1.12.12

Riccardo Orioles racconta Pippo Fava (da un'intervista a Barbara Bertoncin)

Pippo Fava
Su “Una Città”, benemerita  rivista di Forlì, che dalla provincia senza provincialismi riattualizza gl’ideali del socialismo umanitario e libertario e lascia libero accesso on line alle interviste che la corredano, è apparso nei giorni scorsi il resoconto del colloquio con un magnifico giornalista ed affabulatore, oggi direttore de “I Siciliani giovani” (www.isiciliani.it), Riccardo Orioles, che tra l’altro rievoca il suo apprendistato giornalistico con Pippo Fava. Autrice dell’intervista, di cui riporto la prima parte, è Barbara Bertoncin. (S.L.L.)
Riccardo Orioles
Hai partecipato alla nascita de "I Siciliani” di Pippo Fava. Puoi raccontare?
Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta. Un giorno mi sono guardato allo specchio e mi sono spaventato: erano passati oltre dieci anni dal ’68, ero "grande”, avevo ventisei-ventisette anni e non avevo né arte né parte. A quel punto ho deciso di mettere la testa a posto, di trovarmi un lavoro serio, tranquillo e di chiudere, diciamo, questa fase giovanile. Pertanto ho fatto un concorso dell’ordine dei giornalisti e l’ho vinto.
Dovevo scegliere il giornale a cui andare e ho scelto l’"Ora” di Palermo, che era il giornale tradizionale della sinistra. Un giorno, avendo un’oretta libera, mi sono messo a leggere La passione di Michele, di Giuseppe Fava. Il fatto di non conoscerlo, di non averlo mai sentito nominare, mi aveva molto irritato. La sera dopo ho incontrato un amico che mi ha preso in giro perché mi volevo mettere a fare il giornalista e che però mi ha chiesto: "Hai provato a Catania?”. "Perché?”. "C’è Fava che sta aprendo un giornale nuovo...”. Così sono andato a Catania, da Pippo Fava, e mi sono messo a fare il giornalista. Io volevo fare gli esteri, perché mi ritenevo molto bravo, e lui: "No, cronaca nera”. Tra l’altro pensavo anche di avere le idee molto chiare su come si fa la cronaca nera. In realtà, non era proprio così... Per dire, se c’era una rapina nella bisca clandestina (che però si chiamava "circolo culturale Europa”), il giorno dopo qualunque traccia di quella rapina era sparita dai brogliacci della questura. Se arrestavano un mafioso a Torino con una tonnellata e mezzo di droga nel camion, il funzionario della narcotici a Catania non ne sapeva niente... cose così.
Per cui noi sparavamo sulla croce rossa. Eravamo anche molto ignoranti, nel senso che molte cose non le vedevamo, però era facile capire che c’era la mafia a Catania. Allora abbiamo iniziato a scrivere queste cose qui. Quello che doveva essere un mestiere tranquillo è diventato un mestiere molto divertente, però tranquillo non molto.
Pippo Fava era un giornalista vecchissimo dal punto di vista del mestiere, cioè era uno degli anni Cinquanta per cui la regola aurea era che tu non potevi dire assolutamente niente se non eri stato sul posto e non l’avevi verificato. In realtà i giornali non si facevano più così da molto tempo, però noi non lo sapevamo.
Io ero assolutamente convinto che il giornalista fosse "Humphrey Bogart più controllare tre volte le fonti”.
Da questo punto di vista per noi era facile; davamo delle imbucature ogni giorno al nostro avversario, "La Sicilia”; a parte quelli che erano ammanicati, i colleghi erano anche brava gente, ma non ne avevano più voglia.
