9.3.13

Goldoni. Una vita in maschera (di Ivan Tassi)

In margine al terzo centenario goldoniano e a una nuova biografia del grande commediografo, una riflessione acutissima che non riguarda solo Goldoni, ma l’identità come costruzione e la narrazione di sé come processo di falsificazione (ove da denunciare come “falsa”, cioè ingannevole può essere persino la realtà e, in essa, il particolare che non torna) e di adeguamento a un destino. Da leggere. (S.L.L.)
«Si sarà curiosi, forse, di sapere chi fosse quell'uomo singolare che ha mirato alla riforma del teatro del suo paese, che ha messo in scena e dato alle stampe centocinquanta commedie, in versi o in prosa, di carattere o di intreccio». Quando Carlo Goldoni, ormai ultrasettantenne, scrisse queste parole - a Parigi, nel 1783 - in apertura dei suoi Mémoires, sapeva di avere tra le mani una straordinaria quantità di materiali autobiografici con cui guadagnarsi l'attenzione del pubblico. Non c'era stata prova o rivolgimento della sorte che il volenteroso commediografo non avesse dovuto affrontare per farsi strada e assicurare al proprio lavoro un rispettabile consenso.
La formazione dello scrittore, innanzitutto, non si era certo consumata in un clima disteso. Subito dopo la nascita, a Venezia il 25 febbraio 1707, Goldoni dovette affrontare una serie di spostamenti e andirivieni - tra Rimini, Padova, Chioggia, Modena, Milano - che rallentarono la sua educazione teatrale, e spesso lo condussero a ricercare mestieri alternativi di ripiego, come il medico o l'avvocato.
Era indispensabile, per la famiglia Goldoni, che il figlio conquistasse al più presto la sicurezza di una professione lucrativa e dignitosa, con cui fare fronte alle impellenti esigenze economiche: e in questo senso, il carattere del giovane Carlo - incline al gioco d'azzardo, e a dispendiosi amoretti - finì per complicare non poco il raggiungimento dell'obiettivo.

Polemiche sul gusto
Altrettanto tormentata, d'altra parte, risultò l'esperienza di impresario teatrale e drammaturgo, avviata da Goldoni a Venezia nel 1734, presso il Teatro San Samuele, e proseguita presso altri teatri della città fino al 1762. L'impresa andava ben oltre l'obiettivo di debellare il predominio della Commedia dell'arte allora in voga (che si avvaleva delle maschere e di una sguaiata recitazione a soggetto) per introdurre un nuovo tipo di teatro, basato su un copione rigorosamente prestabilito dall'autore e su un intreccio organico, moraleggiante e non triviale.
L'inarrestabile successo delle originali commedie di Goldoni trascinò con sé una organizzata sequela di polemiche relative al gusto, alle snervanti insubordinazioni degli attori, alle rivalità, ai complotti, alle liti e alle tresche fra capocomici, che a lungo andare convinsero il commediografo ad emigrare a Parigi. Qui, dopo aver collaborato per qualche tempo con la Comédie Italienne, Goldoni si propose come maestro di lingua italiana alla corte di Luigi XV. Ma anche in questa veste la sua posizione non fu immune da rischi e spiacevoli sorprese: abbandonata Versailles nel 1780, Goldoni fu costretto a confrontarsi con un prestigio personale ormai in declino, e a vivere fino alla morte (il 7 febbraio del 1793) esclusivamente grazie agli scarsi proventi del suo teatro.

