26.3.13

Giacomo Matteotti. Un disubbidiente (Gianpasquale Santomassimo)

Il busto di Giacomo Matteotti alla Camera dei Deputati (G.G.)
Il capitolo della sfortuna di Matteotti è tutto da scrivere, e si possono solo suggerire alcuni spunti. Non si sta parlando della notorietà esteriore: è forse tra i personaggi laici del Novecento italiano il più ricordato nella toponomastica delle città, dei paesi e dei borghi. Ma è, appunto, l'omaggio a un «martire» di cui tutto si ignora tranne il sacrificio stesso. Se a volte si riaccende l'attenzione della grande stampa è solo per presunte nuove e fantasiose «piste» attorno alla vicenda dell'assassinio, di per sé chiarissima nella dinamica, nelle motivazioni e nello svolgimento. La sfortuna editoriale è presto riassunta nella circostanza di Opere pubblicate da un piccolo e coraggioso editore pisano, Nistri Lischi, dopo il rifiuto di tutte le principali case editrici nazionali, comprese quelle più vicine alla memoria e, anche, al vero e proprio culto della tradizione antifascista. Di una tradizione che, però, sembra incontrare qualche problema nel valorizzare un personaggio come Matteotti, al di là della dimensione sacrificale. Non è un caso che l'unico intellettuale della sinistra che si sia cimentato più volte con il personaggio di Matteotti sia stato Sebastiano Timpanaro, a sua volta ignorato e negletto dai grandi editori. Per affinità e vicinanza, si può forse ipotizzare nel caso di Timpanaro, con quel mondo del socialismo umanitario e classista di cui Matteotti fu parte integrante e per diffidenza nei confronti dei «superatori» prossimi al liberalsocialismo o all'attivismo rivoluzionario.
Di certo il personaggio Matteotti non è facile da classificare in base agli schemi ereditati e lungamente acquisiti. Un riformista-rivoluzionario che crede nella costruzione graduale di un socialismo dal basso, fondato sull'autonomia dei lavoratori, e che perciò diffida della imposizione autoritaria dall'alto di un socialismo elargito da una élite ristretta di rivoluzionari.
Su questo si innestano le dispute nominalistiche che accompagnano la sua «fortuna» nel secondo dopoguerra e che contribuiscono a circoscriverne la dimensione a quella esclusiva del martirio. «Socialdemocratico», e perciò avvertito distante dalla tradizione comunista, a sua volta conteso a lungo dalle anime contrapposte del socialismo italiano che ne rivendicano l'eredità, ma entrambe ne forzano e attualizzano la figura senza offrire gli elementi di una effettiva riscoperta del suo spessore politico.
Che è quello dell'unico dirigente del movimento operaio italiano che comprese fin dall'inizio novità e pericolosità del fascismo, senza indulgere nell'abbaglio ricorrente, in quasi tutti i socialisti e comunisti dopo la marcia su Roma, per cui «un governo borghese vale l'altro», e senza lasciarsi scappare sciocchezze su Mussolini che è comunque preferibile a Giolitti, come fanno all'epoca alcuni dei più illustri protagonisti del futuro socialismo liberale.
Ma oggi comprendiamo chiaramente che c'è un altro - e fondamentale - motivo, che lo rese così ostico e distante. La sua opposizione alla guerra, nelle forme del pacifismo più militante e intransigente tra i suoi contemporanei, che lo portava a proporre atti insurrezionali contro la guerra (bloccare i treni che portavano armi al fronte), a contrastare lo stesso «non aderire né sabotare» del suo partito, che gli pareva compromissorio e troppo corrivo nei confronti dello «straccetto patriottico» che veniva agitato dai «militaristi» («Noi non neghiamo l'esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità; un'altra e più alta assai è la nostra aspirazione»). Che lo faceva sentire vicino a Karl Liebknecht, «solo, contro tutto un parlamento che vaneggia nel patriottismo barbarico e sanguinario».
Questa dimensione di Matteotti lo rende un «sovversivo» e «disfattista» inviso a tutto il mondo dei «benpensanti» italiani, ma lo rende anche distante e quasi incomprensibile per il filone maggioritario della cultura antifascista italiana, che si mosse in rapporto di filiazione diretta o mediata con la tradizione dell'interventismo democratico, dei suoi miti, delle sue buone intenzioni e dei suoi nobili propositi, purtroppo naufragati in esiti catastrofici. Una attitudine ricorrente da cui pare non ci si riesca a vaccinare.
E' questa la «colpa» fondamentale di Matteotti, che spiega la sua sfortuna, ed è anche per questo che oggi lo sentiamo molto più vicino.

"il manifesto", 9 giugno 2004

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