Noi addirittura avevamo le radio truccate, per cui spesso arrivavamo sull’omicidio prima della polizia, perché intercettavamo le volanti. Eravamo ferocissimi… Una volta Claudio e io intercettammo un carro funebre su una strada di campagna. "Che ci fa un carro funebre su una strada di campagna?”, "Seguiamolo!”. Cose di questo tipo. Alcune divertenti, ma alcune veramente orribili. Per esempio, il morto ammazzato all’epoca si distingueva in "morto col morto” e "morto senza morto”, quando il morto se l’erano portato via. Alle sette di mattina, "Pronto, Riccardo, c’è un morto”. "Che morto?”, "Un morto col morto”. "Ah, allora vengo!”, e mi fiondavo sulla vecchia Citroen…
In quegli anni, scoprimmo anche il livello alto dei mafiosi. Voglio dire, il colonnello dei carabinieri andava a cena con Santapaola. Il capo della squadra mobile ricattava dei carabinieri per via di una ragazzina, non parliamo di alcuni giudici... Ogni mese partiva un camioncino carico di salumi e formaggi per la casa di un giudice da parte del clan Ferlito. Questo avveniva alla luce del sole.
Tu avevi questa grande piazza quadrata, che è il centro di Catania, con, su un lato, le bische clandestine, su un altro il palazzo di giustizia, poi i carabinieri e in fondo l’albergo dove ogni venerdì facevano la riunione per stabilire il prezzo della droga e infine, al centro, sotto il monumento ai Malavoglia, i ragazzini tossicodipendenti che si prostituivano.
Un ragazzino costava tra le cinque e le diecimila lire, non di più, se era tossicodipendente.
Nel 1980, mi pare, ammazzarono sessantatré persone a Catania, delle quali un paio erano mafiosi, ma la maggior parte erano ragazzini, piccoli delinquenti. Ricordo che una sera tardi andammo in questa birreria, una delle poche aperte, che evidentemente era protetta - rimanevano aperte solo le birrerie dei mafiosi, se ti azzardavi ad aprire un locale saltavi per aria - in cui c’eravamo noi e il metronotte. E questi ragazzini tutti contenti che davanti agli spaghetti e alle birre si dividevano le catenine. Ecco, due giorni dopo trovarono la testa di uno di questi ragazzini sotto la statua di Garibaldi. Il corpo lo ritrovarono due giorni dopo in campagna. Aveva fatto una rapina sbagliata.
Non è vero che la mafia è disordine, la mafia è ordine perfetto. Se tu eri bravo, avevi la possibilità di far carriera nella vita, se chiedevi il permesso e poi facevi una bella rapina, chi lo sa, poteva essere che dopo qualche mese ti chiamassero per partecipare a qualcosa, in modo che tu, a poco a poco - se non ti sparavano - facevi strada. Ecco, all’epoca conoscevo tutti questi ragazzini catanesi. La mia macchina non aveva serrature… una volta mi rubarono le sigarette, le Gitano. Me ne lamentai con loro e due giorni dopo trovai due pacchetti di Gitano nel sedile della macchina. Per dire...
Noi all’epoca facevamo questo quotidiano, il "Giornale del Sud”, voluto da un gruppo di imprenditori - uno era padrone di una delle prime televisioni e forse si era un po’ montato la testa… Questi poveracci si erano spaventati immediatamente, per cui la cosa tipica era che io andavo, facevo la notizia, mi facevano casini, lo dicevo al direttore, il direttore scendeva lì proprio intimidendoli... A volte però il direttore era a Roma e quindi la cosa non passava. E questo successe una volta con un mafioso molto grosso che era parente di un politico catanese, cugino…
Il vicedirettore mi censurò la notizia e i tipografi però la sgamarono e di nascosto mi portarono la strisciata originale. Il giorno dopo, quando andai dal direttore con la strisciata originale, scoppiò l’ira di Dio e Pippo venne licenziato.
Ufficialmente venne licenziato con la motivazione che i suoi articoli avevano, tra virgolette, minacciato l’Alleanza Atlantica. Per protesta occupammo il giornale per una ventina di giorni, dopodiché arrivò il sindacato e ci spiegò che non si occupano i giornali.