Tre occasioni per dirci di sé
Tutto sommato, non si potrà dunque dargli torto quando nei Mémoires paragona la propria vita alle appassionanti epopee borghesi dei romanzi di Defoe, Richardson «e simili». Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi come mai il pubblico di oggi abbia lasciato trascorrere il terzo centenario della nascita di Goldoni senza mostrare particolare interesse per le sue opere, né per la sua rocambolesca biografia. Come mai una esistenza tanto ricca di peripezie e colpi di scena non è stata dovutamente ricordata nell'anno appena trascorso, che avrebbe avuto tutto l'agio di celebrarla, e che invece ha dimostrato una diffusa noncuranza? La domanda è tanto più motivata in quanto Goldoni - come ha scritto Marzia Pieri - si è più volte premurato di sottolineare l'importanza della propria storia, dimostrando una «debordante pulsione autobiografica».
Tre furono infatti le occasioni in cui lo scrittore si impegnò a parlarci di sé: intanto nelle svariate Dediche che incoronano le sue pièces e che sono sature di autobiografia; poi, dal 1761 in poi, quando tornò a raccontarsi nelle cosiddette Memorie italiane, ovvero nelle diciassette Prefazioni in lingua italiana che introducono alcuni tomi delle sue Commedie; e infine, quando si decise a gettare un'ultima occhiata alla propria vita nei Mémoires, scritti a Parigi fra il 1783 e il 1786, usufruendo di quel passaporto linguistico - il francese - che garantiva di potere essere letti e compresi «nelle quattro parti del mondo». Se poi la straordinaria ostinazione con cui il commediografo chiamò alla ribalta la sua vita non fosse sufficiente a scuotere la nostra spenta curiosità, resterebbe pur sempre da considerare la sapiente ed efficace tecnica che adoperò per narrarci gli eventi trascorsi. Infatti - diceva già Edward Gibbon - i Mémoires sono forse «la più bella commedia di Goldoni»; o senz'altro assomigliano a una pièce in cui lo scrittore è riuscito a dominare in un coerente intreccio una moltitudine di materiali eterogenei e ribelli. Si percepisce, alle loro spalle, l'intervento demiurgico di uno sceneggiatore che ha saputo innanzitutto trasformare i propri ricordi in un avvincente spettacolo, e che poi, rimpiattato nella cabina di regia della narrazione, è stato in grado di farli sfilare sul palcoscenico dell'autobiografia: i luoghi, grazie alle sue abilità drammaturgiche, sono divenuti grandiosi fondali scenografici con cui affascinare l'occhio dei posteri; e gli eventi - anche i più quotidiani, o i più dolorosi e snervanti - sono stati trasfigurati in scene e dialoghi pervasi dal più brioso, sereno e accattivante ritmo di commedia.
Su tutta la compagine autobiografica sembra essersi alzato il sipario del teatro. A tal punto che i lettori distinguono a fatica quanto potrebbe essere invenzione scenica e quanto è verità autobiografica: non possono che assentire, a loro volta, con le parole pronunciate da Jake nell'As you like it di Shakespeare: «Il mondo intero è un palcoscenico, e tutti, uomini e donne, non sono che attori».
Che sia proprio questa incancellabile tendenza alla finzione ad aver allontanato gli spettatori dalla commedia autobiografica dei Mémoires? Forse il cortocircuito che si sprigiona fra autobiografia e commedia, in un testo che dovrebbe brillare per la sua implacabile e veridica obiettività, ha determinato un crollo rovinoso degli indici di ascolto? O magari lo stereotipo scolastico del «buon Goldoni», e del suo universo euforico e sorridente, è bastato a scoraggiare qualsiasi rilettura?

