14.4.13

Buone lezioni su come si fa a fare lezione (di Marcello Cini)

Ho letto, con molto ritardo, trattolo dal bustone dei ritagli, questo articolo di Marcello Cini su un libro di insegnanti sulla scuola e sull’insegnamento (Giuseppe Bagni e Rosalba Conserva, Insegnare a chi non vuole imparare - Lettere dalla scuola, sulla scuola e su Bateson, Ega editore, Torino 2005).
Da quando ho smesso di esercitare l’arte, dopo essere stato recluso, in ruoli diversi, dentro un’aula scolastica per  una cinquantina d’anni, ho un rifiuto per tutto ciò che mi riporti a quel mondo. Non arrivo al “vomito del lunedì”, che aveva caratterizzato la ripresa settimanale del lavoro negli ultimi miei anni di insegnamento, somatizzazione di un disagio di cui, per fortuna, non arrivava traccia ai ragazzi; avverto tuttavia qualche sommovimento intestinale.
La lettura di questa recensione, tuttavia, non solo non mi ha disturbato, ma mi ha addirittura positivamente coinvolto. Il ritaglio è vecchio, la situazione è cambiata in peggio e il degrado della scuola pubblica s’è quasi certamente accentuato; ma so che esistono ancora insegnanti come la Rosalba e il Giuseppe di cui qui il compianto Cini tanto efficacemente discorre. A loro un libro così sarebbe certamente utile come termine di confronto.
La sparo grossa. Leggendo la recensione, a un certo momento, ho avuto perfino la tentazione di comprarlo anch’io. Chissà se è ancora in commercio? (S.L.L.) 

Due insegnanti, Rosalba e Giuseppe, si interrogano sul loro mestiere nel corso di uno scambio di corrispondenza durato un intero anno scolastico. Entrambi insegnano alle scuole superiori, lei in un istituto tecnico, lui in un professionale. Colti, appassionati, animati da un profondo senso di responsabilità per le conseguenze del loro agire sulla vita dei ragazzi e da un intenso investimento emotivo nei loro confronti, si trovano ogni giorno a dover tradurre tutto questo patrimonio intellettuale e morale in azioni, comportamenti e giudizi, mettendo insieme le finalità istituzionali del loro ruolo e i dettami della loro coscienza. Nelle loro lettere si intrecciano dunque problemi didattici e scrupoli deontologici, si alternano resoconti di sofferti interventi d'autorità e sincere prese d'atto di errori, vengono registrati episodi gratificanti e confessati momenti di sconforto. Alcune domande di fondo ricorrono, come fili di una trama, nel corso di tutta la corrispondenza, e ad esse accennerò brevemente più avanti. Ma prima vorrei cominciare presentando al lettore alcuni tratti della personalità dei due protagonisti, anche attraverso le loro stesse parole.

