22.1.13

Sul filo del tempo. Del linguaggio umano e della sua evoluzione (di Marcello Cini)

L'approccio evolutivo si è rivelato il metodo più adatto per cogliere la multiforme varietà dei modi inventati dagli uomini per comunicare. Nel 2002 a Roma un convegno internazionale tentò di fare il punto sui nessi tra evoluzione e linguaggio umano. Marcello Cini, scienziato e comunista di recente scomparso, vi partecipò con un intervento da metodologo “non specialista” (era un fisico), che fu pubblicato sul “manifesto”. Mi pare un pezzo di eccellente divulgazione. Nel mio piccolo lo rilancio e lo suggerisco. (S.L.L.)
Marcello Cini
L’evoluzione e lo studio delle società umane
La nostra specie, Homo sapiens, è una specie sociale. Nelle altre specie sociali l'organizzazione della società, la collocazione dei suoi membri, e la divisione dei loro compiti nella riproduzione, nell'allevamento della nuova generazione, nella costruzione dei nidi e nella ricerca del cibo è in larga misura codificata nel patrimonio genetico le cui mutazioni richiedono tempi lunghissimi. Invece, da quando la nostra specie si è separata dalle altre specie di ominidi che l'hanno preceduta, l'evoluzione delle forme della convivenza dei gruppi umani non è più avvenuta attraverso mutamenti genetici, ma culturali. Dagli strumenti materiali al linguaggio, dalle credenze religiose alle arti, agli usi e ai costumi, dai rapporti familiari a quelli di potere, sono intervenuti mutamenti radicali con ritmo sempre più accelerato, a partire dall'invenzione dell'agricoltura diecimila anni fa. Ci si può chiedere dunque: come sono nate le novità in questo processo di evoluzione, cioè nel corso della storia delle società umane? A questa domanda gli storici e i filosofi hanno in passato risposto in vario modo: alcuni esaltando l'iniziativa dei grandi personaggi, altri portando alla ribalta i movimenti delle popolazioni e la pressione delle masse, o ancora dividendosi fra chi identificava nella forza delle idee il motore dei mutamenti epocali e chi ne attribuiva la causa determinante a fattori economici o materiali.
Altri invece, che ritenevano necessario un approccio più scientifico allo studio di queste società, hanno preferito, prendendo a modello le scienze «dure» della natura, la ricerca di regolarità, la costruzione di modelli, la individuazione di nessi che permettessero di tracciare schemi, disegnare trame o addirittura formulare «leggi» in grado di cogliere i caratteri universali delle diverse forme di convivenza umana. Alla domanda: «come cambiano?» si preferiva quella: «cosa hanno in comune di immutabile?»

Biologia evolutiva come storia naturale
Nella seconda metà del Novecento, tuttavia, si delinea un mutamento sostanziale nel panorama delle scienze. La formulazione delle leggi non caratterizza più la ricerca nei settori di punta, che comincia a concentrarsi invece sullo studio degli aspetti che caratterizzano l'evoluzione di processi irregolari e irripetibili. L'evoluzionismo, fino ad allora circostritto nell'ambito della biologia evolutiva, diventa un modello per molte altre discipline. Dall'evoluzione dell'universo all'evoluzione della vita sulla terra; dall'evoluzione della mappe cerebrali all'evoluzione del sistema immunitario; dall'evoluzione dell'uomo e della sua mente all'evoluzione delle società e delle loro istituzioni, si è andato affermando un punto di vista comune per spiegare, mediante l'azione congiunta della generazione di diversità e della successiva selezione delle varianti più adatte, il divenire della realtà. In sintesi, il pensiero evolutivo è diventato una componente essenziale dello «spirito del tempo» e della spiegazione scientifica del mondo. La sentenza di Popper, che si rifiutava di ammettere la teoria di Darwin nel regno della scienza, in quanto «non falsificabile» è ormai caduta in prescrizione.
E' utile, ai fini delle brevi osservazioni che farò sul tema della linguistica, citare a questo punto quello che il biofisico Mario Ageno scriveva più di vent'anni fa, sul problema delle due facce della biologia. «La biologia fino a ieri aveva due facce, - leggiamo nel suo libro Le radici della biologia (Feltrinelli, 1986) - che si ignoravano a vicenda quasi del tutto: la biologia evolutiva e la biologia funzionale. La biologia evolutiva, quale erede di quella che un tempo si chiamava storia naturale, considera gli organismi viventi come entità indivisibili, le cui peculiarità caratteristiche emergono solo al livello della totalità e non sono deducibili che in parte dall'analisi delle subunità costituenti. La biologia funzionale, invece, essenzialmente riduzionistica, si dedica allo studio analitico di ciascun organismo, determinandone le strutture e i processi interni fin nei loro più minuti particolari...»
Tuttavia - osservava Ageno - la scoperta che il Dna, lungi dall'essere qualcosa di invariante, «appare coinvolto in una dinamica propria, incessante, in gran parte dominata da eventi casuali», muta profondamente il carattere della biologia molecolare: «Di fronte all'enorme varietà di soluzioni organizzative, regolative, adattative che risultano [da questa dinamica] .. il biologo molecolare si vede ora, un po’ per volta, costretto a cambiare il tipo delle domande che, nel quadro della sua ricerca sulla funzionalità dell'organismo, egli era solito fare. Egli era solito orientarsi verso una minuziosa descrizione dei processi osservati a livello molecolare, lasciando sottinteso che la loro causa era ovviamente sempre da ricercarsi nella struttura delle molecole coinvolte e nelle loro interazioni. Ma ora, di fronte alla molteplicità delle soluzioni a priori equivalenti, la ricerca delle cause, la domanda dei perché, si rivela sorprendentemente non decisiva, irrilevante, e il biologo molecolare è sempre più portato a chiedersi come ciascuna soluzione si sia affermata, attraverso quale catena di eventi e in quali condizioni generali di ambiente». La conseguenza - concludeva Ageno - è di vasta portata sul piano epistemologico: «Così scienza naturale e biologia funzionale stanno di fatto trovando la loro radice comune nella teoria dell'evoluzione biologica. Non ci sono, per i fenomeni biologici, altre spiegazioni possibili che quelle evolutive.»

