27.2.13

Broadacre City. Utopia e disurbanistica di Frank Lloyd Wright (di Maurizio Giufrè)

Il progetto di città che diventerà il manifesto modernista

Broadacre City è la città che nel 1934 Frank Lloyd Wright immagina per combattere l’«atto disumano» rappresentato dalla congestione urbana, la soluzione concreta per «civilizzare » la vita cittadina. Un anno dopo ne esibisce il plastico al Rockfeller Center di New York in occasione dell’Industrial Arts Exposition.
Il modello ha le dimensioni di quattro metri per quattro, corrispondenti a due miglia quadrate, e illustra la edificazione distesa e ordinata in una maglia di isolati quadrati che contengono piccole aziende agricole e altre di medie dimensioni, mercati e centri civici disposti sugli assi stradali e circondati da zone boschive a disposizione per l’espansione futura, stadi e arene per fiere e manifestazioni all’aperto; ma anche edifici multipiano per le funzioni amministrative e poi scuole, teatri e motel, il tutto immerso in terreni coltivati perché la comunità urbana di Wright – si chiamerà
Usoniana – dovrà vivere e produrre superando l’opposizione tra città e campagna.
Nel 1958 Broadacre City, descritta e illustrata con disegni, rappresenterà il manifesto dell’«estetica organica» diWright nel saggio The Living City, tradotto da Enrica Labò nel 1966 per Einaudi con il titolo La città vivente e oggi fortunatamente riedito (Piccola Biblioteca Einaudi) dopo un decennio di assenza dalle librerie. Jean-Louis Cohen, nella sua chiara prefazione, sottolinea come Wright, durante gli oltre vent’anni dall’elaborazione all’effettiva divulgazione del suo pensiero urbanistico, non modificò mai le sue idee pur assistendo ai profondi cambiamenti del paesaggio, delle città e della società statunitense: l’evoluzione dell’abitare sarebbe stata ostinatamente orientata a una «spazialità decentrata».
Negli anni trenta Wright fu un critico convinto delle «inesorabili trappole commerciali» e dell’«esasperato perpendicolarismo» di New York; mentre con il suo libro The Disappearing City si schierò a favore dei programmi del New Deal rooseveltiano diretti a far «scomparire» dalla città le tragiche condizioni di vita dei quartieri poveri, attraverso l’integrazione dell’ambiente rurale con quello urbano.
Negli anni cinquanta, durante la Guerra fredda, avrebbe seguitato con altrettanta determinazione a promuovere il diradamento dei nuovi insediamenti in quanto funzionale alla difesa della nazione: «lo spazio serve alla sicurezza non meno che alla bellezza». In ogni caso la città orizzontale di Broadacre City si presenta come un modello idoneo e coerente, ma soprattutto «infinitamente estensibile e flessibile», diversamente dalle rigide
soluzioni prospettate dagli «europeimoderni», a cominciare da Le Corbusier con il Plan Voisin o la Ville Radieuse, per finire con la «città verticale» di Ludwig Hilberseimer: esempi di Machine-City troppo distanti da quel rapporto vitale con la natura che è alla base dei valori architettonici, quindi umani, sui quali si fonda l’«architettura organica» di Wright.
«Gli edifici, come gli individui – scrive l’architetto statunitense – sono creature solari, sviluppo nato al sole dalla Natura e con la Natura nata al sole». La natura, però, per Wright non è mai intesa come una mitica Arcadia. E a Chicago, nella comunità urbana di Oak Park, dove vivrà per circa vent’anni progettando per i suoi vicini comode e tranquille ville, sembrano prendere forma gli ideali del trascendentalismo di Henry David Thoreau o di Ralph Waldo Emerson (di quest’ultimo è inserito in appendice il suo Saggio sull’agricoltura) ai quali Wright farà sempre riferimento.