Per un anno cercammo di fare qualche attività commerciale. Riuscimmo anche a farci dare l’intera serie pubblicitaria di una catena di locali… Ricordo che brindammo, però a fine anno, al momento di fare i conti, ci accorgemmo che ci avevamo rimesso bestialmente. Questi ci avevano dato la commessa tanto facilmente perché noi eravamo gli unici scemi che la facevano per quattro soldi. Oppure avevamo fatto un settimanale... era il primo in cui si parlava di mafia catanese. L’unico problema è che era in inglese. Si chiamava "Walkie Talkie” e veniva diffuso all’Università per stranieri di Perugia, alla base americana di Sigonella e in pochi altri posti simili. Eravamo convinti di avere scoperto un grande target e ci mettemmo a fare un tabloid carinissimo in cui si parlava di Cosa Nostra, di mafia, dei killer Santapaola, dei "cavalieri”, queste cose qui. Poi la cosa finì perché gli americani, a un certo punto, licenziarono quelli che portavano il giornale dentro la base.
Finalmente, nel novembre dell’82 si decise di fare il giornale. Lo decise il direttore. È stata l’unica cosa autoritaria che abbia mai fatto. Siccome si tirava in lungo, un giorno, nella riunione di redazione, ci disse: "Ragazzi, sentite, la settimana prossima tu Riccardo vai a Palermo e tu Antonio inizi a lavorare... Usciamo a dicembre”. Claudio, che era il più ragionevole di tutti, fece qualche obiezione, ma noi, appena sentita la parola "giornale” non c’avevamo visto più…
La settimana dopo io ero a Palermo dove c’erano Falcone, Agata Consoli, Signorino, che erano allora il primissimo nucleo del pool antimafia. E c’era anche Chinnici, ovviamente.
Così abbiamo fondato il giornale di cui tante volte avevamo parlato al bar: "I siciliani”. Noi in realtà avevamo trovato titoli molto più belli e molto più giovani, tipo "Il Domani”, "L’Avvenire” però poi risultarono tutti già occupati e allora alla fine abbiamo pensato a quel nome, perché i siciliani siamo noi, non gli altri, non so bene come dire. Era un bellissimo giornale. Non so a cosa corrisponderebbe ora, era un brossurato di duecento pagine. E si vendeva molto bene, però non avevamo una lira di pubblicità.
In realtà se sfogli la collezione trovi la Fiat, la birra Peroni… ero io che fotografavo le pubblicità dagli altri giornali e le mettevo lì nella speranza di convincere qualche inserzionista.
L’unica pubblicità vera era quella di un vecchio amico del direttore che aveva un ristorantino.
Comunque "I Siciliani” ha avuto un successo terrificante. Ci sono state due ristampe del primo numero, evidentemente avevamo toccato delle corde…
Come redazione, oltre al direttore, c’eravamo io, Claudio, Michi, Antonio, Rosario e poi Giovanna Quasimodo ed Elena Brancati, che erano le nipoti di Quasimodo e di Brancati. Questo era il gruppo. Poi c’era Nanni Maione, quella che doveva cercare la pubblicità, l’impaginatore, Turi il fotografo, "Merola” il tipografo; c’era anche Lillo Venezia che era stato direttore del "Male”… poi c’erano un paio di ragazzi che se ne andarono dopo la morte del direttore…

Pippo Fava è stato anche un maestro per voi...
Il direttore aveva una concezione molto precisa del giornale. Oggi si parla molto di giornalismo d’inchiesta, lui non era un giornalista d’inchiesta. Lo era stato negli anni Sessanta; lui era soprattutto uno bravo nel costruire una storia. I giornalisti d’inchiesta eravamo soprattutto io, Claudio e Michi e poi anche Antonio e Rosario. Però non hanno sparato a nessuno di noi. Evidentemente, fare l’inchiesta non è una cosa così pericolosa, non so se rendo l’idea. È molto più pericoloso ricostruire un contesto e farlo capire alla gente, magari divertendola.
Fava scriveva molto bene e molto allegramente, capisci? Questo lo dico anche un po’ in polemica con Travaglio e con certo giornalismo d’inchiesta attuale.
Dietro c’è una teorizzazione che risale agli anni Novanta, quando in America ci fu il dibattito sulla story, quella che noi chiamavamo goffamente "storia di vita”.
Gli americani ci hanno insegnato che devi avere le "cinque w” ("who, what, when, where, why”, cioè: chi, cosa, quando, dove e perché). Poi però, se hai i dati, li metti nella scheda, in un box, cioè le cinque w ce le hai nella pagina, non nel pezzo.
