6.3.13

Sognatori a Pergamo. Un santuario-ospedale dell’antichità (Luigi Malerba)

Museo di Berlino. Una statua di Asclepio proveniente da Pergamo
Nel secondo secolo dopo Cristo l'Asclepieo di Pergamo in Asia Minore, una specie di santuario-ospedale specializzato nella cura di vari malanni psicosomatici, diventò poco alla volta, in epoca di Cristianesimo già vincente, non soltanto un centro di fervorosi culti pagani, ma anche un luogo di incontro delle élites intellettuali greche e romane. Letterati e filosofi, oratori, medici e magistrati oppressi dagli stress professionali e dalle nevrastenie di una società colpita da inarrestabili alessandrinismi, si rifugiavano nel santuario dedicato al dio medico e taumaturgo Asclepio e qui in lunghi e, si suppone, anche costosi soggiorni, curavano la mente e il corpo seguendo con fiducia le prescrizioni del dio che puntualmente compariva in sogno ai suoi ospiti e pazienti.
Il resoconto di un lungo soggiorno nell'Asclepieo di Pergamo di un noto e facoltoso oratore greco della Misia, Elio Aristide (pronunciare alla greca Aristìde), ci è stato tramandato in un libro che compare tradotto per la prima volta dal greco nella nostra lingua (Elio Aristide, Discorsi sacri, a cura di Salvatore Nicosia, Adelphi, pagg. 273, lire 10.000). A dispetto di alcune rivalutazioni in corso, si può dire che Discorsi sacri è un libro sicuramente e irrimediabilmente "brutto" (fra virgolette naturalmente, altrimenti non starei qui a parlarne).
I libri brutti occupano uno spazio non da poco nella geografia e storia della letteratura. Anche prima di Gutenberg, in tempi di artigianato culturale, le corone di alloro finivano spesso sulla testa dei peggiori, prosperavano botteghe di copisti esosi e pasticcioni e si confezionavano astuti e futili best-sellers; ma sono pochi i brutti libri che hanno attraversato i secoli o addirittura i millenni e sono riusciti a prolungare nel futuro la loro bruttezza. I Discorsi sacri del maestro di eloquenza Elio Aristide sono il caso esemplare di un libro segnato da una fama pessima e che tuttavia ha superato indenne più di un millennio e mezzo: una bella età per un brutto libro. Il dotto Areta, arcivescovo di Cesarea nel IX secolo, apre la serie dei detrattori. Per lui Aristide è una persona presuntuosa, vaniloquente e tronfia, una mente vuota e fatua, e i suoi Discosi niente più che "inconsistenti farneticazioni". Mille anni più tardi Giacomo Leopardi annota con sufficiente cattiveria che chiunque si sia sobbarcato alla fatica di questa lettura non può sottrarsi a una "sensazione di nausea".
Ma perché tanto accanimento contro questi Discorsi sacri e il loro autore? E come mai, nonostante i giudizi feroci che hanno accompagnato questa operetta, se ne conserva memoria, se ne registra la presenza nelle storie e ora se ne stampa una accuratissima traduzione? Il buon Plinio il Vecchio afferma che "non c'è nessun libro così cattivo che non abbia in sé qualcosa di buono" (questa citazione l' ho rubata così com'è da un libretto di deliziosi e magnetici itinerari appena uscito da Scheiwiller: Aldo Buzzi, Andata & ritorno, pagg. 85, lire 10.000). E' una affermazione che si può facilmente contestare nell'effimero contemporaneo, ma quando un libro dura nel tempo, come questo, si presume che qualche pregio debba pure averlo.
E invece anche questa presunzione viene subito smentita dalla lettura. L'arcivescovo di Cesarea e il poeta di Recanati avevano proprio ragione: i Discorsi sacri sono un libro sgradevole, sgangherato nella struttura, pieno di ripetizioni e confusioni dalle quali emerge l' immagine di un autore presuntuoso e irritante o, se preferite, tronfio e vaniloquente. (Fra parentesi: in compenso si potrà leggere con profitto la splendida e esauriente introduzione di Salvatore Nicosia che ripagherà ampiamente di tutte le noie del testo).
I Discorsi sacri non sono altro che un diario dei sogni dell'autore e un repertorio dei malanni che lo affliggono, un repertorio incombente, minuzioso, maniacale, intercalato dalla registrazione altrettanto ossessiva dei bagni, salassi, impiastri, purgazioni, sudorazioni, vomiti messi in opera dai medici che eseguono scrupolosamente le prescrizioni notturne di Asclepio. Aristide risulta un sognatore mediocre e senza fantasia, ma diventa addirittura offensivo quando la sua vanità esibizionistica gli fa credere degna della massima considerazione ogni sua esperienza sia diurna che notturna. Come fanno spesso i malati, si abbandona con voluttà alla descrizione dei propri innumerevoli malanni (asma, mal di denti, febbri, inappetenza, insonnia, dispepsia eccetera) aggiungendo nuovo fastidio a una lettura già monotona.
