30.11.12

Carlo Dionisotti. Filologia e passione politica (di Angelo D’Orsi)

Appartengo a quella schiera di giovani insegnanti di belle lettere che nei primi anni Settanta, usciti da Licei e Università ancora fortemente crociani, nel cercare la loro strada si imbatterono negli studi di Carlo Dionisotti, a partire dai saggi contenuti in Geografia e storia della letteratura italiana (tra i quali uno, memorabile, su chierici e laici) e li considerarono come una “chiave”. Non conoscevo allora le passioni civili del Dionisotti, ma in qualche modo le intuivo; per cui mi piace “postare” l’articolo di uno storico impegnato che recensisce un’antologia degli scritti politici dell’illustre filologo e critico. (S.L.L.)
Carlo Dionisotti
Carlo Dionisotti è stato davvero un personaggio, nel senso nobile del termine, ma anche per certi suoi caratteri, antropologicamente parlando, che facevano di lui una sorta di chierico vagante della cultura europea, ancorché saldamente connesso alla sua terra pedemontana. Nemico dei trasformismi – tipico male italico, soprattutto degli uomini di cultura – egli fu non soltanto eccelso studioso di lingua e letteratura italiana, capace come pochi di contestualizzare diacronicamente e sincronicamente, guardando a latitudini ed epoche diverse.
Amplissimi furono i suoi interessi, che coltivò leggendo, prima che scrivendo (attitudine rara: di solito gli intellettuali meno leggono e più scrivono, troppo intenti a scrivere per leggere, insomma…), e fu uomo di forti passioni civili, orientate innanzi tutto contro il fascismo, e, poi, per difendere i risultati della lotta epocale contro Mussolini, ma altresì le speranze che la guerra di Liberazione aveva suscitato.
Ne è prova l’utile volume appena uscito: Scritti sul fascismo e sulla Resistenza (Einaudi),  egregiamente curato da Giorgio Panizza; anzi, persino con ridondanza, che forse, in un teorico dell’asciuttezza come Dionisotti, avrebbe provocato qualche commento sardonico. Vi si raccolgono scritti di un doppio tenore: scientifico e militante.
In una lettera al “Mondo”, nel 1965, Dionisotti scriveva, serafico e fermo: «Non esiste filosofia o storia che non sia insieme e anzitutto filologia». Un insegnamento persino ovvio, che alla luce della sua biografia, appare di straordinaria forza, quasi cifra identitaria dell’uomo e dello studioso. All’insegna di questa inesauribile passione filologica – che altro non è che passione per la verità – Dionisotti ha affrontato sovente il tema rovente del fascismo, e, in parallelo, quello dell’antifascismo: la sua idiosincrasia verso il primo, da ogni punto di vista, non gli impedì di esprimere giudizi liberi e non di rado critici sul secondo. Ne abbiamo prova in questi testi, perlopiù editi, ma con qualche inedito, che coprono un arco cronologico ampio: oltre mezzo secolo (dal ’42 al ’95), ma invero la stragrande maggioranza si ferma al 1946. Ne risulta una volontà recisa di lotta senza quartiere contro il fascismo: «Vendicheremo quelli che sono morti con la rivolta armata contro la dottrina e gli uomini che li hanno gettato allo sbaraglio e sacrificati. E vendicheremo così quelli che sono morti contro di noi, contendendo la loro terra in Africa e Spagna, Grecia e Jugoslavia, alla nostra prepotente rapina». Così scrive in un foglio inedito del ’42. La stessa determinazione troviamo in ogni scritto coevo: l’angoscia della guerra, dei bombardamenti, della catastrofe incombente, non lo induce ad arretrare, o a chinar la testa come davanti a una fatalità ineluttabile. Ogni sua parola suona come una campana che vuole risvegliare i dormienti, sospingere
gli esitanti, rincuorare i dubbiosi. La battaglia al fascismo è una lotta rivoluzionaria: ora o mai più, insomma. Si tratta di cogliere l’occasione storica, e non sempre il movimento cui è vicino, GL e il PdA, sembrano in grado di farlo, se non a parole. Non basta proclamarsi rivoluzionari, come tendono a fare gli “azionisti”; occorre un paziente, concreto lavoro, in cui v’è il momento dell’intransigenza, e quello del compromesso; le armi della politica devono sostenere la politica delle armi.
Lo scritto più celebre è quello del 1944, sui Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà, dedicato alla morte violenta di Giovanni Gentile. Non vi si trova solo la difesa di un atto da molti esecrato, né una franca rivendicazione della “sentenza”: è il profilo di un uomo e di un’epoca, dipinto con analisi raffinata, in cui la figura di Gentile (verso il quale non manca la pietas), emerge come un protagonista cui tocca condividere le pesanti responsabilità storiche di un regime che lo ha «involto in quella realtà di crucci e di sangue». Dunque la morte è un atto di espiazione, terribile e inevitabile.
Anche la lucida analisi del postfascismo comprende un riesame storico ed etico del rapporto tra popolo italiano e fascismo: «non è solo un problema di epurazione, e tocca una grande massa», nella quale prevale la classe media uscita «umiliata» e «dissestata», priva della sua «sciocca illusione». Nel lungo dopoguerra, il diradarsi degli interventi dell’autore tradisce un crescente disincanto, la
rinuncia, via via più netta, al sogno di un’Italia, che liberandosi del fascismo, attraverso una guerra senza quartiere, si fosse infine sbarazzata anche di mali assai più vecchi. In questa chiave, Dionisotti non ebbe indulgenze nel ’68, non con i “contestatori”; ma con i professori che facevano i “compagni”. Nemico aspro della retorica non vide di buon occhio i Guido Quazza che stabilivano una continuità – ideologica e fittizia – tra lotta partigiana e movimento studentesco. Troppo era il rispetto per la serietà della conoscenza in Dionisotti per fargli accogliere tali semplificazioni propagandistiche.
Sicché, anche quando i suoi giudizi non possano oggi da noi essere (tutti) condivisi, meritano qualcosa di più del rispetto: una curiosa e appassionata attenzione, come a fonte preziosa per capire, e ragionare, fuori dai luoghi comuni.

“Liberazione”, 17 dicembre 2008

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