9.3.13

Essere “compagni” negli anni 50. I bambini di San Severo (Giovanni Rinaldi)

Una rete di solidarietà contro la repressione poliziesca unifica l'Italia.
70 bambini pugliesi, figli dei braccianti arrestati furono «adottati» da famiglie emiliane e marchigiane, comuniste e socialiste.

1950. Donne arrestate a San Severo di Puglia nelle lotte bracciantili

Italia, 1950. L'eco degli eccidi di lavoratori a Melissa, Montescaglioso, Modena e, per la Puglia, San Ferdinando, Torremaggiore, rimbalza nelle città e nelle campagne scatenando la rabbia di chi vive già afflitto da problemi esistenziali e dalla dura realtà quotidiana. Il 23 marzo 1950 anche San Severo, in Puglia, vive un capitolo di questo dramma nazionale: tra «insurrezione» e «risposta alla provocazione», i braccianti di San Severo si lanciano contro le forze di polizia, urlando «Pane e lavoro!». Al termine di un giorno convulso e drammatico, con numerosi feriti e una vittima sul selciato - Michele Di Nunzio, 33 anni - a sedare la rivolta arriva l'esercito. Carri armati occupano le vie principali della città. Nei giorni successivi vengono arrestate 180 persone, col pesantissimo capo d'accusa: insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Gli arrestati verranno sottoposti a un lungo e combattuto processo che vedrà protagonista Lelio Basso, difensore degli imputati. Dopo due lunghi anni, il 5 aprile 1952, gli imputati vengono assolti e rilasciati. I loro figli, circa 70 bambini, nel frattempo sono stati ospitati, «adottati» da famiglie di lavoratori del centro-nord, in segno di solidarietà sociale e politica. Questo eccezionale movimento collettivo di accoglienza dei figli degli incarcerati di San Severo è solo un tassello del più vasto movimento nazionale che già dal ‘46 operava in Italia, organizzato dai partiti della sinistra e da organizzazioni femminili come l'Udi. Le famiglie emiliane, romagnole, marchigiane e toscane, della rete dei comitati di Solidarietà Democratica accolsero come figli adottivi i più poveri bambini del sud, ma anche quelli delle zone martoriate dai bombardamenti, come per Cassino, o dalle alluvioni, come per il Polesine. Una grande esperienza di massa che portò, nei «treni della felicità», circa 70.000 bambini a vivere l'adozione familiare dal 1946 al 1952. L'Emilia e la Romagna, al centro di questa grande campagna di solidarietà, accolsero i figli dei braccianti pugliesi; contadini e operai incontrarono e aiutarono i «fratelli» del sud più misero e sfruttato. L'incontro tra queste due Italie e il confronto tra le due culture, unite da ideali e solidarietà, pur nelle differenti condizioni economiche, tese a una seconda riunificazione nazionale, dopo la tragica esperienza fascista.
I bambini di San Severo di Puglia
La mia prima «briosce»
Scioccante fu la sorpresa dei bambini meridionali rispetto ad agi e comodità sconosciuti. Queste le testimonianze di alcuni di quei bambini, alla scoperta di un «nuovo mondo».
Dante Verrone: «'Sti compagni e ‘ste compagne di Ravenna ci ospitarono anche con grossi sacrifici - perché pure loro non è che navigavano nell'oro - però la mattina per la prima volta ho incominciato a vedere ‘na cosa che rassomigliava a ‘na briosce o un caffè o un latte che non avevo mai visto, non sapevo neanche il sapore di ‘sta briosce, che cos'era. Mangiare a mezzogiorno e mangiare la sera per noi era ‘na cosa strana in quanto non avevamo mai visto cose del genere, noi queste cose l'avevamo soltanto (...) qualche volta al cinema. Perché a San Severo si mangiava sì e no 'na volta al giorno, quando c'era il pane, pane e pomodoro... la pasta asciutta la domenica, se si era lavorato durante la settimana. Questa era la vita del bracciante, dei cafoni... E il dramma è stato il ritorno, purtroppo, perché noi tornammo a casa non dico pretendendo le cose che avevamo a Ravenna, ad Ancona, in altri posti, ma dicevamo "Ma là si mangia tre volte al giorno...". Al che qualche mamma diceva: "Sti ragazzi ce li hanno viziati"».
Americo Marino: «Mi ricordo il primo gelato che ho mangiato ad Ancona. E chi lo aveva mai assaggiato un gelato! Appena siamo arrivati, dopo il bagno, la grande dormita, abbiamo preso il gelato. C'era la panna e mi hanno chiesto: "Ti piace il gelato?" e io rispondo "Assomiglia alla ricotta!". Perché io mangiavo la ricotta a San Severo! Mia madre faceva il pane, delle grosse pagnotte che duravano una settimana, otto giorni. All'inizio era morbido, dopo, man mano che passavano i giorni questo pane s'induriva, diventava duro duro. Dopo mia madre lo spezzava, lo metteva nel piatto e ci faceva il brodo di zucca, il brodo di cicoria... e sotto metteva il pane a mo' di pancotto. La cena nostra era quella. Alla domenica c'era qualcosina di meglio. Mi ricordo che quando faceva gli involtini era una festa, le orecchiette... era una festa quando c'erano queste cose».
Severino Cannelonga: «Ad Ancona, per la prima volta nella mia vita, non solo mangiavo quasi tutti i giorni carne, ma anche la sera cenavo caldo. I Franchini avevano due figli, di cui un maschio che era quasi mio coetaneo; non c'era volta che acquistavano indumenti per loro che non li acquistassero anche per me. Conobbi per la prima volta le vacanze al mare».

