25.3.13

Il "tempo" nel romanzo contemporaneo (Dashiell Hammett)

Dashiell Hammett, l’inventore di Sam Spade considerato il caposcuola del poliziesco hard-boiled, pronunciò questo intervento sul “tempo nel romanzo contemporaneo” nel giugno del 1939 a un convegno dell’Associazione Internazionale degli scrittori per la Difesa della Cultura che raggruppava poeti e narratori schierati contro il nazi-fascismo. Alla presidenza c’erano Thomas Mann, Louis Aragon, Ernest Hemingway. Il testo, che era stato pubblicato l’anno dopo su un paio di riviste americane di nicchia presto divenute introvabili, fu ritrovato da Goffredo Fofi in quegli anni Ottanta del Novecento che lo tradusse in italiano e lo inserì nel trimestrale che al tempo dirigeva, “Linea d’ombra”. L’aspetto più significativo è la difesa delle peculiarità espressive del romanzo rispetto alla egemonia del linguaggio cinematografico. (S.L.L.)
Dasniell Hammett
Il bisogno di "tempo" nel romanzo contemporaneo è profondamente vero, ma si sono dette e scritte in proposito molte sciocchezze.
Una delle ragioni più spesso invocate è che siccome la vita ha un ritmo molto più rapido di una volta, lo scrittore deve cercare di adattarvisi. Sotto certi aspetti noi viviamo più velocemente, eppure avremmo bisogno, per morire di fame, di altrettanto tempo che i nostri antenati; Shakespeare riteneva l'amore altrettanto effimero di Edna Saint-Vincent Milley oggi; una giornata in prigione non è affatto più corta di quanto fosse una volta, e un soldato greco che scannava i persiani con il pugnale, alle Termopili, doveva muoversi altrettanto velocemente di un cinese col fucile mitragliatore, oggi a Tacheng.
C'è l'automobile, certo, ma non riesco a trovare nessun collegamento tra la sua esistenza e i problemi dello scrittore moderno.
La questione non è di sapere quanti avvenimenti sia possibile provocare in un breve lasso di tempo. La pausa, per esempio, non è certamente contraria al "tempo", e tuttavia, finché essa dura, non succede niente.
Molto è stato detto, e resta ancora da dire, sull'influenza reale e probabile del cinema sulla letteratura contemporanea.
Si è detto innanzitutto che il cinema ha abituato migliaia di eventuali lettori a esigere per il loro divertimento un movimento rapido, la varietà, un costante cambiamento di ritmo e che, di conseguenza, il romanziere che spera di vendere i suoi libri ad alcune di queste migliaia di persone dovrebbe studiare a fondo la tecnica cinematografica.
Non discuto il primo argomento, ma il secondo è stato così esagerato che ha fatto, temo, molti danni.
Il romanzo e il film sono due mezzi d'espressione differenti; inutile negarlo col pretesto che la M.G.M. ha più clienti della Random House. Per la verità, le Poste e Telegrafi ne hanno ancora di più, e sono più vicini al romanzo. Un romanzo è un insieme di parole, e dovendo mettervi un po' di "tempo", è nelle parole che bisognerà introdurlo. Un film è una successione di immagini parlanti e per quanto riguarda il "tempo" il problema della parola non è stato ancora risolto. L'azione deve venir rallentata, le macchine da presa trattenute perché gli attori abbiano il tempo di dire le loro battute. Andando e venendo da una scena all'altra quel che principalmente si ottiene è un ritmo visivo. In un libro, questo procedimento dà nella maggior parte dei casi l'impressione di un gratuito saltellio e sfocia nell'oscurità e nella fiacchezza del disegno.
Sarebbe stupido sostenere che il romanziere non ha nulla da imparare dal cinema. Ma potrebbe avere da imparare qualcosa anche dal teatro, dalla radio, dalla musica e dalla pittura.
La mia intenzione è soltanto quella di dimostrare che non credo alla necessità di uno studio approfondito del cinema nella formazione del romanziere contemporaneo; a meno che, evidentemente, non miri al mercato hollywoodiano. Non penso che scrivendo una sceneggiatura e chiamandola romanzo, ci si metta sulla strada buona.
Quando un romanziere pensa alla sua opera secondo un'estetica, credo che per lui dovrebbe esistere soltanto l'estetica del romanzo. Mi rendo conto che, prima della fine di questa settimana, qualcuno potrebbe confutarmi pubblicando un eccellente romanzo, del tutto contemporaneo, sviluppato al massimo quanto al suo "tempo" e interamente influenzato dal cinema. Tutto quello che potrei dire sarebbe: "Tante felicitazioni, fratello, ma io continuo a pensare che non hai scelto la strada più giusta".
Il lavoro del romanziere contemporaneo è quello di prendere i suoi brandelli di vita e sistemarli sulla carta. Più il loro passaggio dalla strada alla carta è diretto, e più sembrano veri.
Il romanzo contemporaneo ha bisogno di "tempo", non per comprimere in ogni pagina il massimo possibile di cose, ma per dare l'impressione del veramente contemporaneo, di cose che accadono "qui e ora", per imporre al lettore la sensazione dell'"immediato".
Periodi equilibrati, scene cesellate, solidi capitoli che procedono deliberatamente vanno bene per lo scrittore che dice al suo lettore: "Ascolta, queste cose sono successe, ora te le racconto". Non vanno invece per colui che dice: "Guarda, ora ti mostro ciò che succede". Questo tipo di scrittore deve sapere come gli avvenimenti si producono, non come più tardi ci se ne ricorda, ed è in questo modo che deve narrarli.
Questo è, secondo me, il "tempo".

In Linea d’Ombra N.3, ottobre 1983 (traduzione di Goffredo Fofi)

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