6.3.13

Apologie della tortura (di Eduardo Galeano)

Una decina di giorni fa, prima a Perugia poi a Roma, è iniziata la raccolta di firme su una proposta di legge di iniziativa popolare che introduce il reato di tortura. In linea di massima non mi pare opportuno moltiplicare le “fattispecie” di reato: prevedere un reato specifico per ogni comportamento sanzionabile dalla giustizia rischia di rendere ancora più gonfio il libro dei codici e più intricato il sistema giudiziario. Non credo che, tuttavia, questo discorso valga per la tortura, atto che per la sua gravità non può essere assimilato ai “maltrattamenti” o alle “lesioni” più o meno aggravate, che del resto non sempre sono riscontrabili, specie in presenza di torturatori raffinati, capaci di non lasciare tracce.
Anche per questo riprendo dal “manifesto” queste riflessioni di Edoardo Galeano, utilissime a denunciare più ancora che l’orrenda pratica il potere che spesso se ne serve. Mi pare che l’argomentare dello scrittore latinoamericano comprovi l’inefficacia della tortura a fini di indagine e ne sveli il senso più profondo, di umiliazione e degradazione delle vittime. L’articolo risale al tempo in cui dall’Iraq, non ancora interamente sottomesso, giunse la notizia che l’esercito di occupazione Usa ampiamente utilizzava la tortura e giunsero le foto dal campo di Abu Ghraib che lo comprovavano. Queste notizie si aggiungevano ad analoghe rivelazioni riguardanti l’Afghanistan e il campo di Guantanamo, la cui “extraterritorialità” fu usata dall’amministrazione Bush per permettere l’uso della tortura vietata negli Stati Uniti.  (S.L.L.)
Guantanamo. Preparazione dei prigionieri alla tortura

Non vale niente, o vale ben poco, la confessione del torturato. Dai tempi della Santa Inquisizione si sa che non sono credibili, o sono ben poco credibili, le informazioni e le confessioni strappate sotto tortura, per la semplice ragione che il dolore fa di chiunque un grande romanziere. Al contrario, il sistema del potere confessa la sua vera identità attraverso le torture che infligge. Nelle camere del tormento, coloro che comandano si tolgono la maschera.
Così accade in Iraq, ad esempio. Per impadronirsi dell'Iraq, nonostante gli iracheni e contro gli iracheni, le truppe di occupazione agiscono con realismo: predicano la democrazia e la libertà e praticano la tortura e il crimine. Chi vuole il fine, vuole i mezzi, o forse qualcuno può credere che esista un'altra maniera di rubare un paese?
Il resto è puro teatro: le cerimonie, le dichiarazioni, i discorsi, le promesse e il trasferimento della sovranità, che passa dagli Stati Uniti agli Stati Uniti.
Il fatto è che il potere non dice quello che dice. Per esempio: quando dice «terrorismo in Iraq», in molti casi dovrebbe dire: «resistenza nazionale contro l'occupazione straniera».

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Quando furono pubblicate le foto e scoppiò lo scandalo, le alte sfere del potere politico e militare cantarono in coro i salmi della loro auto-assoluzione:
- Sono casi isolati.
- Sono casi patologici.
- Sono delle mele marce.
- Sono dei perversi che disonorano l'uniforme.
Come sempre, l'assassino ha dato la colpa al coltello. Ma quei soldati o poliziotti che fanno impazzire il prigioniero sparandogli scariche di elettricità, o immergendogli la testa nella merda, o spaccandogli il culo, non sono altro che strumenti: funzionari che si guadagnano lo stipendio facendo il loro lavoro in orario d'ufficio. Alcuni lavorano di malavoglia e altri ci mettono zelo, come quelle signorine entusiaste che si sono fatte fotografare mentre umiliavano i torturati iracheni e li mostravano come trofei di caccia. Ma tutti, apatici ed entusiasti, sono burocrati del dolore che agiscono al servizio di una gigantesca macchina che trita carne umana. Pazzi? Perversi? Può darsi, ma l'alibi patologico non assolve il potere imperiale che ha bisogno della tortura per assicurare e ampliare i suoi domini, perché quel potere è molto più pazzo ed è molto più perverso degli strumenti che utilizza. E non c'è nulla di strano nel fatto che un potere atrocemente ingiusto utilizzi metodi atroci per perpetuarsi.

