16.12.12

Il "Pasticciaccio" di Gadda per stare dentro alle cose (Ernesto Ferrero)

Per i cinquant’anni del più celebre romanzo di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Ferrero scrisse (era il 2007) per Tuttolibri de “La Stampa” un articolo appassionato. Ne riprendo una parte. (S.L.L.)
Carlo Emilio Gadda
Il massimo monumento d'amore e odio innalzato alla Roma provinciale del Mussolini 1927, «Testa di Morto in stiffelius, o in tight» sul punto di trasformarsi in Duce. Il più arcimboldesco catalogo enciclopedico dell'infinita appetibilità del reale. La più abbagliante pirotecnia di dialetti che, all'ombra magnanima del Belli, esplodono proprio quando si appresta a calare su di loro il velo della koiné televisiva, i «cioè» e gli «attimini», le trite metafore sessuali a cui si ridurrà il parlato quotidiano.
Si legge il Pasticciaccio, ha scritto Emilio Cecchi, soprattutto «per imparare a stare dentro alle cose, pure infime e ingrate ch'esse siano, e partecipare dei loro infiniti rapporti e significati vitali». Nella sua «fortissima polifonia» c'e' tutto: romanzo e antiromanzo, storia e cronaca minuta, ordine e caos, norma e trasgressione, Eros e Logos, ira e pietà, comicità e tragedia, amore per l'uomo e delusione furente per i suoi limiti.
Gadda, l'eterno angustiato da colpe immaginarie, ha almeno avuto una grande fortuna: d'esser seguito, accudito, amato, talvolta salvato da spiriti degni di lui. Prima Gianfranco Contini, il protogaddiano più gaddiano di Gadda; Raffaele Mattioli, il leggendario banchiere-mecenate della Comit; G.B. Angioletti che l'assunse in Rai nel 1950 cavandolo dagli impicci. Poi Livio Garzanti, geniale editore rentenne che lo costrinse a rimetter mano ai capitoli già usciti su “Letteratura” nel 1946-47 con un misto efficace di attenzioni e minacce, blandizie e calcolate vessazioni (alla fine Garzanti si dichiarerà «commosso e quasi impacciato» da tanto libro); Giulio Einaudi, che all'inizio degli Anni 60 impose la Cognizione ricomposta in volume a un'udienza internazionale; i giovani Arbasino e Parise, che identificavano in lui la grande letteratura; infine due angeli custodi sapienti e soccorrevoli: Giancarlo Roscioni, ambasciatore einaudiano, e Pietro Citati, allora giovane professore in una scuola di Avviamento Professionale, missus garzantiano ma soprattutto adoratore in proprio. Furono loro a essergli vicini con devozione, a risolvere problemi pratici e editoriali, a medicarne le nevrosi, a leggergli l'amato Manzoni, con Ludovica Ripa di Meana, fin sul letto di morte, facendolo ridere di beatitudine.

“Tuttolibri” de “La Stampa”, 10 marzo 2007 

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