8.3.13

Roma nel primo Novecento. Nathan l'utopista (di Lucio Caracciolo)

Ebreo, massone, repubblicano, anticlericale, pragmatico, londinese di nascita e cittadino britannico fino a 43 anni: insomma, quanto di più "irregolare" e di meno romano si possa immaginare. Eppure questo è Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913. E proprio la cultura cosmopolita, la visione etica della politica, l'aria da straniero in patria, sono alla radice del suo appassionato tentativo riformista. Solo un uomo estraneo ai connubi fra banca e religione, un mazziniano disposto ad "accettare, non cercare i suffragi", può impegnare tutto se stesso nella battaglia apparentemente disperata per una Roma moderna, civile, italiana ed europea.
Nella Capitale del primissimo Novecento dominano tuttora gli epigoni del potere feudal-clericale, gli speculatori fondiari, gli aristocratici "neri" o "bigi", padroni delle banche, dei servizi pubblici, del Comune. Questa consorteria reazionaria deve la propria sopravvivenza alla crisi edilizia del 1887, che ha bruciato capitali, spento il già tenuissimo spirito d'intrapresa, scoraggiato il rischio, premiato i conformisti. Lo "Stato di Roma", refrattario al progresso, ha digerito e assimilato le più fresche energie della borghesia e del capitalismo nazionale.
Sulla Capitale depressa comincia infine a soffiare, nell'autunno del 1907, il vento laico del riformismo. Ernesto Nathan guida il Blocco popolare alla conquista del Campidoglio. La coalizione di liberal-radicali, democratici, socialisti, chiama l'ex Gran Maestro della massoneria a capo della giunta. Nathan è il primo sindaco non aristocratico di Roma italiana. E se ne vanta. Già nel discorso d'investitura tralascia l'ossequio ai predecessori, alla continuità, insiste sulla diversità della sua "amministrazione popolare".
Il nuovo sindaco dichiara guerra ai "monopoli artificiali" che giocano a piacimento sul prezzo delle aree e dei servizi pubblici, si elegge campione "della collettività, della cittadinanza, difensore dell'onesto commercio, dell'onesta concorrenza, dell'onestissima e abusata pecora, tosata e scuoiata in ogni momento, conosciuta sotto il nome generico di consumatore". Nathan è un fervido anticlericale. Per lui - possiamo prendere a prestito i versi di Pascarella - "er prete è sempre quell' omaccio / inimico de la patria e der progresso". Il Vaticano è "il frammento di un sole spento, lanciato nell'orbita del mondo contemporaneo", "il fortilizio del dogma, ultimo disperato sforzo per eternare il regno dell'ignoranza", il nefando sobillatore della credulità popolare, che "dinanzi all'apparizione di un'epidemia, appende voti alla Madonna e scanna i sanitari".
Il laicismo di Nathan non è solo propaganda illuministica, è soprattutto una sfida ai monopoli fondiari cattolici (e non); sicché in Vaticano l'avvento della giunta bloccarda è vissuto come una diabolica congiura orchestrata da frammassoni e giudei. Ma Nathan da solo non potrebbe agitare i sonni di preti e speculatori. Tutti sanno che ha le spalle protette dall'uomo più potente d'Italia: Giovanni Giolitti. Con Giolitti lo Stato entra massicciamente negli affari di Roma. Fintanto che lo statista piemontese non inclinerà verso l'intesa con i cattolici, appoggerà quel riformista intransigente, temerario e un po' estremista che ha sottratto il Campidoglio al patriziato romano.
Giolitti e Nathan hanno tre grandi nemici in comune: la povertà, la ricchezza parassitaria, l'anarchia urbanistica (e quindi economica). L'esperimento giolittiano - la modernizzazione del paese e l'allargamento della base popolare del regime - si esprime in Roma nella lotta contro questi morbi secolari, per sconfiggere i quali la giunta laica userà tre nuovi strumenti: l'incentivazione dell'edilizia popolare, la tassa sulle aree fabbricabili, il nuovo Piano regolatore.
Nathan s'impegna innanzitutto per l'emancipazione dei poveri, una piaga sociale che la crisi di fine secolo ha terribilmente aggravato. Roma non ha industrie, eppure sperimenta la povertà tipica dei grandi centri produttivi. Non occorre varcare le mura aureliane per imbattersi in un paesaggio di povertà degno della Manchester ottocentesca descritta nei rèportages di Friedrich Engels. Capanne e baracche spuntano anzi più fitte nei quartieri-bene, fra i primi villini del Nomentano o dei Parioli, dove avanza terreno libero da costruzioni. E' la Roma dei "cafoni", dei braccianti marchigiani, laziali, abruzzesi, campani, sedotti dal miraggio della Capitale. Per essi la città si è fatta matrigna, e il meglio che possano sperare è d'incontrare la solidarietà untuosa di clubs filantropici o di quegli aristocratici che amano praticare il "charity sport" - il gioco del ricco buono che soccorre il povero diavolo - e offrono banchetti, festini, bazaars di carità, ad uso di nullatenenti o sedicenti tali.
