25.12.12

La rivoluzione dei sentimenti. L'amor cortese e i trovatori (di Alfredo Giuliani)

Recensione di un'antologia al tempo ancora fresca di stampa, l'articolo che segue, del 1984, è una ricognizione ancora utile su un passaggio importante della storia culturale dell'Occidente medievale. (S.L.L.)
Ciò che noi chiamiamo erotismo si chiamò nel medioevo "amore cortese". Questa espressione, che suona come una formula di maniera, racchiude una fenomenologia assai complessa le cui origini sono rimaste misteriose. Verso la fine del secolo XI nel sud della Francia compare già matura la poesia dei trovatori e questa poesia propaga ben presto la dottrina dell' amore cortese nell'occidente neolatino. Per capire la portata di tale avvenimento, basterà riflettere un momento al giudizio di fondo che ne hanno dato più volte gli studiosi. Citerò in proposito le parole di D' Arco Silvio Avalle, che mi sembrano precise e ricche di suggestioni.
In un saggio di qualche anno fa (Ai luoghi di delizia pieni, Ricciardi), Avalle notava che l' enorme rivoluzione dei sentimenti introdotta dall' amore cortese, con epicentro la Francia del XII secolo, mise in moto una tendenza capitale della sensibilità moderna, "vale a dire il culto dell'amore in quanto prodotto ‘separato’ degli istinti"; nello stesso tempo, quel culto comportava anche la sublimazione dell' amore "nel senso di una ascesi fine a sé stessa". Nelle parole "culto" e "ascesi" non vanno accentuate e neppure ignorate le sfumature religiose. L'amore cortese è una religione laica, una dottrina letteraria e, al limite, ereticale.
Essa va travestita nei panni d'epoca; come il vassallo serve il suo signore, così il cavaliere cortese rende in umiltà il suo servizio d'amore alla nobilissima dama. Ma si tratta di un vassallaggio radicalmente ambiguo e non di rado malandrino. Può essere casta devozione, anelante sottomissione, un blandire la dama modulando con sofisticato strazio le proprie sofferenze; ma può anche essere, a volte nello stesso tempo, una galanteria del desiderio, un acceso parlare dei sensi, richiesta di godimento, adorazione del "fiore" segreto della dama, quando non si rovescia nel divertimento, nello scherzo, nel vanto libertino e parodistico.

Desiderio sessuale
In ogni caso, il gioco del poeta provenzale ha l'effetto di isolare dal contesto sociale e di porre al culmine dell' esperienza nientemeno che l' epifania del piacere. In ciò consiste la "rivoluzione". Secondo l' etica medievale, nel desiderio sessuale c' è sempre un che di colpevole; e assolutamente colpevoli sono le relazioni adulterine. Ora, l' impresa suprema dei poeti provenzali fu proprio di coltivare il desiderio, di éterniser le désir (è la tesi di Renè Nelli sostenuta in un libro famoso, L'érotique des troubadours). Ma non si può eternare il desiderio cantando strofe per una consorte legittima. I matrimoni sono in genere affari di convenienza e l' amore non c'entra. La religione dell'amore cortese esige rigorosamente l'adulterio, con tutti gli ostacoli, i pericoli, le nostalgie, i segreti, le maldicenze, e così via, che esso comporta. Perciò l'amor fino, la fin'amor dei provenzali, si inscrive in un sistema di vincoli, tensioni, trasgressioni che ne garantiscono una elaborazione squisita. Si tratta dunque di un'etica opposta a quella ufficiale su cui vigilava la Chiesa; ma la cosa più singolare è che la nuova etica dell'amore cortese ebbe sostanzialmente una funzione estetica, fu tutt'uno con la nuova poesia.
Siccome l' aspettavo da molti anni, saluto qui con gioia il primo volume di una bella antologia curata da Giuseppe E. Sansone, La poesia dell' antica Provenza (Guanda, pagg. 324, lire 28.000). Ecco un filologo romanzo (Sansone insegna all' Università di Roma) che è anche un sottile intenditore di metrica e autore di nitide poesie. Con queste credenziali sembra essergli riuscita abbastanza agevolmente un'impresa non priva di insidie. La sua antologia può goderla anche il lettore che conosce poco o non conosce affatto l'antico provenzale. A fronte dei testi originali, Sansone gli offre una piacevole traduzione in versi il più possibile fedele, attenta a restituire un equivalente ritmico regolato sulle nostre misure metriche; dove ciò avrebbe comportato una forzatura il traduttore rinuncia alla regolarità del verso per badare, come dichiara egli stesso, alla "circolarità melodica della strofa".

