16.12.12

Kafka e i suoi compagni (di Maurizio Ciampa)

Max Brod e Franz Kafka
L'articolo, di Maurizio Ciampa, che qui recupero e "posto" è vecchio di trent'anni, il libro - di Max Brod - di cui ragiona addirittura di 45. E tuttavia la problematica che Ciampa affronta non ha perso attualità: ancor oggi vigono le opposte tentazioni di riassorbire Kafka nel suo tempo, nella sua Praga boema, ebraica e tedesca o, al contrario, di valorizzarne l'eccezionalità, l'assoluta solitudine. Da leggere. (S.L.L.)

Franz Kafka da solo
«Non ho tempo. E la mobilitazione generale. K. e P. sono richiamati. Ora ricevo il salario della solitudine. È nonostante tutto appena un salario. La solitudine non porta che castighi. Non importa, io sono appena toccato da questa miseria e più risoluto che mai ...Scriverò a dispetto di tutto, a qualsiasi prezzo: è la mia lotta per la sopravvivenza».
E un'annotazione di Franz Kafka del 31 luglio 1914. E non è la sola trascrizione del suo acuto e diffuso sentimento di solitudine. Una copiosa produzione agiografica ha molto insistito su questo tasto, fino a riconoscere nella solitudine una sorta di patria dell'identità kafkiana, il suo originario humus e il suo più caratteristico tratto psicologico. Quella della solitudine è dunque una raffigurazione dai calore emblematico, una risorsa interpretativa alla quale anche troppo spesso si fa ricorso. Solo come Franz Kafka è, ad esempio, il titolo dell'importante volume di Marthe Robert (pubblicato l'anno scorso dagli Editori riuniti), che trae spunto da un episodio — non a caso tanto citato — riportato da Gustav Janouch nei suoi Colloqui: «Tanto solo si sente?» — domandai. Kafka accennò di sì. «Come Kaspar Hauser?» — osservai. Egli si mise a ridere: «Molto peggio di Kaspar Hauser. Mi sento solo come … Franz Kafka».
La solitudine è così diventata il presupposto di un diffuso dispositivo interpretativo, l'ordine nascosto sul quale pare costruita l'opera dello scrittore, altrimenti sfuggente in una irriducibile complessità. Ma che la solitudine di Kafka fosse affollata, e quasi protetta da una cornice amicale, non si sapeva. Si conosceva, avendolo sfogliato con cura, l'album di famiglia, il severo ritratto del padre, i particolari minuti e talvolta indiscreti delle vicende amorose, e nel loro sviluppo, i brevi intervalli di felicità e il loro esito inconcludente, spesso drammatico. Qualcosa era noto perfino dell'ambiente di lavoro: i tetri palazzi delle «Assicurazioni generali» e dell' «Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia»... Ma poco era emerso della storia sotterranea del «Circolo di Praga».
Il filo un po' misterioso di questa storia è stato dipanato, in una particolareggiata ricostruzione, da Max Brod (il suo Circolo di Praga, apparso in tedesco nel 1966, è stato appena pubblicato dalle edizioni e/o nella «Collana praghese» diretta da Milan Kundera), amico e biografo di Kafka, tenace custode della sua opera dopo la morte e scrittore egli stesso. Quella di Brod è una topologia minu¬ziosa dello spazio praghese, una filologia appassionata che si esercita su una ricca trama di espressioni culturali, sciogliendo il fitto intreccio di un ordito complesso. Ne emerge a poco a poco lo spaccato di una cultura niente affatto periferica o minore, che anzi conosce nel primo trentennio del secolo una proliferazione di forme, una molteplicità di registri espressivi del tutto singolare. «La sua capacità di sottigliezza — scrive Milan Kundera nella presentazione della «Collana praghese» — ha penetrato l'arroganza della grandezza. Il suo umorismo ha corroso l'orrenda serietà ideologica. Il suo senso del concreto ha saputo difendersi dalle più grandi forze riduttrici che la Storia abbia mai scatenato. Da questo trauma molteplice è nata un'intera pleiade di opere: un teatro, un cinema, una letteratura, un tipo di pensiero, un umorismo, un'esperienza intellettuale unici e insostituibili». La storia ricostruita da Brod ha dunque un rilievo particolare, anche al di là dell'accurata archeologia della cultura praghese che essa offre. Una universalità ridondante ha finito spesso per soffocare il tessuto minuto, l'atmosfera recondita, di cui l'opera di Kafka si è alimentata, costringendola nelle equazioni generali