Dire le cose in modo appropriato
Rosalba Conserva è una insegnante di lettere estremamente attenta ad assumere la precisione, le regole e il rigore come punti di riferimento essenziali del proprio insegnamento. Di qui, per esempio, viene la sua insistenza sull'importanza dell'insegnare ai ragazzi a dire le cose «nel modo universalmente riconosciuto come appropriato: un dire piano, fluente, grammaticalmente a posto, insomma, `classico'».
Giuseppe Bagni è, a sua volta, un insegnante di scienze che insiste continuamente a non voler trascurare nell'insegnamento di queste discipline il ricorso all'immaginazione, alla narrazione e all'imprevisto. «Cosa dovrebbe fare l'insegnante di scienze?» si domanda. In primo luogo - risponde - riconoscere «i contatti che le scienze hanno con la struttura della narrazione: con la contingenza come contesto che favorisce un evento rispetto agli altri - e, ad un altro livello, la scelta di una teoria rispetto ad altre possibili».
Questo implica che «le pagine dimenticate di vita della scienza - gli anni di pausa della cosiddetta scienza `normale', il tempo delle teorie in conflitto e i fattori che hanno spinto in favore dell'una o dell'altra, la scelta di una direzione e di un paradigma che automaticamente hanno reso le altre `vicoli ciechi', il loro recupero spesso avvenuto in momenti successivi - sono preziose per insegnare il modo della costruzione delle conoscenze».
L'apparente contraddizione di queste due figure di insegnanti rispetto allo stereotipo corrente dei rispettivi ruoli disciplinari non deve stupire: essa è alla base, invece, della loro ricchezza umana e professionale. E' infatti conseguenza della profonda assimilazione delle idee di Gregory Bateson, che entrambi hanno assunto come riferimento costante. «L'intuizione di Bateson - scrive il secondo - che qualunque forma di apprendimento si muove su una linea a zig-zag che unisce i due poli della dicotomia rigore/immaginazione, per me fu una folgorazione fin dalla prima lettura». E gli fa eco la prima: «Anche per me quel capitolo di Mente e Natura (sul procedere zigzagando di forma e processo) è stato illuminante».
E ancora, qua e là, ritroviamo continui riferimenti al pensiero batesoniano: «Tra le abitudini di pensiero - scrive Rosalba - che io e te abbiamo preso da Bateson ce n'è una fondamentale: ammettere e coltivare visioni molteplici del mondo
Delineate così le figure dei due protagonisti veniamo al tema di fondo che costituisce l'ossatura portante di tutto il libro, attorno al quale ruotano le loro riflessioni critiche, sorgono i loro dubbi sulle priorità da scegliere e dal quale nascono i problemi dell'agire quotidiano.
Esso è già esplicitato nel titolo scelto: Come insegnare a chi non vuole imparare. «Quale deve essere - si chiede Giuseppe - la nostra risposta al problema dei ragazzi che di scuola ‘non ne vogliono'?». Una domanda che ne ha per corollario un'altra: «La nostra acqua disseta davvero? Quello che insegniamo, e in generale la scuola che abbiamo oggi, è quella buona, ‘che forma i soggetti'?».
Provo a individuare alcune delle risposte, ovviamente parziali e problematiche, che a più riprese affiorano nel dipanarsi del loro dialogo. Alcune riguardano più direttamente loro stessi, altre più i ragazzi e l'istituzione scolastica com'è e come dovrebbe essere. I loro punti di vista non sono identici.