C' è però qualcosa in questi Discorsi che salva tutto e dà ancora ragione al buon vecchio Plinio: come dice Salvatore Nicosia nella introduzione, ci troviamo di fronte al più cospicuo corpus di sogni assolutamente immuni da letterarietà che il mondo antico ci abbia trasmesso. Conosciamo innumerevoli sogni "letterari" antichi, da Omero Eschilo Sofocle Virgilio Cicerone fino a Shakespeare Cartesio Dostoevskij, i sogni del romanticismo tedesco, quelli cinesi e indiani. La costante di questo sterminato repertorio tradizionale è un alone di misteriosità irreale che circonda le immagini sognate, spesso enfatizzate per comporre un sogno-spettacolo oppure modellate in forma di sogno-messaggio o sogno-profezia. Insomma i sogni letterari sono quasi sempre coreografici, sentenziosi, ispirati. Per avere un sogno-documento, un sogno semplicemente registrato nella sua nudità, bisogna fare un salto da Elio Aristide a Freud e ai pochi casi isolati di scrittori che si sono volontariamente spogliati della loro veste letteraria per tentare la registrazione di un loro repertorio onirico il più possibile neutrale.
I sogni di Aristide nel loro squallore hanno il pregio della testimonianza veritiera, che non viene scalfita dalle interpretazioni che ne dà l'autore, quasi sempre ricalcate su elementari e trasparenti schemi analogici. La testimonianza sull'Asclepieo di Pergamo ci dà anche qualche notizia inedita sulla intuizione antica del valore terapeutico della parola. Accanto alla "logoterapia" esercitata comunemente sui pazienti (veniva ordinato a costoro di comporre carmi e odi secondo metriche rigorose e complesse che oggi potrebbero procurare, anziché guarire, gli esaurimenti nervosi), scopriamo che la medicina del tardo ellenismo suggeriva svariate pratiche di autoterapia verbale (recitazione declamazione canto) alternate a bagni caldi e freddi e a corroboranti esercizi fisici. Queste terapie, che anticipano il training autogeno e il lettino psicanalitico, attirarono a Pergamo stuoli di intellettuali ipocondriaci e l'Asclepieo diventò ben presto il centro culturale più attivo del Mediterraneo orientale, una specie di Beaubourg asiatico (biblioteca, sala per concerti, teatro, aule per conferenze e declamazioni) nel quale l' incontro fra grecità e romanità offriva una proiezione, con qualche secolo di anticipo, del connubio culturale bizantino.
La pratica incubatoria (dormire e sognare) non produce soltanto sogni terapeutici, ma dà espressione alla mitomania latente di Aristide. Nel primo dei Discorsi sacri il sognatore si trova in compagnia niente meno che di Marco Aurelio e Lucio Vero, i quali naturalmente lo circondano di attenzioni e onori straordinari. "A me solo essi rivolgevano le loro gentilezze e a nessun altro", racconta Aristide. Lo conducono a passeggio e ancora gli usano particolari cortesie, come quelle di tenerlo al centro quando il posto d'onore sarebbe toccato per età e autorità a Marco Aurelio. E alla fine della passeggiata Aristide ringrazia: "Vi sono grato, o imperatori, di tutta la benevolenza e la stima che mi avete testimoniato". E gli imperatori rispondono: "Siamo noi che ringraziamo gli dèi per aver conosciuto una persona così valente".
E' soltanto un esempio fra i tanti. Nonostante tutti i suoi difetti un libro come questo non va letto con un occhio solo. Sarebbe sciocco lasciarsi sfuggire l'occasione unica di ispezionare dall'interno questo luogo singolarissimo di terapie culturali fra Arcadia e Accademia, cenacolo di accaniti sognatori che dialogano nottetempo con il loro dio protettore e taumaturgo, che si abbandonano ai rapimenti di un paganesimo intriso di misticismi e autosuggestioni e ricavano da tutto questo effetti poderosi sulla loro salute (Lourdes insegna ancora). Nell'Asclepieo nessuno mette in dubbio l'origine divina dei sogni. Solo un cinico irriverente come Petronio Arbitro aveva osato affermare in un epigramma famoso: "Sogni, o sogni, che divertite la mente con le vostre ombre svolazzanti. Non i santuari degli dèi, né essi stessi, gli dèi, dal cielo li mandano, ma ciascuno a sé li finge". Parole empie e scandalose a quei tempi; ma forse da allora il nostro rapporto con i sogni non ha fatto grandi progressi.
Una breve nota mitologica alla fine di questo articolo: Asclepio (Esculapio per i romani) non è proprio un dio ma un semidio, in quanto generato da Apollo e da Coronide, figlia di un re della Tessaglia. Dunque questa sventata di Coronide, dopo avere amoreggiato con Apollo lo tradisce sposando un certo Ischis e viene perciò condannata al rogo. Mentre sta bruciando tra le fiamme, Apollo le strappa dal seno il nascituro, Asclepio per l' appunto, e lo affida alle cure del centauro Chirone che gli insegna l' arte della medicina. Ma Asclepio, non contento di guarire i malati, a un certo punto si mette a resuscitare anche i morti. Questo provoca le ire di Ade, dio degli Inferi, il quale si rivolge a Zeus e ottiene che Asclepio venga fulminato a ridotto in cenere.

“la Repubblica”, 4 maggio 1984

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