Per comprendere Broadacre occorre tenere presenti molti fattori, tutti inseriti nel dibattito intellettuale americano della fine dell’Ottocento: dall’ideologia agraria di Thomas Jefferson alle denunce contro la corruzione urbana di autori come Henry James o John Dewey; dall’affermazione del mito della frontiera come fonte di valori alle tesi dell’economista Henry George per combattere la povertà prodotta dalla cupidigia dell’industria.
Giorgio Ciucci – più volte citato da Cohen – ha spiegato con ricchezza di elementi in un suo memorabile saggio comparso nel volume collettaneo La città americana, dalla guerra civile al “New Deal” (Laterza, 1973) l’intreccio delle componenti politiche e culturali che sottendono la nascita di Broadacre. È un mistero il perché non sia menzionato nel contributodi Bruno Zevi pubblicato in fondo alla riedizione del saggio di Wright.
Il più autorevole sostenitore dell’architettura organica ripercorre l’«ostracismo verso il maestro di Taliesin» e critica l’accoglienza che da noi ha avuto la «città-territorio wrightiana», divisa tra lo «scetticismo» (Benevolo) e una «puntuale benché talora distorcente» interpretazione (Tafuri–Dal Co). Un «silenzio» ancora durevole, visto che il recente dizionario einaudiano, Architettura del Novecento, dedica solo poche righe a questa vicenda centrale dell’opera di un grande maestro, ma ciò a dimostrazione (mi riferisco al saggio di Ciucci) che solo pochi decenni fa, la ricerca accademica possedeva altre qualità e spessore.
Fa notare Ciucci: «Broadacre non è né utopica né reale, ma è solo fuori del tempo; nata in ritardo, è la risposta ai problemi dello sviluppo urbano degli ultimi anni dell’Ottocento e dei primi del Novecento così come li aveva colti Wright». Di questa «sfasatura» Wright non si accorge così come
non coglie il fatto che la questione della povertà non è risolvibile rendendo tutti possessori di un acro di terra da coltivare. La prospettiva del «capitalismo organico», cioè la condizione perché ognuno possa «scegliere e possedere tutto ciò che appare importante per la sua vita e per la vita di coloro che egli ama», si dimostra fragile nei confronti dei meccanismi di disuguaglianza che provoca la rendita fondiaria nella realtà urbana.
Ben altre soluzioni e di più immediata applicazione sono quelle studiate da urbanisti come Patrick Geddes, Ebenezer Howard o Joseph Stübben in Europa: tutte inconciliabili con l’intransigente «disurbanistica» di Wrigth, che prevede una comunità senza classi, un’ideale società preborghese alternativa sia alla società capitalistica sia a quella socialista, tutta da costruire come Broadacre City. È noto che davanti all’avanzare progressivo dello sprawl urbano, che a Chicago ha già inghiottito Oak Park, Wright fuggirà nel deserto dell’Arizona per riaffermare il suo bisogno di comunità, libertà e democrazia, e costruirà la sua casa-studio a Taliesin West. Tuttavia per la «città vivente» non possono esserci né condizionamenti né compromessi. Occorre solo attendere perché è inevitabile arrivarci «non meno del sorgere del sole domani mattina anche se pioverà».
Broadacre ha però bisogno che gli abitanti della città gradualmente scoprano il loro istinto di nomadi e agricoltori. Gli saranno di aiuto i «miracoli delle invenzione tecniche», ma soprattutto la consapevolezza che l’architettura organica si identifica con la «libera democrazia».
Lewis Mumford distingueva due differenti utopie: l’«utopia della fuga» e quella della «ricostruzione». «La prima – scrisse – lascia il mondo esterno così com’è; la seconda tenta di cambiarlo per mettersi in relazione con esso alle condizioni desiderate». È nella seconda situazione che «consultiamo un geometra, un architetto, un muratore, e iniziamo la costruzione di una casa». Quando il sociologo e urbanista statunitense scrisse la sua Storia dell’utopia era il 1922 e Wright doveva ancora immaginare Broadacre; ma alla «città vivente» in molti altri (senza «deliri») avrebbero ancora continuato a credere.

alias – la talpa 24 febbraio 2013

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