25.3.13

Esenin.Un poeta nella rivoluzione (Fausto Malcovati)

Dalla recensione di una antologia Bur curata da Eridano Bazzarelli, un utile profilo del poeta russo Esenin. La fonte è “alias”, il magazine del “manifesto”. Nel ritaglio non trovo indicazioni sulla data, ma l’anno è quasi certamente il 2000, quello di edizione del volume recensito (S.L.L.)
Sergèj Esenin nel 1921
Vita brevissima: Esenin muore a trent'anni. Suicidio forse (così vuole la versione sovietica ufficiale, prudente e spicciativa), o forse omicidio (così dimostrano le ultime ricerche e così crede anche Bazzarelli). Nasce nel 1895 in uno sperduto villaggio del governatorato di Rjazan', a sud di Mosca, figlio di contadini. Cresce in campagna coi nonni materni, che gli raccontano fiabe, lo portano in pellegrinaggio per monasteri e gli leggono la Storia Sacra. Frequenta le scuole rurali, ottiene nel 1912 un diploma di maestro elementare e a diciassette anni, con i primi versi in tasca, parte per Mosca a cercar lavoro. È bellissimo, biondo, ama le donne e ne è riamato, si sposa l'anno dopo con la prima di una lunga serie di mogli (tutte belle e molto innamorate, compresa la più esotica di tutte, la danzatrice Isadora Duncan, di parecchi anni più anziana) e comincia a pubblicare.
Ha subito un gran successo, nel 15 si trasferisce a Pietroburgo, viene accolto nei più famosi salotti dei simbolisti, vezzeggiato da signore intellettuali come Zinaida Gippius e apprezzato da noti poeti come Gorodeckij e Blok. Ma Pietroburgo non lo cambia (come non lo cambiera l'America dove lo trascinerà la Duncan), lui resta quello che è: un bel contadino di Rjazan' con uno straordinario talento poetico. Nel '16 esce la sua prima raccolta, nel '17 aderisce alla rivoluzione, prima è vicino ai social-rivoluzionari, poi ai bolscevichi. Dal '17 al '22 attraversa un periodo di particolare felicità creativa: pubblica molto, i suoi versi e i suoi poemi acquistano subito una popolarità incredibile. Da contadino, spera in una rinascita della campagna, ma ben presto si rende conto che la sua è una terribile illusione: nelle campagne si sta peggio di prima, la rivoluzione da lui cantata - una rivoluzione di gioia, d'amore, di rigenerazione - non esiste.
«Ho cessato di capire di che rivoluzione abbia fatto parte - scrive a un amico nel '22 - Né quella di febbraio, né quella di ottobre. È chiaro che in noi si nasconde un non so quale novembre». Un critico formalista a lui contemporaneo, Tynjanov, parla della sua poesia come di poesia dell'intervallo: tra due epoche, tra due modi di scrivere versi, forse tra due modi di vivere. Ma il nuovo modo non è ancora arrivato, o almeno non per lui. Esenin capisce che la rivoluzione è stata la vittoria dell'operaio, non del contadino: la sua Rus', la terra dove crescono «le betulle dai seni meravigliosi e gli ontani dal rauco suono», è destinata a scomparire per far posto ai kolchoz. Qualche cosa di analogo era avvenuto tre anni prima nell'universo poetico di Aleksandr Blok, l'autore dei Dodici: lo spirito della musica, che gli sembrava risuscitato dalla rivoluzione, si era affievolito, si era spento, e il poeta non era sopravvissuto. «Non sono un uomo nuovo! / Perché celarlo? / Con una gamba sono rimasto nel passato. / Così, cercando di raggiungere la schiera d'acciaio, / Con l'altra gamba scivolo e cado». Sì, per Esenin la disperazione dilaga, inaridisce, spegne il canto; torna al villaggio natio, dove nessuno più lo riconosce tranne il cagnolino; e per lui, che è andato a vivere nelle città, tenendosi sempre nel cuore «la izba, l'odore di pece del collare del cavallo, / l'antico angolo delle icone, / la mite luce della lampada», è la fine. Il puledro della steppa, come canta nel poema Sorokoust, non è riuscito nella sua corsa folle a superare la locomotiva della tecnica, della rivoluzione, è stato definitivamente sconfitto. Il poeta non canta più «Il comunismo / è la bandiera di tutte le libertà» ma «La mia poesia qui non è più necessaria. / E, scusate, neppur io sono più necessario». Trockij, commentando la sua morte, scrisse: «Esenin non era un rivoluzionario, era il più intimo dei lirici: la nostra epoca invece non è lirica. (...) Per questo la sua breve vita si è spezzata con una catastrofe».
Sulla sua morte sono affiorati di recente inquietanti testimonianze che lasciano molti dubbi sul tanto celebrato suicidio: non sembrava più depresso del solito, si era da poco risposato, stava preparando un'edizione in più volumi dei suoi versi, aspettava le prime bozze... Ma certo intorno a lui negli ultimi mesi si era creata un'atmosfera pesante di sospetti, provocazioni. Era diventato un personaggio irritante, con la sua utopia contadina, i suoi epicedi sulla Rus' distrutta…

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