioventù liberale’, 5 in tutto. In tutta l’isola, capisci? Io stessa ho ‘fondato’ il Partito Democratico Cristiano - dice Aleida ridendo fragorosamente - e
anche in questo caso abbiamo raccolto non più di 6 persone!”. Altri gruppi nascono, invece, su base professionale (medici, operai, bibliotecari), ma tutti e sempre dietro l’aggettivo “indipendenti”, comunque sempre riforniti a iosa di materiali e strumenti per le comunicazioni, radio, telefonini,
videocamere, computer, ecc. “Il fatto è - aggiunge Alicia - che esistono solo grazie agli ingenti finanziamenti americani che poi - precisa - i vari gruppi si litigano, con relativi episodi di accaparramento personale”. Alla stregua di un Fiorito della regione Lazio, commento divertito.
“Si tratta – proseguono - di veri e propri mercenari che vivono solo di questo. Sono il frutto di una
politica che, dopo la débacle della Baia dei Porci, ha cercato letteralmente di fabbricare un’opposizione nel nostro Paese”. Anche nel 2011, l’Amministrazione Usa ha stanziato 20 milioni di dollari per “promuovere i diritti umani e la società civile” a Cuba.
“Ogni ‘dissidente’ - spiegano le due donne - riceve stipendi inimmaginabili per un cubano, oltre a benefit quali borse di studio, oppure capi di abbigliamento firmati delle più importanti boutiques newyorkesi. Ma il loro sogno è quello di migrare negli Usa”.
“Noi stesse, come dirigenti dei vari gruppi, ricevevamo, ogni mese, 900 dollari, mentre lo stipendio medio di un cubano è di 20”.
Del resto, di che pasta sia fatta certa “dissidenza” è ormai noto a molti e da anni; così come è noto il fatto che essa per decenni ha cercato di scoraggiare il turismo nell’isola (voce decisiva per sopravvivere al feroce embargo con cui gli Usa cercano di strangolarla), anche attraverso attività terroristiche, che hanno provocando la morte di 3478 persone e la menomazione permanente di altre 2099. Fra le vittime anche un giovane imprenditore italiano - Fabio Di Celmo - morto per l’esplosione di una bomba nell’albergo in cui alloggiava.
“Quell’italiano si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato”- affermò con sicumera Posada Carriles, uno degli impuniti autori dell’attentato, già agente di Fulgenzio Batista poi passato coerentemente alla Cia. Al riguardo è vergognoso che, nonostante una campagna mondiale che sta faticosamente bucando la cortina di silenzio dell’informazione mainstream, 5 agenti cubani infiltrati a Miami nei gruppi terroristi anticastristi e che hanno provato le loro attività criminali all’Fbi, sono stati per tutta risposta condannati per spionaggio (uno all’ergastolo) e giacciono nelle carceri
Usa da più di 10 anni. Anche per questo avrei voglia di parlare d’altro, soprattutto della svolta di Raul che, pur dentro un quadro che intende rimanere socialista, ha aperto al mercato alcune attività economiche, iniziando anche una coraggiosa ma difficile opera di alleggerimento della macchina statale (taglio di più di un milione di dipendenti), da accompagnare, il meno traumaticamente possibile, ad un’attività por cuenta propria… Oppure chiedere se esiste a Cuba una opposizione politica alla linea ufficiale e se, pur dentro la legalità socialista, è possibile organizzarla… Ma Aleida e Alicia - per la prima volta all’estero - hanno voglia soprattutto di “scaricare” tutta quanta la loro vicenda umana e politica, che le ha portate per ben tredici pesantissimi anni a fingersi controrivoluzionarie fra la propria gente. “Perché passare per gusanos (vermi) ha significato rompere dolorosamente con amici e soprattutto con le nostre famiglie, arrecare loro grande dolore e vergogna” - dice Aleida e la voce, fino ad allora scoppiettante e allegra, leggermente si incrina. “Conosco compagni, anche loro infiltrati, i cui genitori sono morti prima di sapere la verità… No, non potevamo nascondere di avere tanti soldi. Anzi, alla Sina (la Secciòn de Interes de NorteAmerica, con sede a l’Avana, ndr) volevano che li esibissimo, che tutti sapessero che i dissidenti hanno soldi”.
Rispondo che non potrei sopportare, per così tanto tempo, di passare per una mierda nei confronti di tanta gente, specie quella che stimo e a cui voglio bene, e che questa è una forma di eroismo di cui non sarei mai capace… “Certo - dice schermendosi Aleida - quando si fa la doppia vita per anni è dura, la sofferenza c’è, ma siamo state addestrate anche a questo. Il premio, alla fine è la consapevolezza di aver aiutato il nostro Paese aggredito, magari di aver sventato un attentato e di aver lasciato, alla fine, con un palmo di naso yankees e ‘dissidenti’. E poi la gente quando torni alla vita normale, ti festeggia e diventi quasi un eroe”.
Penso, dentro di me, che solo le grandi rivoluzioni possono produrre persone con una forza simile, ma temo di metterle in imbarazzo, e allora chiedo come cominciò il loro contatto con la Sina. “Con telefonate a Radio Martì, di Miami - rispondono - a cui denunciavamo supposte violazioni dei diritti verso i dissidenti, ma il contatto diretto è avvenuto per entrambe dopo quasi un anno di ‘denunce’, per poi essere ingaggiate”. “Ho ancora il ‘passi’ permanente - dice Aleida sorridendo - Quante volte sono entrata in quel palazzo di 7 piani della Sina lungo il Malecon” [il famoso lungomare Habanero, ndr] e nelle ricche ville dei capi e agenti Usa della capitale!”
Insomma è strano che nella terribile “dittatura” cubana, dissidenti e agenti di altri Paesi, possano riunirsi pubblicamente per rovesciare il governo in carica. Come la famosa riunione “dei 150”, del maggio 2005 all’Avana nel giardino della villetta di uno dei leader dei fantomatici gruppi dissidenti,
alla presenza di diplomatici, giornalisti cubani e stranieri. Venne anche mister Cason, l’allora capo della Sina, che fece proiettare un video con il saluto di George W. Bush, poi trasmesso addirittura dalla Tv cubana.
“Se non è libertà d’espressione questa…” - sibila Aleida - “Degli stessi 75 condannati (alcuni anche a 23 anni) nel 2003, a seguito di due dirottamenti di aerei di linea cubani, e il sequestro, per 60 ore, di un battello con 50 civili a bordo, molti di loro sono stati liberati dopo pochi anni. In quale altro Paese ciò accade, nonostante l’evidenza di un ampio piano organizzato e finanziato da fuori?” Gli racconto che in Italia una vetrina spaccata durante una manifestazione può costare, come è successo recentemente, fra gli 8 e 10 anni e se si fischia un ministro si parla già di prodromi del terrorismo. E in ogni caso immaginiamo cosa accadrebbe, invertendo le parti: se cioè a New York si cercasse di organizzare un partito comunista con denaro del governo cubano, che per giunta sobilli la popolazione a rovesciare il sistema.
Chissà se a “La Repubblica”, organo del sempre più stracco riformismo italico, e portavoce degli imperituri valori del liberalismo occidentale, si sono mai fatti questa semplice domanda.

"micropolis", novembre 2012