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Non c'è nulla di strano nemmeno nel fatto che quei metodi atroci non vengano chiamati con loro nome.
L'Europa sa che dove comanda suocera non comanda nuora. La dichiarazione dell'Unione europea contro le torture in Iraq non ha menzionato la parola tortura. Quella sgradevole espressione è stata sostituita dalla parola «abusi». Bush e Blair hanno parlato di «errori». I giornalisti della Cnn e di altri mezzi d'informazione non hanno potuto usare la parola proibita.
Anni prima, affinché i prigionieri palestinesi fossero legalmente triturati, la Suprema corte di Israele aveva autorizzato «le pressioni fisiche moderate». I corsi di torture che da molto tempo vengono impartiti agli ufficiali latinoamericani nella Escuela de las Américas si chiamano «tecniche di interrogatorio». Nel mio paese, l'Uruguay, che fu campione del mondo in materia durante gli anni della dittatura militare, le torture si chiamavano, e si chiamano ancora, «sanzioni illegali».
Secondo Amnesty International, la vendita di strumenti di tortura nel mondo è un affare redditizio per diverse imprese private di Stati uniti, Germania, Taiwan, Francia e altri paesi, ma quei prodotti industriali sono «mezzi di autodifesa» o «materiale di controllo della delinquenza».

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Menzionarono invece la parola tortura, a chiare lettere, gli intervistatori che interrogarono la popolazione degli Stati uniti nell'anno 2001, poco dopo il crollo delle torri di New York, e quasi metà della popolazione, il 45 per cento, rispose che la tortura non gli sembrava sbagliata «se applicata ai terroristi che si rifiutano di dire quello che sanno».
Sei anni prima, tuttavia, a nessuno sarebbe venuto in mente di torturare il terrorista Timothy McVeigh quando si rifiutò di dare i nomi dei suoi complici. La bomba che McVeigh mise in Oklahoma uccise 168 persone, comprese molte donne e bambini, ma lui era bianco, non era musulmano ed era stato insignito nella prima guerra del Golfo, dove imparò a fare marmellata di gente.

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Contro il terrorismo vale tutto. Lo ha proclamato il presidente Bush, in mille occasioni, e lo ha ripetuto quell'eco di Blair. Entrambi continuano a brindare per il successo delle loro crociate. Continuano a dire: «Il mondo adesso è un luogo molto più sicuro», mentre il mondo esplode e ogni giorno la violenza genera ancora altra violenza e ancora e ancora.

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Guantanamo è il simbolo del mondo che ci attende. Seicento sospetti, alcuni minorenni, languono in quel campo di concentramento. Non hanno nessun diritto. Nessuna legge li protegge. Non hanno avvocati, né processi, né condanne. Nessuno sa niente di loro, loro non sanno niente di nessuno. Sopravvivono in una base navale che gli Stati uniti usurparono a Cuba. Si presume che siano terroristi. Che lo siano o no è un dettaglio privo d'importanza.
È là che il generale Ricardo Sánchez ha sperimentato trentadue metodi di tortura, chiamati «tattiche di pressione e intimidazione», che poi ha impiantato nelle prigioni dell'Iraq.

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Dal crollo delle torri gemelle, la tortura è diventata oggetto di numerosi elogi. È stato messo in atto un bombardamento di opinioni giuridiche e giornalistiche apertamente o velatamente favorevoli a questo metodo istituzionale di violenza, sebbene mai, o quasi mai, lo chiamino col suo nome. Queste apologie dell'infamia, che provengono dal potere, o da fonti vicine, sostengono che la tortura è legittima per difendere la popolazione inerme di fronte ai pericoli che la minacciano, perché ci sono mezzi di lotta di dubbia moralità che risultano inevitabili contro gli assassini senza scrupoli che praticano il terrorismo e lo promuovono e che non dicono mai la verità.
Ma se fosse così, chi bisognerebbe torturare? Chi sono gli uomini che hanno mentito di più in questo XXI secolo? Chi sono coloro che, senza scrupoli, hanno ucciso più innocenti nelle loro guerre terroriste in Afganistan e in Iraq? Chi sono coloro che hanno contribuito di più alla moltiplicazione del terrorismo nel mondo?

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Adesso abbondano i sorpresi e gli indignati, ma la tortura non è stata utilizzata per errore o per caso contro la popolazione irachena. Le truppe di occupazione l'hanno impiegata come sempre, per ordini superiori, sapendo quello che facevano e perché lo facevano.
Perché? Non c'è alcuna prova che la tortura sia mai servita per evitare un solo attentato terroristico. Nel caso dell'Iraq, non è servita neppure per catturare qualcuno degli importanti fuggiaschi. Il più importante, Saddam Hussein, non è caduto grazie alla tortura, bensì grazie al denaro che ha comprato una spia.
La tortura strappa informazioni di scarsa utilità e confessioni di improbabile veracità, e tuttavia è efficace. Per questo è stata impiegata e continua ad essere impiegata: ciò che è efficace è buono, secondo i valori che reggono il mondo. La tortura è efficace per castigare eresie e umiliare dignità e soprattutto è efficace per diffondere la paura. Lo sapevano bene i monaci della Santa Inquisizione e lo sanno bene i capi guerrieri delle avventure imperialiste del nostro tempo: il potere non impiega la tortura per proteggere la popolazione, bensì per terrorizzarla.
Sarà davvero così efficace come il potere crede che sia?

Trad. Marcella Trambaioli
il manifesto, 3 luglio 2004 

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