Il meridione sottomesso
Dall'altra parte, nelle Marche, in Romagna, c'era la fatica dell'accoglienza, la scoperta di un popolo più sfruttato del proprio, ma anche una grande partecipazione delle comunità cittadine.
Derna Scandali, partigiana di Ancona accolse Americo Marino di San Severo: «Tutto il meridione era proprio sottomesso. Bisogna anche vedere da dove sono partiti... la storia del meridione, perché se qui c'era la miseria, laggiù era molto, molto peggio, perché poi c'era il padronato contadino, laggiù contava la terra, di fabbriche ce n'erano poche, pochissime. Il grande bracciantato c'era, neanche la mezzadria come avevamo noi. C'erano le masserie, erano chiamate le masserie, che avevano grosse estensioni di terra. Alla mattina partivano dal paese e andavano a lavorare la terra». Irma Siroli, operaia di Lugo di Romagna, organizzatrice Udi: «Allora c'era questo spirito grande di solidarietà, questa voglia di venire incontro alle persone che vivevano in maniera più disagiata di noi. E organizzarono questo fatto, ospitare i bambini. Mi ricordo la sera che i bambini sono arrivati. Dovevano arrivare abbastanza prestino e, nella sede giù in piazza, c'eravamo noi comunisti, il Partito socialista e il Partito d'Azione. Avevamo in comune una sala grande e allora lì avevamo preparato qualcosa da mangiare, del latte, delle bibite, dei panini, dei biscotti, così. Ma ci fu un ritardo enorme, questi bambini arrivarono verso la mezzanotte e quindi erano distrutti, nessuno mangiò, poverini, si addormentarono».
Ida Cavallini, sindacalista a Lugo di Romagna e organizzatrice Udi: «Un anno io voglio fare l'albero di Natale e cerchiamo da tutti i negozianti i biscotti, le caramelle, cerchiamo di tutto: "Vogliamo fare l'albero di Natale ai bambini". Allora alcuni vanno in pineta a prendere un abete e lo piantiamo in mezzo al Pavaglione. Dragoni, il negozio di tessuti, ci dà la luce e abbiamo illuminato il nostro albero. Poi raduniamo tanti, ma tanti di quei bambini [per distribuire i doni offerti dai negozi], che la Camera del lavoro io avevo paura che venisse giù. E poi davamo tutto quello che avevamo raccolto: ‘sti bambini sembravano matti. Dopo, il girotondo intorno all'albero di Natale. Si organizzavano delle cose per i bambini, si organizzavano delle commedie, si faceva un balletto. Però queste iniziative per i bambini cosa c'era in fondo? Voler dare cultura, volere aiutare i bambini a essere come quelli che avevano tanti quattrini».