Comunque tu riconosci un pezzo mio, di Claudio, di Antonio o di uno qualsiasi dei ragazzi che hanno scritto per noi, perché quasi sempre comincia con una virgolettatura. Una buona parte del pezzo deve essere un virgolettato, non esiste che tizio ha detto che secondo caio…No, tizio ha detto, due punti e virgolette. Non so se mi spiego.
Devo anche dire che in quegli anni noi non abbiamo mai preso una lira dal giornale, le nostre entrate venivano dagli inserti turistici. Il Comune di Acireale, per esempio, ci dava 500.000 lire. Il pomeriggio in cui l’hanno ucciso, il direttore era stato proprio in un comune per cercare di contrattare una di queste inserzioni ed era tutto contento che forse ci facevano fare quattro pagine e forse sarebbero entrate 250.000 lire.

Fava aveva un’idea molto precisa del mestiere di giornalista...
Sul lavoro, noi non parlavamo di professionalità, di professionismo. Una delle cose che ci è stata insegnata è che il giornalismo è un mestiere: sei un ciabattino, un muratore, non sei un artista, assolutamente.
Ma il mestiere è una cosa serissima, con regole rigidissime, cioè tu non puoi lasciare la vedova in cima o l’orfano a fine colonna; se dici che c’è stata la rapina, ci si aspetta che tu sia stato sul posto e abbia parlato con almeno due persone. E poi non vai alla conferenza stampa dei carabinieri perché è tempo perso: il giorno dopo parlerai con qualche carabiniere, così, en passant. Se devi raccogliere i dati, la conferenza stampa non è fonte.
Poi c’era la revisione e considera che lui era uno che rivedeva le bozze nella vecchia tipografia, quando c’era il piombo, una cosa da filmare perché per stabilire se scrivere obiettivo con una b o con due b dovevi fermare le macchine. Il fatto è che non era possibile mettere in giro una cosa con la tua firma se c’era un errore. E non parlo del controllo sui contenuti, perché si suppone che, arrivati lì, i fatti fossero stati controllati. Dopodiché si andava in osteria, si rideva, si scherzava, ma per lui il lavoro era un momento sacro. Aveva un rapporto con il mestiere che prescindeva completamente da status e cose di questo tipo. Era un rapporto molto arcaico, puro, che forse non è riuscito a insegnare a nessuno di noi.
Noi abbiamo tutti quanti l’ambizione di essere scrittori, come tutti i giornalisti. In realtà non credo che verrà fuori un buon libro da uno di noi. Però una buona scrittura sì. Noi scriviamo tutti molto meglio della media dei giornalisti italiani, proprio perché siamo cresciuti con questo rispetto per la scrittura. La scrittura è semplicemente quello che vede e che dice la gente. Punto. Ed è un lavoro difficilissimo, un lavoro quasi manuale: rifilare, tagliare... e quando ci riesci è perché hai zappato sufficientemente a lungo, non perché hai avuto il colpo di genio.
Lui aveva un rapporto molto bello con la scrittura, non si perdeva neanche per un istante.
Negli anni era cresciuto, perché aveva fatto anche dei brutti libri, ma poi man mano era uscito dal bozzolo. La Passione di Michele ebbe un successo enorme. Tra l’altro, se lo leggi, ti accorgi che c’è la "clausola metrica”, vale a dire che in ogni fine capitolo hai una serie di endecasillabi alessandrini, che è una cosa che si usava fino all’Ottocento, molto rara. Io gliel’ho chiesto, ma non ho mai avuto una risposta chiara... se fosse un fatto ritmico, istintivo… o se fosse voluto. Perché allora sono in tre o quattro ad averlo fatto nella letteratura italiana.
Ai "Siciliani” la nostra religione era il palinsesto, che veniva deciso democraticamente, questo anche quando c’era il direttore. Lui non ha mai dato ordini, l’unico è stato quello di fare il giornale, per il resto il giornale lo gestivamo io e Claudio. Dopodiché lui faceva i pezzi, dava lo spirito. Era un grandissimo maestro da questo punto di vista. Me ne accorgo adesso che sono vecchio. Era capace di farti fare una cosa senza che tu te ne accorgessi, facendola venire in testa a te. Era anche molto ironico, e poi era uno che voleva bene. Questo c’è o non c’è.