Differenze e somiglianze
Queste lungimiranti parole di Ageno si attagliano perfettamente, secondo il mio modesto parere, alla situazione odierna delle ricerche nella linguistica. Mi sembra infatti che anche qui i tentativi di formulare leggi generali, per quanti successi possano avere avuto, si rivelano insufficienti a spiegare i «perché», a cogliere la multiforme varietà dei modi inventati dagli uomini per comunicare, e l'approccio evolutivo appare oggi la via più promettente da percorrere.
Ne troviamo conferma in un recentissimo libro, intitolato Le trame dell'evoluzione, di Niles Eldredge (Raffaello Cortina editore), il paleontologo e naturalista che con Stephen Gould propose nel 1972 la teoria degli equilibri punteggiati dell'evoluzione biologica.
«Quando nei primi decenni del ventesimo secolo - leggiamo - gli antropologi erano soliti discutere sui meriti di una impostazione strutturale di contro a una evolutiva, sembrava loro un'asserzione di esclusione reciproca. L'antropologo britannico Radcliffe-Browne sposò la seguente tesi: che una descrizione esauriente degli elementi di una società fosse sufficiente per coglierne la natura. Gli evoluzionisti, come Leslie White, replicarono che una mera descrizione delle parti non è affatto sufficiente. Era l'evoluzione della società - come era riuscita ad essere come appare - che contava...».
Concludeva: «Ad ogni buon conto, sembra evidente che, se vogliamo capire la struttura interna e la funzione di un sistema, dobbiamo coglierle nella loro `evoluzione'. Ed è altrettanto chiaro che lo sviluppo ('l'evoluzione') di un sistema è importante ai fini della conoscenza non meno della descrizione semplice dei suoi elementi».
Occorre tuttavia a questo punto chiarire bene che il «pensiero evolutivo» non ha niente a che vedere con una trasposizione banale della teoria darwiniana dell'evoluzione a strumento interpretativo di tutto ciò che avviene nel mondo. Non solo perché bisogna distinguere chiaramente fra la varietà dei processi concreti studiati dalle diverse discipline delle scienze della natura e della società - gli esseri umani non si riproducono come i batteri e le idee non si trasmettono come i geni - ma anche perché differenze e somiglianze devono essere esaminate confrontando livelli omogenei.
Per esempio, è scorretto confrontare i due processi senza ricordare che l'evoluzione culturale è stata, dopo l'estinzione delle specie di ominidi precedenti a quella di Homo sapiens, una evoluzione all'interno di una singola specie, dove non esistono unità discrete isolate tra loro da una barriera riproduttiva, come accade fra le diverse specie dell'evoluzione biologica, ma sistemi socioculturali, separati soprattutto da barriere geografiche e da tradizioni storiche, caratterizzati da un pool informazionale - fatto di strumenti, oggetti, simboli, lingue, regole, riti, usi e costumi - assai meno facilmente definibile di un pool genetico.

