6.3.13

L'impero rosso. Dio salvi il Re! (di Felix Greene)

Felix Greene, cugino del celebre romanziere Graham Greene, nacque in Inghilterra all’inizio del secolo scorso, viaggiò molto, visse per diversi anni negli Usa e morì, nel 1985, a Città del Messico. Fu giornalista e saggista, noto soprattutto per i suoi reportage sui paesi comunisti, Cina, Vietnam del Nord, Cuba, per i quali fu accusato di simpatizzare, intendendosela con  “il nemico”. Scrisse e pubblicò nel 1970 un brillante testo divulgativo sulle origini, la realtà e il funzionamento dell’imperialismo americano che intitolò provocatoriamente Il nemico. E’ da lì che ho tratto il brano che segue, nelle prime pagine del libro, dedicato all’impero coloniale britannico. (S.L.L.)

Ancora durante la mia infanzia, nelle scuole inglesi era consuetudine che su una parete di ciascuna aula fosse appesa una grande carta geografica rappresentante il mondo. Il colore dominante era il rosso, perché questo accadeva prima della Rivoluzione russa, e il rosso non era ancora diventato il colore dei comunisti. India, Canada, Australia, Nuova Zelanda, immense zone del continente africano che andavano dal Cairo al Capo di Buona Speranza, Samoa, Birmania, Malacca, Hong Kong, Indie occidentali, Ceylon: tutto colorato di rosso.
E disseminate attraverso ogni oceano centinaia di isole e di piccoli avamposti, porti sconosciuti e stazioni di rifornimento: anche questi rossi. Qui, su queste mappe, l'impero inglese si estendeva in tutta la sua maestà, edificante monito per la gioventù britannica. Un quarto delle terre emerse e un quinto della popolazione di tutto il mondo, intimamente legati alla nostra isoletta o sottoposti al suo potere. Tutto quel rosso ci faceva sentire molto superiori.
Davamo per scontato che tutto quell'enorme miscuglio di popoli, di ogni possibile credo e colore, soggiaceva volontariamente alla nostra autorità. E in ogni caso, c'era forse un altro paese più degno del nostro di esercitare questa autorità? Noi inglesi eravamo giusti, ed esercitavamo la nostra autorità con benevolenza. I giovani che mandavamo ad amministrare l'impero lavoravano sodo, conducevano una vita spartana, avevano un'enorme fiducia nelle proprie capacità ed erano incorruttibili. Non stavamo forse dimostrando a questi popoli arretrati quanto buono era il nostro sistema di governo? Non stavamo guidandoli verso le infinite gioie della civiltà cristiana? Non stavamo insegnando loro, con la pazienza di un padre verso i suoi bambini, che per conformarsi al grande piano divino i giovani uomini dovevano indossare i pantaloni e le giovani donne coprirsi le mammelle? Eravamo talmente generosi da mettere a loro disposizione scuole nelle quali potevano imparare l'inglese e arricchirsi lo spirito recitando Shakespeare. Costruivamo ospedali e cliniche per combattere le loro malattie, e scuole di agricoltura dove essi potevano imparare a ricavare raccolti più abbondanti dalle loro terre. Più che naturale che ci rispettassero. Guardando queste carte geografiche provavamo una strana emozione al pensiero che tutti quei popoli dispersi intorno al mondo salutavano la nostra bandiera e cantavano «Dio salvi il Re»: il nostro re.

Il nemico, Einaudi, 1973 (trad. V.Ghinelli)

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