Non uno di meno?
Se il fine comune a entrambi (l'imperativo della maestrina cinese del film Non uno di meno è più volte citato da tutti e due) è quello di individuare come fare una scuola di tutti e con tutti, appare tuttavia evidente che ognuno dei due lo sente in modo diverso. «La scuola pubblica non è qualunque scuola ‘aperta al pubblico’ - scrive Giuseppe - ma è quella che dà valore, per sé e per la società, al costruire luoghi di apprendimento eterogenei dove le biografie di alunni e alunne possano aprirsi e mescolarsi. Intrecciare storie e generazioni, favorire le contaminazioni senza che si trasformino in domini: questo è l'obiettivo». Non si può dunque, come si tenta di fare anche a sinistra, «trovare un percorso su misura per quei trenta su cento che escono senza titoli dalla scuola». Insomma: «Per chi non ne vuole, di scuola, ci deve essere un'attenzione particolare: ma non meno scuola... La maggior parte di quelli che ‘non ne vogliono’ sono il prodotto di questa scuola e si recuperano dimenticandoci dei trenta e pensando ai cento».
Rosalba dal canto suo tende a cercare di affrontare il problema dei ‘ragazzi non-bravi’ - non solo di quei trenta che si perdono, ma anche della maggioranza che subisce la scuola come un noioso dovere - domandandosi: «Dove nasce l'indifferenza dei ragazzi per la scuola?». E risponde: «La società, certo, con i suoi nuovi valori e disvalori ci mette del suo».
Ma, secondo lei, «l'indifferenza viene soprattutto dalle poche attese che hanno, dai pochi successi e dai pochi riconoscimenti dei successi. Vogliamo che imparino, conoscano nomi e formule, ma non curiamo abbastanza che ri-conoscano il valore di quello che fanno». Non serve dunque motivare l'apprendimento scolastico attraverso la sua funzione di favorire in futuro promozione e inserimento sociale, ma occorre dare ai ragazzi «una ragione per venire a scuola e una per restarci», lavorando «al livello delle relazioni di classe».
La differenza dei rispettivi punti di vista si ritrova su altre questioni. Una è la pratica studentesca dell'autogestione che ogni anno si rinnova, più o meno ritualmente, con risultati che Rosalba giudica assai severamente, mentre Giuseppe - pur concordando nel deplorare gli episodi di vandalismo ai quali talvolta le occupazioni danno luogo e nel constatare la velleitarietà e la vacuità di molte di queste azioni - ne coglie anche alcuni aspetti positivi.
Mi accorgo a questo punto che tutto quello che ho detto lascia fuori dalla porta i protagonisti veri di questo libro: le ragazze e i ragazzi che riempiono le sue pagine con le loro vite di adolescenti, le loro difficoltà scolastiche ed esistenziali, ma anche i loro successi e le loro scoperte.
C'è, per esempio, Andrea Demarco, che fa impazzire Rosalba: «Certe volte mi cascano le braccia. Con Demarco le ho provate tutte, fino a quando mi sono arresa... Forse - gli ho detto - sbaglio io, sbagliamo tutti noi a tirarti da una certa parte, nell'unica direzione che abbiamo scelto per te nonostante la tua volontà». Ma per lui non è finita bene: alla fine dell'anno è stato bocciato, nonostante gli scrupoli di Rosalba che tenta, senza riuscirci, di ripescarlo all'ultimo momento. Non se l'aspettava: il giorno dell'uscita dei quadri «ha girato come un pazzo per la scuola inseguito dai bidelli che lo consolavano».
E allora Rosalba si domanda: «Che hanno di diverso Demarco e Cardelli (l'altra bocciata con lui) rispetto ad altri, che come loro non hanno aperto un libro e come loro hanno fatto casino per tutto l'anno?». La risposta è amara: «Demarco e Cardelli, persone innocenti, non sanno ricorrere alle giuste furbizie: quelle che noi insegnanti ci aspettiamo perché l'essere ingannati si accompagna al riconoscimento della nostra autorità. Demarco e Cardelli sono insomma ingenuamente e costantemente ‘fuori contesto’ - a scuola s'intende, altrove se la cavano benissimo - e, per ragioni diverse, lasciati soli a sbrigarsela con gli affari di scuola».

Occupazione produttiva
E poi c'è Sonia Nocera, l'alunna di Giuseppe che alla fine di una settimana di occupazione si dichiara felicissima di aver conosciuto più ragazzi in quella settimana che nei tre anni precedenti e tra questi alcuni molto in gamba dai quali ha «imparato tantissimo». «Nessuno mi toglie dalla testa - commenta Giuseppe - che Sonia dentro l'autogestione (dentro la scuola quindi) abbia trovato un motivo per imparare, scoprendo un modello positivo di adolescente istruito. Un modello comprensibile per una studentessa come lei, tipica di una scuola di massa, e alla sua portata». Giuseppe ha visto giusto. Nell'ultima lettera, raccontando degli scrutini finali, «Sonia è stata bravissima» - scrive. «La qualifica sopra il settanta, dopo due anni di bocciature e tribolazioni».
E infine c'è la storia di Orkan, l'unico ragazzo rom che, finita la scuola media, ha chiesto di continuare a studiare. Ma non ve la racconto, perché non voglio togliere ai lettori il gusto di scoprire come va a finire. Vi auguro buona lettura.

“il manifesto”, 8 dicembre 2005

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