I «cafoni» e la «civiltà»
Il contatto tra questi due mondi, sociali e culturali, le differenze linguistiche e alimentari, creano traumi psicologici, sorpresa, cambiamento. C'è chi scopre il valore della «civiltà», la possibilità di una vita diversa; chi sceglie di non tornare più indietro, di non riprendere la vita d'inferno dei braccianti del Tavoliere. E c'è anche chi da questa esperienza trae motivo per un impegno a cambiare le condizioni di partenza, a creare le opportunità per «restare» e non, come sempre, per «partire».
Dante Verrone: «Questa è la solidarietà che abbiamo appreso, ma abbiamo appreso anche un mondo diverso e abbiamo visto come si vive... per la prima volta una civiltà diversa da quella che era la vita dei cafoni di San Severo, la vita dei braccianti di San Severo». Dante è diventato sindacalista.
Americo Marino: «Per me invece è stata una tragedia. Non mi piaceva tornare giù, mi piaceva Ancona, mi piaceva il mondo nuovo. Una sera mi ricordo, ero stato riportato giù: insomma in un ritorno giù in paese, in stazione ho fatto il diavolerio perché non volevo tornare giù. Ho fatto il matto». Americo è rimasto ad Ancona e fa il barbiere.
Severino Cannelonga: «Tutte queste cose, il clima che mi attorniava, impressero una profonda svolta nella mia vita. Tante volte ho pensato: cosa avrei fatto, come mi sarei ridotto, quale sarebbe stato il mio destino se non ci fosse stata questa esperienza, questo aiuto?». Severino è diventato deputato del Pci.
Un treno di solidarietà dell'UDI (Unione Donne Italiane)
Fare politica
L'Italia che riemergeva dal ventennio fascista, dalle macerie provocate dai bombardamenti, dalla povertà estrema delle classi contadine e bracciantili, era un'Italia che provava a essere una, al di là delle differenze tra nord e sud. Un'Italia popolare, che spesso si sostituiva alle grandi istituzioni nell'organizzare dal basso nuove forme di società solidale e di gestione collettiva della cosa pubblica. Era un'Italia popolare, già e ancora divisa nelle ideologie, ma unita in un'idea del fare politica come modo di essere e di costruire insieme, per il bene comune. Proprio ripensando a quei momenti, Irma Siroli chiude così la sua testimonianza: «Ma erano gli anni subito dopo la guerra, avevamo uno spirito molto diverso da quello di oggi... [Quello che facevamo] era politica, era pulita, e lo facevamo col cuore, quindi era anche un impegno sofferto proprio, sofferto. Ci mettevamo l'anima e lo facevamo proprio perché sentivamo... credevamo anche di potere cambiare la società: grande illusione! E quindi gliela mettevamo proprio tutta, insomma, pensavamo che le cose sarebbero cambiate e che ci sarebbe stata una giustizia, un vivere diverso, ecco. Ci volevamo bene allora, diciamo così. "Arriva un compagno. Quello è un compagno", oh, bastava, quello era già sufficiente. Ma non era sufficiente, non doveva essere sufficiente. Però era così allora: gli aprivi la porta, la casa... Noi ci consideravamo... ci consideravamo migliori, di loro [degli avversari politici]. Chissà poi se lo eravamo; forse in quel momento, in quel periodo lì sì. Almeno una buona parte di noi, una parte di noi lo eravamo... adesso siamo suppergiù...».

il manifesto, 9 gennaio 2005

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