Alla fine è stata una cosa breve, di pochi anni, però molto intensa, è bastata a insegnarci. Infatti, quando poi ci siamo sparsi e siamo entrati in contatto con i colleghi, ci siamo accorti di essere meno scarsi di quanto pensavamo. Ricordo ancora che uno dei nostri ragazzi mandato al "Giorno” di Milano per lo stage, il giorno dopo l’avevano già messo a fare i titoli, non so se rendo l’idea… A lui era stato insegnato che doveva fare la pagina con un titolo e poi due o tre di riserva pronti, proprio come standard.

Che tipo era Pippo Fava?
È una delle poche persone alle quali ho ubbidito senza mai ubbidirgli. E non perché comandava, ma perché lo meritava. Cioè, se a Taormina c’era un poliziotto che faceva le angherie, lui era il tipo da dirgli: "Senta, ma lei conosce l’art. 48? Ai sensi dell’art. 48, io la dichiaro in arresto”. Era uno così.
Io l’ho visto in cravatta solo due volte: alle nozze di Claudio, la prima volta, e all’assemblea conclusiva nostra. Era molto understatement, ma era anche profondamente siciliano, per quella sua aria malinconica. Era uno che piaceva molto alle donne, però non se ne accorgeva. Aveva ancora la mentalità del ragazzino che è felice se una donna gli dedica un sorriso. Era spavaldo, galante… però poi era timidissimo. Periodicamente succedeva che cadeva in queste cupe desolazioni. A me piaceva molto soprattutto quella sua cavalleria istintiva. Ricordo che un giorno, Nanni, una signora molto elegante che ci faceva la pubblicità, si era messa a rimproverarlo, ma proprio di mala maniera. E lui, poverino, non osava replicare perché non puoi replicare a una donna, non so se mi spiego. Questa era una cosa visibilissima, proprio palpabile, che vedevano tutti meno che lui.
In certi momenti, era anche molto duro, però tieni conto che il direttore non ci ha mai dato un ordine, un rimprovero. L’unico che rimproverava era il povero Claudio. La tipica cazziata mia era al bar: "Riccardo, guarda che forse... non lo so”, così, senza neanche completare la cosa. Invece, la cazziata di Claudio (che era più bravo di me, era l’unico di noi che aveva un annetto di esperienza) era tremenda, si sentivano le urla: "Ma non è possibile, ma è come se non fossi mai stato in un giornale!”.

A un certo punto arrivò quell’offerta dalla famiglia Rendo...
Il giornale aveva successo. Pochi mesi dopo, i Rendo, che erano degli imprenditori, fecero un’offerta di un miliardo, un’offerta tatticamente sbagliata. Cioè se c’avessero offerto 100.000 lire, si discuteva, ma così... Noi avevamo una sede a Roma, che in realtà era un appartamento vuoto con un letto e qualche sedia. Tra l’altro bisognava salire di nascosto dal portiere perché eravamo morosi da sempre. Ecco quel giorno eravamo a Roma, un po’ per caso… lui per cavoli suoi, io perché avevo gli esami, Claudio e altri non mi ricordo. E così ci trovammo seduti lì, su questo letto, su questa sedia.
Lui disse: "Ragazzi, sentite, è arrivato il figlio di Rendo, ha offerto tot e io gli ho detto che non mi interessava, però gli ho detto di aspettare perché dovevo sentire voi” e si mette a raccontare questa storia con questa grande contentezza nel parlare di miliardi. E noi immediatamente: "Ma no, come?”, tranne Claudio, che era il più ragionevole di tutti e che non ha osato dire niente. E così abbiamo deliberato all’unanimità che avremmo respinto sdegnosamente questo miliardo. Dopodiché, sempre bypassando il portiere, siamo andati a festeggiare il mio esame in un bar di infimissimo ordine.
Ma non era finita così.
A settembre, venne un politico, l’onorevole Andò, che rifece la stessa proposta che aveva fatto la famiglia Rendo un anno prima. E anche lui fu mandato via. Quel giorno c’ero solo io, ma a distanza tale da non poter sentire. Quella volta l’ho visto veramente spaesato.