Dietro alla sua buona stella
Può darsi, e tuttavia le scuse non reggono. A smantellare le finzioni e a rimettere in discussione i cliché interviene ora un libro di Ginette Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata (tomo I, 1707-1744), pubblicato presso Marsilio nell'ambito delle celebrazioni del terzo centenario goldoniano. Il piglio è «anti-accademico», ma l'impianto rigoroso, pronto com'è a spiegarci, attraverso un vaglio capillare delle fonti, quali siano le ragioni che determinarono i molteplici e menzogneri ritocchi della «realtà» escogitati dai Mémoires. Le ragioni sono intrinseche, secondo Ginette Herry, non soltanto alle svariate contraddizioni esistenti fra l'autobiografia e i documenti ufficiali (registri catastali, atti notarili, contratti...), ma anche - e soprattutto - alle discrepanze che intercorrono fra le prime Memorie italiane e i successivi Mémoires, in cui Goldoni, senza troppo curarsi di aggiunte, varianti e omissioni, racconta spesso gli stessi fatti in maniera diversa. Ognuna di queste differenze - sottolinea a più riprese la Herry - obbedisce al progetto sotterraneo di Goldoni, che consiste nel farsi «pigmalione di se stesso», e nel creare una controfigura autobiografica magari falsa, ma comunque in grado di raccontarci una esemplare leggenda: quella di un borghese self made man che, fin dall'infanzia, rintraccia nella propria natura i segni del teatro e decide di sacrificare ogni altro bene (eccetto l'onore) pur di esaudire la «buona stella» della propria vocazione.
Non importa poi se la realizzazione di un simile programma richieda svariati ricorsi alle invenzioni puntualmente smascherate dalla Herry. Goldoni, ad esempio, non esita ad ambientare la propria nascita in casa del nonno paterno Carlo Alessandro (che amava il teatro ed era avvezzo a capitanare «tutti gli attori più bravi», e che tuttavia morì prima del 1707 senza mai conoscere il nipote) solo per giustificare il proprio futuro e radicato «amore per gli spettacoli». Non solo.
A partire da questa «prima finzione» - non a caso assente dalle Memorie italiane - l'autobiografo-regista moltiplica le falsificazioni dei Mémoires, e - come illustra la Herry pagina dopo pagina - si adopera per farle collaborare con le omissioni strategiche: ogni volta che la «realtà» rischia di smentire il «mito personale», Goldoni non esita a sopprimere tutti i dati in contraddizione con l'inesorabile necessità delle sue scelte di vita, e si ingegna a fabbricare tutti i dettagli che, viceversa, possano fornire loro un adeguato lasciapassare. Ma allora, ai nostri occhi, la figura del bonario e imperturbabile regista che si era a suo tempo impegnato ad offrirci una visione limpida della propria carriera si sostituisce di colpo con quella di un restauratore ingannevole e nevroticamente dissociato, che prima di abbandonare le scene ha bisogno di dare l'ultima mano ai colori della propria maschera. Da una parte, non si potrà negare che, anche attraverso questo atteggiamento, Goldoni continua a testimoniarci la sua estrema e irrinunciabile attitudine al teatro, e la propria incapacità di agire senza l'aiuto dei suoi strumenti tecnici. Dall'altra, il procrastinato ricorso alla menzogna torna a spalancare interrogativi sinistri e decisivi: perché mai l'autobiografo ha ceduto il passo a bugie tanto clamorose e localizzabili? Se per rivelare i suoi sotterfugi strutturali basta affiancare ai Mémoires la diversa verità delle Memorie italiane, perché esporre la propria controfigura autobiografica all'ipoteca di una menzogna così plateale?

L'ombra e la tinta
Forse perché la bugia del teatro autobiografico è l'unica trovata che consenta di ottenere un duplice tornaconto. Grazie alla commedia dei Mémoires, Goldoni non si limita infatti a sopprimere ogni dubbio e a raccontare innanzitutto a se stesso, prima che ai suoi ammiratori, la parabola di una giusta e legittima aspirazione. Lasciandoci intendere che le cose potrebbero non essere andate «proprio così», ci induce a immaginare le possibili angosce patite al servizio del demone teatrale, a investigare di nuovo i loro enigmi e a concentrarci, in definitiva, sull'ambigua storia dell'io.
Il Teatro - scriveva del resto Goldoni nel 1750 - mi fa conoscere «come si debba ombreggiare» gli avvenimenti «che nel libro del Mondo si leggono», e «quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati de' spettatori»: come sembra testimoniare anche l'andamento del terzo centenario, senza l'indispensabile catalizzatore di quelle tinte e di quelle ombreggiature, i fan rischierebbero di sbadigliare, o di voltare addirittura le spalle alla performance.

il manifesto 13 gennaio 2008

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