10.3.13

Croce antifascista. I taccuini di guerra (di Enzo Di Mauro)

Recensione ai taccuini del tempo di guerra di Benedetto Croce questo bell’articolo ce ne mostra l’intransigenza nata dall’esperienza. Com’è noto, in un “contributo alla critica di sé stesso” Croce, con l’onestà intellettuale dei grandi, riconobbe a sé stesso grandi responsabilità nella sottovalutazione di un fenomeno, il fascismo, che egli aveva ritenuto effimero ed, entro certi limiti, perfino benefico. (S.L.L.)
Benedetto Croce
«Per invigilare me stesso»: precisamente qui, nell'icasticità di questa formula - che rimane sempre bene in vista, benché silenziosa e in disparte al pari di un boia, alla radice del lungo, imperterrito autoregistrarsi e spiarsi dei taccuini e che in seguito Gennaro Sasso assunse a titolo di un bel libro edito dal Mulino nel 1989 si misura tutta la distanza (e non solo, com'è ovvio, temporale) tra Benedetto Croce e i liberali alla Pera, tra lo storico già dolente al capezzale della vecchia e proba Italia e gli storici revisionisti che egli, in data 2 dicembre 1943 - «trasferendomi con l'immaginazione», così annota, «in un tempo più calmo e di ravvivate speranze» - già smascherò e
avvertì, conoscendo i «cervelli» dei «colleghi in istoriografia».
Costoro «per sicuro», scrive riferendosi al capo del fascismo a quel punto risceso in campo alla testa della sanguinaria repubblichetta di Salò sotto forma «di fantoccio di pezza, che ha perduto la segatura della quale era imbottito, e pende e si ripiega floscio», «si metteranno scoprire in quell'uomo tratti generosi e geniali, e addirittura imprenderanno di lui la difesa, la Rettung, la riabilitazione, come la chiamano, e forse lo esalteranno. Perciò mentalmente m'indirizzo a loro, quasi parlo con loro, colà, in quel futuro mondo che sarà il loro, per avvertirli che lascino stare, che resistano in questo caso alla seduzione delle tesi paradossali e ingegnose e 'brillanti', perché l'uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante, di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l'arrogante». Che è una delle tante prediche inutili e profetiche visioni che attraversano i Taccuini di guerra (a cura di Cinzia Cassani e con un saggio di Piero Craveri, Adelphi), segmento cruciale e avventuroso (si va dal 25 luglio 1943 a tutto il dicembre del 1945) dei Taccuini di lavoro, redatti dal filosofo a partire dal 27 maggio 1906 per concludersi il 28 settembre 1949 (pubblicati per intero, e per le cure della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce di Napoli, nel 1987), mentre la parte «riveduta» (25 luglio 1943-8 giugno 1944) venne stampata nel 1948 da Laterza col titolo Quando l'Italia era divisa in due.
La cronaca minutissima di quelle tempestose giornate e di quell'aspro passaggio d'epoca tra appuntamenti politici, riunioni di partito, visite inattese o non richieste, importune sollecitazioni, interviste a giornalisti soprattutto americani e inglesi, viaggi a Brindisi, a Salerno e a Roma lungo strade dissestate e pericolose, fulminei spostamenti da Sorrento a Napoli, correzioni di bozze, letture storiche e letterarie, riscritture o aggiornamenti di vecchi saggi da approntare per la ristampa, nuovi progetti, irruzioni di inediti soggetti politici (dal galantuomo, benché astratto e privo di attitudine al governo della cosa pubblica, Ferruccio Parri, al «maligno», astuto e realista Palmiro Togliatti e ai cattolici, i quali, oltre al resto, pretendono la Pubblica Istruzione, ministero che sarebbe sbagliato, afferma il diarista, lasciare in mani «clericali», laddove la laicità della formazione scolastica andrebbe a farsi benedire -, tutto ciò, dunque -, si intreccia con la riflessione circa i destini dell'Italia per intero da ricostruire e sui pericoli della perdita