4.6.13

L'anomalia italiana. Andreotti e l’andreottismo (Giuseppe Di Lello)

Ripropongo il commento di Peppino Di Lello alla scomparsa di Andreotti pubblicato sul “manifesto” ai primi del maggio scorso, molto acuto sul perdurare dell’andreottismo. (S.L.L.)
Giulio Andreotti ha rappresentato, per una lunga fase storica dalla Costituente, sino a quel conclusivo giugno 1991 in cui venne nominato senatore a vita, la più spiccata anomalia italiana: la normalità della coesistenza di vizi e virtù pubbliche in capo ad uno stesso rappresentante delle istituzioni, inconcepibile in un altro paese soggetto al controllo di una decente opinione pubblica.
In un altro paese non avrebbe nemmeno avuto una storia giudiziaria come quella che l'ha coinvolto perché, specie dopo l'affare Sindona, le vicissitudini di Baffi e Sarcinelli, l'omicidio di Giorgio Ambrosoli e il forte legame con la Sicilia di Lima, sarebbe uscito di scena e sarebbe stato dimenticato, almeno dalla cronaca.
E invece ne è uscito sempre rafforzato, tanto da essere nominato senatore a vita e poter poi dire con molta nonchalance che Ambrosoli "se l'era cercata", con relativa fastidiosa alzata di spalle generale e trasversale verso i pochi che protestavano per tanta protervia.
Non c'è dubbio che il potere andreottiano in Sicilia è stato pervasivo e che i suoi luogotenenti locali, Lima in primis, erano interamente calati in quell'area grigia funzionale agli interessi mafiosi. Che fosse mafioso o meno, almeno secondo il codice penale, lo si può desumere da una sentenza passata in giudicato che ha "spacchettato" in due parti la sua compromissione con l'organizzazione criminale: fino ad un certo periodo sì, no per il resto dei suoi giorni. Che Lima non fosse mafioso in senso tecnico-giuridico era convinzione profonda di Giovanni Falcone ed è da presumere che la stessa convinzione l'avesse, di conseguenza, per Andreotti, tanto da risolvere rapidamente il caso di un millantatore spedito in carcere per calunnia per averlo indicato come mandante di un omicidio politico eccellente.
E' certo comunque che la mafia faceva grande affidamento su Lima e le sue connessioni romane, tanto da fargliela pagare quando la sentenza della Cassazione chiuse inesorabilmente il primo maxi processo con lunghe condanne e molti ergastoli.
Rimane, però, in tutta la sua valenza politica ancorché priva di conseguenze giudiziarie, quella compromissione che tanti lutti e tanta sofferenza ha inflitto alla società siciliana e alle istituzioni.
La giustificazione formale di questa santa alleanza, per un lungo periodo, è stata la guerra fredda, la difesa dal comunismo, la fedeltà del Pci all'Urss e, quindi, la necessità di accogliere nel proprio campo un ampio pezzo di borghesia che inglobava anche gruppi criminali. Peccato che sparavano, ma erano effetti collaterali ineliminabili e non si poteva andare troppo per il sottile se si volevano salvare i valori dell'occidente democratico: in buona sostanza, seppur protetta dalla lupara, era pur sempre una democrazia da preservare. Una tal giustificazione pelosa non poteva più reggere dopo l'acquisizione formale e sostanziale del Pci al campo occidentale, con l'accettazione dell'ombrello atlantico come garanzia per la tenuta democratica e buona parte della Dc ne trasse le conseguenze con decise prese di posizione contro la mafia. Il meccanismo, però, era abbastanza collaudato e altri pezzi della politica, delle istituzioni, dell'imprenditoria, della finanza continuarono, e continuano, a farlo marciare a costo di abbattere quanti, come Piersanti Mattarella, volevano cambiare. Emblematica è stata la battaglia di Pio La Torre che aveva compreso sino in fondo la forza distruttiva di questo meccanismo di potere, l'intima relazione tra mafia, affari, istituzioni, controllo del territorio con la militarizzazione: non ci poteva né ci può essere democrazia senza la pace e con la mafia.
Affievolitosi fino all'irrilevanza il potere andreottiano, ne è rimasto il modello come lascito pesante su una società costretta a farci i conti. Intendiamoci, questo è il vero pericolo e non si può semplicisticamente puntare il dito contro i singoli Andreotti, Lima o Ciancimino per poi, comodamente, assolvere tutti gli altri: del resto si è visto come, scomparsi questi attori primari, prontamente ne è stata raccolta l'eredità dai nuovi gruppi che hanno prontamente riempito i vuoti. Da una breve fase di distacco strategico, dovuto alla rivolta morale e politica prodotta dalle stragi del '92, si è passati ad un presente fatto di compromissioni palesi, di accettazione dell'intermediazione mafiosa in tutti i campi degli affari e della finanza, di contiguità rivendicate come irrilevanti o addirittura virtuose - lo stalliere di Arcore eroe - che fanno della mafia un potere ancora più forte e della compromissione con la stessa un modello tuttora vincente.
Morto Andreotti, ora bisogna liberarci dell'andreottismo.
“il manifesto”, 7 maggio 2013

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