13.5.13

Il coraggio (di Salvatore Mannuzzu)

È ancora una (relativa) virtù
Per alcune regioni italiane (almeno una) le gare poetiche erano tradizione. Nell'interminabile stagione delle feste patronali — da primavera ad autunno —, di sera, su palchi di assi decorati da festoni di alloro e lampadine vacillanti, si esibivano poeti improvvisatori e insieme, appunto, laureati. Svolgevano, in ottave e in uno dei dialetti (o lingue) del luogo, temi assegnati poco prima dal comitato organizzatore: caratteristica della competizione era che si trattava di temi contrapposti, mettiamo "Il coraggio" e "La paura", e che ciascun poeta doveva difendere quello che era appena divenuto il suo in base a un'estrazione a sorte.
Può darsi che una tale disponibilità alla retorica, affatto scissa da qualsiasi scelta di valore, sia tutt'altro che remota, come invece ormai quelle gare: se la crisi di senso sulla quale anche banalmente si insiste diventa adesso, dovunque, indifferenza al senso, senza più un filo di angoscia. E resta difficile scagliare prime o seconde pietre, giacché si tratta di un vischio nel quale tutti più o meno si finisce presi.
L'ambiguità del sostantivo "coraggio" però è anche specifica. Non solo perché i dizionari gli attribuiscono due significati opposti: da un lato, "forza d'animo" "nell'affrontare pericoli", "nell'avviare difficili imprese", "nel sopportare dolori"; dall'altro, "impudenza": "E hai il coraggio di dirmelo?" Ma può darsi che questo secondo significato non abbia l'origine solo ironica che i dizionari suggeriscono: più che impudenza bisognerebbe dire, forse, "crudeltà" (e stupisce che in genere non si registri questa accezione ulteriore): "Hai il coraggio di trattarmi così?".
In tal modo si tocca l'ambiguità più intrinseca del termine. Ambiguità connaturata alla sua etimologia; che, attraverso un francese antico "corage", un provenzale "coratge", un latino tardo "coratum" e un latino volgare "coraticum", viene — si legge — dal latino cor, cordis. Cuore, dunque — e del resto è ben trasparente — : un muscolo, una dotazione fisica e, quasi, anatomica. Che non solo non si può dare chi non l'ha — secondo la più nota delle citazioni da farsi — ; ma che anche, come ogni attributo simile, è suscettibile di usi disparati e con differenti valenze morali: "il coraggio di uccidere un bambino".
Suona capzioso un discorso così impostato? E allora quale specie di coraggio va riconosciuta al kamikaze?
L'impressione è, quindi, che si tratti di una virtù mai assoluta, dato che si qualifica per la funzione che le è propria e per il fine che persegue; e anzi sarebbe pericoloso ravvisarvi in ogni caso un valore, secondo le indicazioni di una cultura — anche cultura politica — che non si sa bene se ci lasciamo tutta alle spalle; pericoloso o almeno estetizzante. Virtù mai assoluta, allora: ma virtù; giacché senza — senza coraggio — quella funzione (positiva) non si compie e quel fine (benefico) non si raggiunge.
Se si esce dal generico, si riscontra nel tempo che si vive una considerevole penuria di un tale specifico mezzo (volendo chiamarlo così): in una vita "senza qualità" come la nostra, la qualità coraggio manca particolarmente. Né sembra ne risuonino grandi rimpianti. Adesso la forza è comunque diversa da quella "dell'animo" e la crudeltà, se crudeltà ha da essere, in genere è crudeltà distratta: nella notte moderna in cui — si sa — tutte le vacche sono nere; e dentro il grande stomaco che ci porta e ci digerisce, e forse inizia a digerire se stesso. Poco da dichiarare e quasi nulla da opporre, a questa condizione violenta. La realtà è che "il pericolo" che si corre, e di cui alla definizione donde siamo partiti, non viene avvertito; la "difficile impresa" è solo subita, senza capire qual è; e di "dolore" ognuno ha il suo, davvero incomunicabile.
Proprio per questo, e proprio qui, invece occorrerebbero risposte di coraggio (che dunque ognuno, ce le abbia o no, dovrebbe provare a darsi); addirittura non dimenticando la forma d'uso "far coraggio", che equivale a "confortare": e non solo in senso riflessivo (ne fossimo mai capaci). Coraggio di che? Non basta rispondere: di vivere; giacché — si è appena detto — si vive senza coraggio. E allora è forse un particolare e raro modo di vivere il possibile oggetto; in connessione con un terzo desueto significato che i dizionari attribuiscono al termine: "mente, intelligenza, pensiero, anima". Il tentativo di una qualche qualità della vita, di un minimo senso d'un suo attimo. Tentativo, appunto: ed è qui il rischio e sarebbe questo il coraggio, accettare una partita nella quale ci viene assegnato un pesante handicap, e il cui esito rimane incerto ben dopo di noi. Coraggio anche di scommettere che "l'impolitico", con il suo carico irriducibile, diventi, per qualche frammento storico, storia e politica; perché quella qualità e quel senso da tentare non sono se non sono anche di altri: e dunque capaci di "far coraggio", di "confortare".
I percorsi per uscire dalla retorica sono ardui, tortuosi e labili: né mai si sa se davvero ne portino fuori (riaffiora il ricordo di quelle notti paesane dei "poeti", con lo stormire delle frasche e gli echi della salmodia delle voci in contrasto). Dunque, forse, è più concludente cercare qualche esempio di coraggio, fra i tanti propri di ognuno.
1.         "La ginestra" di Leopardi.
2.         "Nansen, avendo studiato le correnti marine ed aree dell'Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiagge della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano esere di origine asiatica, pensò di poter giungere o al Polo o almeno vicino al Polo, facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Così si lasciò imprigionare dai ghiacci e per tre anni e mezzo la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci." È il brano di una lettera di Antonio Gramsci alla moglie Julca (18 aprile 1927). Chi scrive lo ha già citato altrove, per ben altri usi (si scusa comunque della reiterazione con quei tre lettori). Ma sembra necessario riportarlo anche qui, come modello non solo di attenzione alla realtà e di sapienza delle sue regole — attenzione e sapienza "non renitenti", né "supplici", né "codarde", direbbe Leopardi —, ma di quell'unico ottimismo della volontà poi consentito. Non si tratta, davvero, della morale di un lontano caso personale e  penitenziario: giacché per raggiungere qualsiasi meta non esistono vie diverse; e anche queste vie, s'intende, sono dubbie.
3.         La feroce tenerezza con cui il personaggio proposto da Charlie Chaplin traversa la sua peripezia in questo secolo.
4.         L'affermazione (gratuita) di Mark Rothko che i suoi quadri poteva ordinarli al telefono.
5.         "Moneta que està en la mano / quizà se debe guardar; / la monedita del alma / se pierde si no se dà" di Antonio Machado." Moneta che sta nella mano / forse si può conservare; / il soldino dell'anima / si perde se non si dà." Appunto: il coraggio di dare via quel soldino; e, probabilmente, di perderlo nonostante lo si sia dato.

“Leggere”, Giugno 1989

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