della memoria nel mentre si gettano le basi della rinascita morale e civile di un tessuto sociale e istituzionale che vent'anni di fascismo aveva distrutto. Chiare fin da subito, per Croce, sono intanto tre cose: le gravi colpe e il comportamento indegno e «deplorevole» di casa Savoia; la necessità dell'epurazione, condotta secondo criteri di equità e di giustizia; l'unità d'azione e di intenti delle forze democratiche e antifasciste che di lì a poco avrebbero dovuto scrivere e tutelare la Costituzione. In tal senso, la consueta diffidenza di Croce (prima di tutto nei confronti della propria opera e dell'agire suo, come ammette tranquillamente, egli che nel 1915 aveva dato alle stampe il Contributo alla critica di me stesso, ma ora senza tregua verso il Partito d'Azione, i comunisti, i democristiani, gli alleati inglesi e così via) mai si frappose a volere ostacolare l'imperativo (certo moderato) di «salvare il salvabile» che non era, almeno in quel trapasso, un volare basso, un accontentarsi di poco.
Croce sentiva, a un passo da lui, l'odore del sangue. Il rombo degli aerei che bombardavano Napoli, la polvere delle macerie, i morti ammazzati per le strade lo angosciavano. Angoscia: ecco la parola che trapassa più spesso le pagine dei taccuini. «Atroce» e «implacabile» angoscia, «umor nero», «taedium vitae», irritabilità, «depressione nervosa e fastidio di tutto», «grave» e «disperata» tristezza (e pensare che il saggio, stilato nel 1945, sull'«avversione alla letteratura contemporanea» si nutriva, tra l'altro, del rifiuto e dell'incomprensione di tale sentimento: meraviglioso, vendicativo contrappasso!). Angoscia per i morti, e pianto per la distruzione della chiesa di Santa Chiara, di Monteoliveto, del museo degli Angioini e per quello degli Aragonesi, dei marmi di Rosellino, di Giovanni da Nola, di Santacroce, insomma del paesaggio che lo aveva formato fin da bambino. Di questa devastazione egli ritiene responsabili lo «sciagurato» Mussolini e il debole e complice Sciaboletta, di cui, quando si reca a Ravello per incontrarlo, offre un ritratto crudele, addirittura efferato (lo vede, come in funereo sogno, «sbiancato nel colore, molle nelle linee del volto e reso quasi più piccolo nella sua piccola persona, con occhi fissi, e gli pareva di averlo già visto, e pur di non averlo visto, in queste sembianze, finché si è ricordato che così era diventata sua madre, la regina Margherita, nell'espressione, nel gesto e nell'atteggiamento»).
A conteggiare la cesura incolmabile di cui si diceva, Croce non si sogna nemmeno di versare lacrime sul sangue dei vinti, a differenza di alcuni recenti parvenu della compassione a scoppio ritardato. Non piange sui corpi giustiziati di Mussolini e dei suoi gerarchi, la «vile e cattiva gente che meritava di essere mandata a morte». E neppure piange (come ora si suole a mitraglia sui quotidiani «indipendenti») sulla fine certo tragica di Giovanni Gentile. Croce, qui, con freddezza e lucidità, torna a considerare l'attualismo del vecchio amico come una forma di filosofia gravida di conseguenze rispetto alla vita morale, mediante il suo «abbassamento». L'«ottusità morale» di quel filosofare diventò più chiara quando Gentile aderì al fascismo, ossia quando «perse ogni dignità di pensatore e di uomo». Gentile, legandosi a quel destino, finì per adeguarsi, indifferente e sorridente, «alla più disonesta vita politica e morale che abbia bruttato l'Italia e il mondo». Ma, avverte ancora Croce, non è poi vero che la «morte miseranda di un uomo» serva a domare o a sradicare i suoi errori. Prima o poi ci sarà qualche «ingenuo» o «qualche spirito conformato come il suo» pronto a raccattarne la bandiera.

“alias il manifesto”, 20 novembre 2004

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