In verità il Piano regolatore del 1883 aveva assegnato al proletariato un suo quartiere, Testaccio. Qui dovevano concentrarsi i lavoratori del centro industriale e commerciale di Roma, che non sorgerà mai. Quartiere per le "arti clamorose", dunque, piccola isola operaia in una città di burocrati, trasformatosi subito agli occhi dei borghesi in un domicilio coatto per pregiudicati, un asilo di malfattori. Testaccio offre ai visitatori un colpo d'occhio davvero allucinante. Nei palazzoni tristissimi spuntati per iniziativa di imprese private, regnano il sudiciume e le malattie infettive. I "giardinetti" interni sono adibiti a stalle, immondezzai, gallinai o presunti campi di bocce. Nelle case sovraffollate un cronista osserva "gradini sconnessi, cumuli d'immondizie dappertutto, muri scrostati, tormentati dall' ossessione pornografica che sembra una protesta dell' animo oppresso contro la moralità degli agiati o dei felici... Ed ecco le famiglie numerose, lacere, gridanti, irose, cacciate dalla casa nei pianerottoli e sulle scale... Ecco i vetri rotti, le lampade a gas che non ardono, le porte sozze, gli impianciti grassi, le ringhiere barcollanti per cui scivolano imprecanti, urtandosi, i ragazzi laceri e spesso nudi".
Muratori, pontaroli, scalpellini, selciaroli, imbianchini, fabbri, persino qualche impiegato comunale, s'accalcano nelle abitazioni di uno, due, al massimo tre vani, sovrapposte l'una all'altra secondo le regole dello sfruttamento intensivo delle aree. Qui nessuno può sapere con chi passerà la notte. Sovraffollamento e subaffitto determinano la formazione e la scomposizione di estemporanei nuclei di coabitazione. La famiglia come unità etico-esistenziale è insidiata, talvolta soppressa. Così al Lungotevere Testaccio 112, scala 2, un inquilino ospita una coppia di sposi nel corridoio d'ingresso, battuto giorno e notte dalle altre famiglie subaffittuarie; in via della Robbia 36, interno 74 - una monocamera - due giovanotti di sedici e vent'anni dormono nello stesso letto con una fanciulla pubere; in via Mastro Giorgio 8, quattordici disgraziati si disputano una sola stanza, e un ragazzo intraprendente ha sistemato il suo giaciglio sul cesso; in via Bodoni 45, due famiglie occupano la stessa camera: marito e moglie sposi di fresco han disteso un lenzuolo in mezzo alla stanza a mo' di frontiera, per difendere la privacy insidiata dalla curiosità dei due scalpellini che occupano l'altra metà del vano.
Tifo, malaria, colera, persino il morbillo, mietono vittime a decine. La superstizione religiosa corrompe ed emargina il proletariato urbano. C'è un solo medico per diecimila abitanti, e le donnette ricorrono all' "ojo de le lampene" come sanatotum, o si raccolgono in adorazione davanti alle immagini sacre (Sant' Apollonia guarisce il mal di denti, San Rocco debella la peste, San Zaccaria dà la parola ai muti, Sant'Irene dovrebbe surrogare i parafulmini, e così via).
Contro lo scandalo della miseria Nathan può contare su una nuova arma: nel 1903 sorge l'Istituto Case Popolari (Icp), presieduto da un giolittiano di provata fede, Luigi Luzzatti. La sua ragione sociale è l'emancipazione dell' edilizia economica dall' arbitrio della speculazione. Proprio il riassetto e l'espansione di Testaccio sarà, a partire dal 1907, opera dell' Icp. La mano pubblica sovvenziona in quegli anni i graziosi villini con giardino fra Piazza Vittorio e Santa Croce, il meno piacevole quartiere di San Lorenzo, i primi nuclei del Trionfale e soprattutto San Saba, esempio di edilizia popolare di livello internazionale. Architetti come Giulio Magni e Quadrio Pirani - quest'ultimo esponente del socialismo riformista - sposano il minimo comfort delle abitazioni a decorazioni laterizie, richiami barocchi, spunti liberty che conferiscono un tono meno anonimo alle facciate delle case.
