La cifra stilistica di Anna Maria Ortese, quella sua peculiare finezza di tratto unita alla capacità di affondare immediatamente al cuore delle cose, di coglierne l’essenza con una naturalezza infallibile, riemerge ora, tutt’intera, nella raccolta di scritti sulla letteratura e sull’arte appena curata da Monica
Farnetti, Da Moby Dick all’Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, € 13,00).
In poche altre scrittrici si possono ravvisare insieme, miracolosamente inestricabili, severità e pietà. Lo sguardo di Anna Maria Ortese è sempre esatto: i dettagli necessari, le inquadrature mai sfocate, incarnati e contorni mai dilavati. La sua pietà, vibratile, è quella di chi si è conosciuta dovunque «in luoghi di esilio».
La sicurezza del suo gusto letterario e artistico non prescinde dalla densità etica delle opere a cui rivolge attenzione. Del Diario di Anna Frank, che è uno dei «libri che guardano l’orizzonte», Anna Maria Ortese coglie subito la freschezza adolescenziale – «è il libro di tutte le generazioni giovani del mondo» –, l’affamato desiderio di capire e al contempo la saggezza straordinaria e istintiva: «non hanno nome né volto né sguardo i nazisti per Anna, sono il male anonimo, la natura inquieta, la condizione dell’oscurità mentale: un assurdo».
A rendere la piccola olandese «imbattibile», a sostenerla nel chiuso del suo «alloggio segreto», è una passione che la Ortese chiama «amore della realtà ». Passione che lei stessa ha condiviso tenacemente, ma in modo unico, suo proprio. Che era il vedere «la realtà vera disfarsi continuamente (...), e la realtà irreale dominare l’eterno», scriveva nel Porto di Toledo.
Ortese non si lascia persuadere da storie «esemplari», con personaggi altrettanto esemplari, narrate «con linguaggio esemplare», e non teme di scrivere che avrebbe preferito «un Metello meno sicuro di sé, una Ersilia meno cosciente, un Libero meno paffuto ed anonimo»: il Pratolini che ha caro, infatti, è «quello che invece di parlare agli uomini li fa parlare; e ascolta anche il linguaggio dell’Arno dove è più basso».
In questi scritti critici, mai apparsi prima in silloge, a dominare è la libertà del metodo e della voce, che passa dalla «magnifica discrezione» di Cechov per le sue creature, al Buzzati «scrittore delicato e sinistro, sempre in allarme», all’«infanzia meravigliosa piantata negli occhi» di Hemingway. Nei Vangeli – ciascuno, «dietro un’apparente semplicità, misterioso e terribile» – riconosce la condanna
del tempo che si oppone all’eternità: «di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte». In Achab che perseguita Moby Dick, balena enorme e bianca come l’Orsa che «ha avuto un figlio» allo zoo, scorge un «Uomo-Senza-Natura, cioè senza pace, uomo muto, perduto nei sistemi senza orizzonte dell’utile». Lungimirante, acutissima, Anna Maria Ortese si chiede se il persecutore non sia «il mondo come America». Ben sapendo di poter dire anche la «Russia di domani», l«Europa di oggi». Ovvero «vita come mercificazione della vita; trionfo dell’utile, apoteosi dei costi». Il mercato, «compra-vendita di ogni splendore».
“alias – la talpa” 22 gennaio 2012
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