4.12.12

Comunisti italiani negli anni 50. I "preti rossi" nella casa di piacere (Enzo Giorgetti)

Uno dei primi capitoli della biografia di Luciano Bianciardi (Vita agra di un anarchico, Feltrinelli) di Pino Corrias, il quarto per la precisione, si intitola I preti rossi, ed è dedicato ai rapporti dello scrittore, ancora assai giovane, con l’apparato del Pci, a Grosseto. Il capitolo si apre con una testimonianza di un ex funzionario del Pci, Enzo Giorgetti. Parla di Grosseto ma immagino che la sua testimonianza possa avere riscontri in molte altre città d’Italia. (S.L.L.)

La vita che facevamo noi, funzionari del partito, era da preti rossi, come ci chiamava Bianciardi. E la federazione, un convento. Ogni tanto ne uscivamo per andare a fare le prediche nei paesi o nelle sezioni. Ma la vita sociale, la vita normale della gente, ci sfuggiva. Anzi, non ne sapevamo proprio nulla. Ogni giorno c'era qualche pellegrinaggio da fare. Mi ricordo questi viaggi tremendi sulle corriere della Rama, o sulla Balilla della federazione, che stava insieme per miracolo, non sapevi mai se ti avrebbe riportato a casa e in quali condizioni.
Per fare trenta, quaranta chilometri ci voleva una mezza giornata, le strade erano tutte sfasciate. Arrivavamo al paese, facevamo la riunione ed era già notte. Col buio non si poteva viaggiare per gli sterrati e allora si dormiva in qualche fienile. Alla mattina, dietro front, una scappata a casa a vedere la moglie e a mangiare. Anzi, i primi tempi avevamo pure la mensa al partito. Preti in convento, con la differenza che una volta alla settimana, tutti insieme, si andava al casino di via dei Barberi, uno stradone lungo lungo, che immancabilmente si faceva tutto di corsa. Chi si rifiutava di venire era finocchio. Chi ci voleva andare da solo e non col gruppo, un socialdemocratico.
Ecco, mi ricordo di un grosso scontro tra me e il primo segretario della Federazione giovanile: eravamo tutti e due appassionati clienti, solamente che lui si era inventato la teoria che un dirigente non doveva farsi vedere. Doveva andarci, ma nel salottino privato, non tra le masse. Io invece, comunista pieno d'ardore, sostenevo che bisognava andare tutti nella sala comune. Ci facemmo delle riunioni su questa roba e anche delle litigate. Alla fine vinsi io, così il salone di via dei Barberi si trasformò nella succcursale del partito, c'erano i dirigentini che ti chiedevano: ‘Li hai portati i bollini delle tessere? L'hai letta la relazione, che ne pensi?'.
Con una vita fatta a quel modo come avremmo potuto trovarci una ragazza? Stavamo tutto il giorno in federazione, la sera in provincia a fare riunioni e, mi raccomando, con un atteggiamento integerrimo, ti dicevano in federazione. Per cui magari ti capitava una compagna che, scusate l'espressione, te l'avrebbe data volentieri, ma tu non potevi pigliarla perché eri funzionario e la moralità era assoluta.
Quando io mi sono fidanzato con quella che poi è diventata mia moglie, il segretario della federazione, che si chiamava Suardi, mi convoca e mi fa: 'So che ti sei fidanzato con la Fiorenzina, guarda che se ti azzardi a non fare il ragazzo serio, poi l'avrai a che fare con me'.
La nostra vita cambia solo alla fine degli anni cinquanta, non prima. Quando cominciamo a chiederci: ma perché alla sera non ce ne andiamo anche noi a passeggiare sul corso come fa la gente normale? Perché non si parla di cinema, di sport, di cose qualunque? Finiremo per non capire più nulla della gente, se continuiamo a starcene chiusi tra noi. Ci sembravano grandi scoperte. Noi parlavamo solo di mezzadri e minatori, perché la base del partito era quella, compagni duri, con le mani piene di calli, bestemmiatori, che si sarebbero fatti mettere gli stecchini da denti negli occhi per il partito.

Da Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, 2011 (prima edizione 1993) pp.56-57

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