Ma la penuria di abitazioni non si guarisce con le pubbliche sovvenzioni. La radice del male sta nel monopolio privato delle aree fabbricabili. Quando il Blocco Popolare s'insedia in Campidoglio, otto proprietari si spartiscono mezzo milione di metri quadri di terreno edificabile, il 55 per cento del totale. La Società Gianicolo, guidata dall'ultrareazionario Medici del Vascello, la Società Generale Immobiliare d'ispirazione vaticanesca, ma anche la Piaggio e la Banca d'Italia pilotano i prezzi dei terreni. Il destino di Roma è nelle loro mani. Per sconfiggere il trust fondiario, Giolitti escogita la tassa sulle aree fabbricabili, cardine delle leggi speciali varate nel 1904 e nel 1907. Sulla carta è una rivoluzione. Tutti i proprietari sono obbligati a denunciare il valore dei rispettivi possedimenti. Il Comune può incassare una tassa dell'uno per cento (poi portata al tre per cento), oppure espropriare il terreno, sempre sulla base del valore dichiarato: ingegnoso meccanismo a tenaglia, che nelle intenzioni di Giolitti dovrebbe strangolare i monopoli. Se infatti il latifondista denuncia un valore troppo basso per evadere l'imposta, rischia l'esproprio. E per di più con un indennizzo pari al valore dichiarato, a lui sfavorevole. Giolitti deve impegnare il suo carisma nella contesa parlamentare intorno alla "tassa eversiva": "Non è ammissibile che si abbia disponibile una zona di 2 o 3 milioni di metri quadri su cui non si può fabbricare se non passando sotto le forche caudine di gente che certo non è animata solo da sentimenti umanitari", dichiara davanti alla Camera. Non stupisce che contro di lui si levino accuse di sovversione e che il sindaco Nathan, colpevole di voler incamerare la tassa, sia paragonato dai benpensanti al temutissimo anarchico Comunardo Braccialarghe.
I grandi proprietari organizzano la resistenza. Si coalizzano in un'associazione corporativa, invocano le sane tradizioni del diritto privato minacciate da Giolitti e Nathan, protestano, minacciano, seppelliscono il Parlamento sotto una montagna di memoriali, ricorrono al Consiglio di Stato e alla magistratura, infine promuovono uno sciopero fiscale. Nathan ha un bel proclamare che "l'arma della tassa sulle aree la teniamo ferma in pugno e l'applicheremo senza esitazioni". La coalizione degli interessi privati è assai più scaltrita del pubblico potere. E mentre Giolitti diventa sempre più attento alle istanze del mondo cattolico, Nathan resta solo ad arginare la controffensiva di monopolisti e clericali. I quali animano una coalizione di nazionalisti, conservatori, aristocratici "neri", che costringe alle dimissioni Nathan proprio mentre è in grado di annunciare che le difficoltà giuridico-burocratiche sono superate e che il Comune può finalmente incassare la tassa.
Gli subentra il regio commissario Fausto Aphel, finchè, nell' estate del 1914, il blocco moderato vince le elezioni. Il settantenne Nathan s'arruola fra gli alpini col grado di tenente e va a combattere sul Carso. Gli succede Don Prospero Colonna, che ha in corso una causa per la tassa su terreni della consorte. L'imposta sarà cancellata nel 1923, dopo che il Comune avrà potuto incassarne un'unica miserrima rata (1 milione e 400 mila lire inflazionate), nel 1919.
Il terzo e più ambizioso strumento del riformismo liberale, il Piano regolatore concepito nel 1908 dall'ingegnere capo del Genio Civile di Milano, Edmondo Sanjust di Teulada, soggiacerà al medesimo destino. Anch'esso, come la tassa sulle aree e l'Icp, è tecnicamente ben congegnato, incisivo, attuabile. Dunque destinato a suscitare la reazione dei privilegi lesi. Sanjust rinuncia a contrastare l'espansione a macchia d'olio. Affida la qualificazione dei quartieri alla tipologia edilizia, distinguendo tre tipi di case: "fabbricati", che possono svettare fino a 24 metri di altezza; "villini" a due piani, circondati da giardinetti; "giardini", che possono essere costruiti solo per un ventesimo della loro estensione e solo con case di lusso. Ai "fabbricati" il Piano assegna la funzione di assorbire i tre quarti dell' incremento di popolazione stimato per i prossimi 25 anni (da 560 mila a un milione di abitanti). I palazzoni sorgeranno a Piazza d' Armi (intorno all' attuale Piazza Mazzini), Piazza Verbano, Piazza Bologna, al Flaminio e oltre Porta San Giovanni. Gli altri abitanti andranno ad occupare i "villini", sull' Aventino e all' Ostiense, o i "giardini", che dovrebbero sorgere nelle aree libere tra via Salaria e via Flaminia, e intorno al Gianicolo. Non occorre aggiungere che i proprietari di terreni destinati a "villini" o "giardini" non intendono accettare un vincolo che li defrauda del diritto di costruire secondo il proprio gusto. E dalla loro fervida immaginazione sgorga un nuovo tipo edilizio, la "palazzina", in sostituzione del "villino". Grazie alle varianti e agli emendamenti al Piano e al regolamento edilizio, la "palazzina" potrà salire fino a 19 metri - quattro piani più un attico; proprio il genere di abitazione capace di soddisfare il gusto della media e piccola borghesia. Scatta così l'"operazione palazzina", avallata dal Regio Decreto 16 dicembre 1920, il quale, "vista la presente acutissima crisi delle abitazioni", concede l'imprimatur statale all'ingegnoso prodotto degli speculatori. Una volta di più il Piano regolatore finisce nell'archivio dei buoni propositi. E la storia si prende beffe dell'onesto ingegner Sanjust e del severo Nathan, iscrivendoli d'ufficio nella categoria degli utopisti. Che in politica vuol dire sconfitti.

“la Repubblica”, 2 dicembre 1984

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