Cavalieri senza terra
Per capire queste poesie bisogna spesso giovarsi di note esplicative; e le note poste in calce ai testi sono qui essenziali e suscitano ovviamente l'attenzione verso l'originale. Anzi, direi di più: suscitano la gustosa percezione dei valori semantici e musicali dell'antico provenzale. La lingua d'oc affascina per il colore dei suoni, brevi e aspri o rotondi e dolci; e Sansone ha la delicatezza di inserire in una nota che segue l'introduzione un utilissimo compendio di norme di lettura e indicazioni sull'accento delle parole, nozioni che non si trovano mai in questo genere di libri e che sono di grande aiuto per il lettore dilettante. Insomma, l'antologia è anche un accattivante strumento didattico.
Delle tante questioni toccate nell' introduzione conviene sottolinearne una. La poesia dei trovatori prosperò per quasi due secoli come movimento letterario e come ideologia apportando nel rigido mondo dell'assetto feudale una "grande novità di carattere sociale". Se il primo trovatore documentato fu il nobilissimo Guglielmo, IX duca d'Aquitania, e altri tra i più famosi furono ugualmente nobili, per esempio Jaufre Rudel, Raimbaut d' Aurenga, Bertran de Born, molti poeti appartennero agli strati degli artigiani e dei mercanti, alcuni, come Marcabru e Bernart de Ventadorn, ebbero origini ancora più umili; e vi fu chi visse da giullare, esercitando cioè una professione che in genere abilitava alla sola esecuzione di opere altrui. Chi aveva l'ingegno di partecipare al movimento entrava in una élite avvalorata dall' arte poetica, non dalla nascita e dal censo.
Qualche studioso ha voluto vedere nell'ideologia della fin'amor una specie di contentino fornito dall'aristocrazia ai nobili inferiori, cavalieri senza terra, paggi, scudieri, tutta gente sospesa in uno stato perenne di insoddisfazione e destinata ad agognare invano ricchezza, possessi, inserimento stabile nella società cortese. Questa poesia del desiderio, anzi del desiderio desiderante, sarebbe stata fatta non da loro, ma per loro. L'amore cortese sarebbe dunque la grande metafora di un'impossibile integrazione sociale... Sansone non accenna a questo argomento, forse ipotesi triviale, e insiste invece sulla "conoscenza d' Amore", che è propriamente il patrimonio culturale dei trovatori e il loro dominio di intellettuali.
Vorrei dare ora qualche saggio delle traduzioni. Cominciamo con le due strofe centrali di una celebre canzone di Guglielmo d' Aquitania (Ab la dolchor del temps novel): "Si porta il nostro amore alla maniera / in cui si porta il fior di biancospino, / che avvinto all'albero tutta la notte / tremando resta nella pioggia e al gelo / fino al domani quando il sol s'effonde / sul ramoscello tra il verde fogliame. // Io mi ricordo ancora d'un mattino, / quando mettemmo fine al nostro scontro / e lei mi dette un dono così grande: / l'amore pieno insieme con l'anello. / Iddio mi lasci vivere ancor tanto / ch'abbia le mani sotto il suo mantello!" Lo stesso agio di endecasillabi in questa strofa di Jaufre Rudel, magnificamente ritratto nel quinto verso: "Allor che i giorni sono lunghi in maggio / amo d'uccelli il dolce canto, lontano, / e quando poi di là io me ne vado / mi risovvengo d' un amor lontano. / Di desiderio vado curvo e mesto, / tanto che canto o fior di biancospino / non m'è più grato del gelato inverno".
Finché il movimento ebbe vitalità, i trovatori provenzali furono fedeli al loro nome (trovatore è colui che trova nuove espressioni poetiche) e innovarono stile e contenuti. Uno dei poeti più antichi, Marcabru, andò subito controcorrente ringhiando alle facili galanterie. Nella famosa pastorella c' è il signore che cerca di sedurre la villana e riceve da costei una durissima lezione; non posso citarne che una strofa. Il signore s'è protestato mellifluamente desideroso di fare compagnia alla povera pastorella tutta sola col suo gregge; e lei di rimando: "Messere, diss'ella, chiunque mi sia, / ben riconosco il senno e la follia. / Il vostro accompagnar da pari, / signore, mi disse la villana, / dove s'addice che là se ne stia, / perché c'è gente che crede d'avere / la signoria, ed è soltanto vana".

Teste mozzate
Pochi versi del grande Bernart de Ventadorn: "Nel dar piacere e nel desiderare/ consta l'amor di due perfetti amanti. / Se non è pari la lor volontà, / a essi nulla può dare vantaggio". Come si vede, difficili equilibri raggiunti ricorrendo a due troncamenti (amor, lor) che in un contesto moderno sarebbero stonati, ma qui, nel piano andare del soave Bernart, suonano più che accettabili. E Sansone riesce a rendere con grande efficacia anche un poeta concettoso come Peire d'Alvernha. M'è parso, invece, che le regole metriche che egli s'è imposto di rispettare abbiano sacrificato a volte la chiarezza e la pregnanza del senso nella resa della sestina di Arnaut Daniel, Lo ferm voler qu' el cor m' intra, che del resto è un componimento di frigida bravura. E altrettanto direi della bella canzone Er resplan la flors enversa (Ora risplende il fiore inverso) di Raimbaut d'Aurenga, tanto simile a una sestina, che in due o tre punti suona più chiusa e irta dell'originale.
Ma questi piccoli nei trovano compenso nelle tante buone riuscite del libro, il quale termina, e non si poteva far meglio, con le splendide versioni dello spavaldo Bertran de Born, originale nelle canzoni d'amore, e davvero unico tra i trovatori per la gioiosa esaltazione delle armi: "e dentro il cuore mi dà diletto / i forti castelli vedere assediati / e le muraglie a pezzi sfondate, / e sulla riva vedere l' armata / da ogni parte di fossati cinta / con palizzate a forti tronchi fitti. / ... / E quando sarà nella zuffa entrato, / qualsiasi uomo che nobile sia / che braccia e teste pensi a mozzare, / ché meglio è morte di vivere vinto".
Bertran de Born passò gli ultimi venti anni della sua lunga vita come frate cistercense, senza scrivere poesie e presumibilmente disarmato. Questi uomini cortesi medievali erano gente dal forte sentire e passavano con fede da una religione all' altra.

“La Repubblica”, 31 agosto 1984

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