dei «grandi temi del pensiero» o nella «lotta dell'odierna generazione del mondo intero», come sta scritto nel suo necrologio. Eppure Kafka va inteso dentro il perimetro di Praga, e non per una rivendicazione di appartenenza. La sua opera respira l'atmosfera di questa città come il proprio elemento vitale. «La misteriosa città trapela da ogni pagina di quest'opera che poteva nascere soltanto qui» — ha detto un critico boemo, Pavel Eisner, che è stato tra i primi a indagare le «fondamenta» kafkiane —. «Quasi tutta la bibliografìa kafkiana è inficiata dal fatto che gli interpreti non conoscono certi fatti decisivi. Si può spiegare Kafka soltanto con la sua Praga».
L'affermazione può suonare eccessiva. E in qualche misura lo è senz'altro. Ma il suo tratto perentorio nasce anche dall'esigenza di portare alla luce il sottosuolo ambientale soffocato sotto le indebite generalizzazioni, e far emergere finalmente lo strato nascosto sul quale poggia l'inaudita letteratura di Franz Kafka. Un'esigenza di cui si è recentemente appropriato un critico come Marthe Robert, il cui libro è in definitiva una sottile anatomia della memoria di un'epoca.
Questa stessa esigenza è il senso del Circolo di Praga di Max Brod. «Non si esagera dicendo che non esiste scrittore che abbia trovato in vita così scarso riconoscimento e sul quale si sia abbattuto dopo la mone precoce una tale marea di letteratura incomprensiva» — scrive Brod proprio all'inizio della sua ricostruzione. «Si è coniato l'odioso aggettivo kafkiano. Ma il "kafkiano" è proprio ciò che Kafka aborriva e combatteva nel modo più violento. Kafkiano è ciò che Kafka non era».
Chi era dunque Franz Kafka secondo Brod? Un intreccio di «discrezione» e di «ironia socratica», uno spirito beffardo ma misurato, in cui il garbato rimprovero si mescolava con la «consolazione». Nessuna tonalità decadente, nessun umore romantico o furore nichilista offuscava la sua natura squisitamente pedagogica. Questo è il ritratto che ne fa Brod. «Che Kafka dovesse strappare discrezione e misura a un'epoca caotica, sul cui fondo si annunciava qualcosa di ancor più caotico e anzi di catastrofico, le rende doppiamente preziose, anche se, naturalmente, imprime su questa discrezione e misura il suggello del "fatalmente complicato", di quell'elemento bizzarro, paradossale e umoristico che ha messo tanti lettori fuori strada».
Non c'è dubbio che ci sia in Brod un'eccessiva enfasi apologetica. È questo un elemento che riduce, e non di poco, l'immagine di Kafka, il quale non è probabilmente l'ardimentoso e temerario di cui parla Brod, ma piuttosto l'involontario e imbarazzato testimone di una perdita d'essere, «il punto di una topologia assurda su cui si esercitano attrazioni opposte, il luogo problematico dove si consuma un'esistenza irreale, una vita non-vita bruciata dalla propria apparenza» — come di recente ha scritto Ferruccio Masini.
Forse i ricordi di Brod, la sua conoscenza da vicino, risultano alla fine una lente deformante. Nel suo Kafka troppo umano c'è ben poco della figura che ha dato vita a un universo allucinato. E quasi nulla della sua gnosi sofferta, del suo tentativo di evasione dalla sfera paterna, indice di una filialità arrestata e sospesa nel tempo. Una filialità — quella di Kafka — che non vive nell'attesa dell'ultimo giorno né della memoria di primo, non aderisce al reale, dove risulta essere senza posizione, ma si mantiene nella fantasticheria.
Tuttavia il «Circolo di Praga» di Max Brod è un libro prezioso, perché ci rivela le pieghe di un mondo sconosciuto, eterogeneo, disseminato di piccole comunità amicali pulsanti di creatività, che si aggirano tra i caffè, si riversano nei teatri della città, esplorano i suoi dintorni, «il folto dei balsamici verdescuri di Vsenory, Dobrichovice, i greti dei fiumi e dei ruscelli boemi». «Si rideva molto e liberamente — ricorda Max Brod — e ci si dava spesso a declamazioni ditirambiche. Fu una bella stagione... sino a che l'orribile guerra del 1914 non ridusse tutto in cenere».
Forse il Kafka di Brod è il sogno di Franz Kafka, quello che egli stesso avrebbe voluto essere senza la sua «malattia del nome».

“Pace e Guerra” numero 27 del 2 giugno 1983

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