Linguistica e genetica
D'altra parte, invece, se si confrontano correttamente processi dello stesso livello, si possono rilevare significative concordanze. Come hanno dimostrato gli studi di Cavalli Sforza, per esempio, le diverse forme di linguaggio sono strettamente correlate con le piccole variazioni del pool genetico comune rintracciabili fra gruppi umani (demi) diversi, in quanto entrambe riconducibili alle successive ondate migratorie dei popoli che hanno attraversato le regioni abitate del pianeta.
Questo esempio dimostra - se è lecito a un profano dare consigli - che la linguistica non dovrebbe aspirare a mantenere uno splendido isolamento nei confronti delle altre discipline che studiano l'uomo. Il fatto che l'invenzione della scrittura risalga «soltanto» a cinquemila anni fa non significa evidentemente che prima di allora gli uomini non comunicassero fra loro mediante il linguaggio. L'unico modo dunque per tentare di andare più indietro nel tempo è quello di corroborare ipotesi e teorie sull'evoluzione di questo strumento espressivo mediante dati di altra natura.
Questa è la via seguita, per esempio, da Merritt Ruhlen, che, in uno splendido libro intitolato L'origine delle lingue (Adelphi, 2001) riesce a classificare le circa cinquemila lingue sopravvissute oggi - sulla base di una ricerca trentennale sulle parole presumibilmente di origine più arcaica che esse contengono - in sole dodici grandi famiglie, che trovano ottima corrispondenza con la classificazione dei gruppi umani presentata nella Storia e geografia dei geni umani da Cavalli Sforza (Adelphi, 1997). Tali superfamiglie sarebbero addirittura riconducibili, secondo Ruhlen - ma qui va anche riconosciuto che le sue tesi trovano molti linguisti in disaccordo - a una sola lingua primitiva che i Sapiens sapiens nostri progenitori portarono con sé quando, circa centomila anni fa, sciamarono con una serie di grandi migrazioni dalla loro culla africana alla conquista del pianeta.
Altrettanto feconda può essere la collaborazione fra psicologi, antropologi, archeologi e linguisti. In un volume trovato per caso mentre curiosavo in una libreria americana, pubblicato dalla Cambridge University Press, sono raccolti dodici saggi - sotto il titolo Evolution and the Human Mind e sottotitolo Modularity, language and meta-cognition - che tentano di rispondere alla domanda: «Come si è evoluta la mente umana?» mettendo in relazione temi che vanno dalle «origini della cultura», al «rapporto fra mente, cervello e cultura materiale in una prospettiva archeologica». Lo cito non tanto per i contenuti specifici, che non sono competente a valutare criticamente, quanto per mettere in evidenza un sintomo di una linea di tendenza in questi studi che conferma le mie osservazioni precedenti.

Le lingue patrimonio dell’umanità
Infine voglio accennare a un altro libro che, pur rimanendo strettamente nel campo della linguistica, può essere collocato comunque nel filone del pensiero evolutivo, perché coglie il carattere evolutivo delle lingue, analizzandone mediante una stupefacente varietà di esempi e di correlazioni reciproche le fasi fondamentali dalla nascita alla morte. Una morte che tuttavia può anche non essere definitiva, ma preludere, in circostanze eccezionali, a una rinascita. Si tratta del libro Morte e rinascita delle lingue, di Claude Hagège, che ha un sottotitolo Diversità linguistica come patrimonio dell'umanità (edito da Feltrinelli), che spiega le ragioni della difesa appassionata da parte dell'autore di questa ricchezza che rischia di scomparire. Un esempio per tutti mostra l'importanza di questo obiettivo, che dà alla linguistica come disciplina una responsabilità culturale particolare.
Partendo dall'osservazione che «per il solo verbo correre il pomo centrale, lingua ancora conosciuta da pochi vecchi che vivono nelle riserve a 160 km a bord di San Francisco, si trovano cinque forme verbali che combinano in maniera diversa affissi e radicali...», Hagège conclude: «Se si considera che le comunità umane costruiscono le proprie lingue in base alle associazioni tra le cose, compiute dalle rispettive culture, e che, reciprocamente, il riflesso di tali associazioni nelle parole porta in seguito i loro discendenti a stabilire i medesimi rapporti tra le cose, si capisce come il pomo incarni una concezione degli oggetti del tutto originale rispetto a quella delle lingue occidentali. Sono questi i tesori che vanno perduti quando le lingue muoiono.»
Viva dunque la Torre di Babele!

“il manifesto”, 2 luglio 2002

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