Ora, se ti minacciano, non ti sparano, di solito, no? Poi non è neanche che devono minacciare, perché si suppone che tu non sei una persona da minacciare. Devono verificare, diciamo. Perché non è mai gratis ammazzare qualcuno. Quindi, molto seriamente, controllano, ti danno l’ultima opportunità. Dopodiché si organizzano di conseguenza. Era una cosa di questo tipo e credo che lui l’avesse capito perfettamente, anche se non ho le prove: sono battute, silenzi.
Comunque penso che se lo aspettasse. D’altra parte noi tutti ce lo aspettavamo… Era nel conto che questi sparavano. Io e Claudio prendevamo delle precauzioni, però era una cosa abbastanza astratta. Non è facile capire che cosa vuol dire che ti sparano. Voglio dire, noi abbiamo una grande capacità di rimozione. Tutto il coraggio consiste essenzialmente in questo. Anche se hai visto uno che ha preso il colpo di pistola in testa, non lo colleghi con te stesso. Io credo che sia una questione molto fisica, di sopravvivenza psicologica… Questo era come la vivevamo noi. E poi c’era come la viveva lui, che era una cosa quasi da vecchio, più militare. Non so se rendo l’idea: era una cosa, per cui non ti potevi tirare indietro. Anche perché avevi dei ragazzi che credono in te. Anche questo contava molto.
Pippo Fava era prevalentemente un giornalista di costume. Non era scritto da nessuna parte che doveva essere lui a smascherare il sistema mafioso catanese, invece, a un certo punto lui ci si buttò dentro freddamente e scientificamente dando esattamente tutti i colpi che bisognava dare. Non era una cosa spontanea. Io credo che in questo c’entrasse anche il volerci bene. Il non lasciarci soli.
C’era stato un periodo in cui Claudio aveva molta paura, non tanto di essere ammazzato, ma di essere preso e torturato. All’epoca c’era la camorra di Cutolo che faceva queste cose. Da noi non si usava, però è una di quelle cose che ti fanno orrore.
Dopo che ci misero la bomba al giornale, lui, all’insaputa di tutti, si armò e si mise a seguire in macchina Claudio. Ti immagini la scena? Claudio avanti e lui cento metri indietro con ‘sta pistola. Mi sono sempre chiesto che cazzo sarebbe successo se gli toccava sparare un colpo. Lui non aveva un rapporto virile con le armi, sembrava proprio la cosa più ridicola che potesse fare. Però la cosa era così: siccome quelli mettevano bombe, allora dovevamo giocare pesante.
A un certo punto mi ero armato anche io. Un poliziotto amico mi aveva procurato una pistola sequestrata con la matricola abrasa. Così, la sera arrivavo, posteggiavo la macchina lontano, facevo il giro del palazzo, poi salivo le scale, infilavo la chiave rapidamente, estraevo la pistola ed entravo.
Una sera, improvvisamente, mi sono visto mentre stavo aprendo la porta con tutta questa scena e mi sono spaventato: ho preso la pistola e l’ho posata con due mani sul comò, stando attento a puntare la canna verso il muro e mi sono addormentato con gran difficoltà. Il giorno dopo l’ho restituita. È stata l’ultima volta che ho toccato un’arma…
Dopo la morte del direttore ho convinto Claudio e Michi a prendere il porto d’armi. Una volta passa la solita mercedes gialla... ricordo ancora la scena: io che apro la porta all’improvviso, Claudio e Michi escono con le armi per affrontare questi tipi, che poi al processo è risultato che tra loro c’era uno dei killer...
Quello è stato il momento più militare che abbiamo mai toccato. Noi non eravamo assolutamente dei rambi, però mi ricordo che quando ne parlammo: "Dovete prendere il porto d’armi”, la risposta fu: "Sì, vabbé, tanto ci ammazzano ma almeno forse riusciamo a tirare un colpo a uno di quelli che hanno ammazzato il direttore”. Una cosa assolutamente da bambini. Ma perché questo eravamo, bambini spaventati.

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