Giovanni Della Casa (1503 - 1556) |
Dapprima bisbigliata come un'impertinenza, poi insinuata come un paradosso, promulgata infine come l'annuncio di prossime palingenesi, una notizia si era diffusa per il mondo in un non lontano passato: la civiltà - qualsiasi civiltà - è, in quanto tale, tirannica e oppressiva. Trascorso qualche anno, vien fatto di chiedersi come mai questa voce abbia destato tanto scalpore, dacché esiste nella nostra (come in altre culture) una lunga e robusta tradizione primitivistica, regressiva, o come altro la si voglia chiamare, di cui dal tempo del liceo abbiamo appreso le dottrine e la storia. Non solo: ma i fautori della civiltà, i legislatori, gli educatori e i maestri d'ogni anche più futile arte o disciplina, mai hanno fatto mistero del carattere costrittivo e intimamente "innaturale" dei loro insegnamenti.
Chi voglia accertarsene, non ha che da rileggere quel piccolo classico di legislazione mondana, e di sapienza letteraria che è il Galateo (ora ripresentato da Arnaldo Di Benedetto nella vecchia edizione curata nel 1937 da Giuseppe Prezzolini: Studio Tesi, pagg. 155, lire 16.500). Giovanni Della Casa, lungi dall' attribuire un valore intrinseco ai rituali e alle prescrizioni che sono al centro del suo discorso, è il primo a riconoscere che "le cirimonie (...) naturalmente non furono necessarie", e che bisogna "più tosto errare con gli altri in questi siffatti costumi che far bene da solo". Difficile essere più espliciti.
Non v' è traccia, nelle pagine di questo disincantato trattatello, delle giustificazioni etiche, anzi cosmiche, che stanno dietro alle più rigorose norme di civiltà che si conoscano, quelle dell' "etichetta" cinese: il rispetto delle consuetudini mondane non è per Della Casa, come per i confuciani, l'effetto e la prova di un corretto rapporto dell'uomo con l'universo, ma un espediente con cui si cerca di rendere tollerabile "questa faticosa vita mortale". Alla radice della minuta, ingegnosa casistica del Galateo c'è una tutta italiana e fiorentina sfiducia nella lealtà e nella solidarietà degli uomini. Davanti a noi sta il lucido mondo delle apparenze, al di là del quale è difficile e forse inutile penetrare: meglio accettare individui e costumi, "non per quello che essi veramente vagliono, ma, come si fa delle monete, per quello che corrono".
Esistono, certo, le leggi della religione, gli imperativi della morale, ma Della Casa è un prelato troppo esperto della vita di mondo per attendersi che essi incidano realmente sulla condotta dei più, e nel suo manuale denuncia "non i peccati ma gli errori degli uomini". Obiettivo apparentemente modesto, ma che nell' ottica del Galateo si rivela assai arduo da conseguire. Perché se l'autore si ferma, per un verso, al di qua dell'etica, per un altro si spinge al di là di questa, inoltrandosi in un territorio dove regnano leggi capricciose e squisite, d'incerta, laboriosa applicazione: "non si dee (...) l'uomo contentare di fare le cose buone, ma dee studiare di farle anco leggiadre". Per leggiadria Della Casa sembra intendere soprattutto quella felicità di comportamenti che nasce da un'attenta valutazione delle infinitamente mutevoli circostanze. Anche qui siamo agli antipodi dell'etichetta cinese, secondo la quale, come dice Granet, "i riti stabiliscono fra gli uomini le distinzioni necessarie". Per Della Casa, invece, solo da meditate e sottili discriminazioni nascono i riti, le cerimonie: non soltanto "quello che s'usa per li Napoletani (...) non si confarebbe per avventura né a' Lucchesi né a' Fiorentini" e "quello che in Verona per avventura converrebbe si disdirà in Vinegia", ma quanto è raccomandabile in una stanza diventa improprio in un'altra del medesimo appartamento.
Nulla c'è di prestabilito, dal momento che per ogni azione, per ogni gesto, va "accordato il tempo e 'l luogo e l'opera e la persona". Né basta tener conto dell'età, del sesso e della condizione sociale: perché, tanto per fare un esempio, solo coloro che si dedicano alle arti liberali possono permettersi di apparire "maninconosi" e "astratti"; negli altri un simile atteggiamento risulta incongruo e suscita disapprovazione. Sorprendere il prossimo, disattendere le sue aspettative per ingiustificate che siano, costituisce infatti per Della Casa l'"errore" più imperdonabile: la vita è già abbastanza "faticosa" perché la si aggravi con magari involontarie ma non per questo meno moleste sconvenienze. Il galateo è la scienza dei dettagli, delle inezie, ma più ancora dell' attenzione rivolta alle ripercussioni che la nostra condotta, i nostri malcontrollati umori possono avere su quelli degli altri. Guai a mostrarsi crucciati, "conciossiaché, come gli agrumi che altri mangia te veggente allegano i denti anco a te, così il vedere che altri si cruccia turba noi". Altrettanto deplorevole è, in compagnia, dar segno di noia: "comeché l' uomo sia il più del tempo acconcio a sbadigliare (...), quando altri sbadiglia colà dove siano persone oziose e senza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente, quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se ne fossino ricordati". Presupposto di questi rilievi è la constatazione che la personalità degli uomini soffre di una immedicabile fragilità. State attenti, pare raccomandarci Della Casa, l' equilibrio psicologico degli individui è talmente precario che basta, anche solo per inavvertenza alzare un sopracciglio, piegare la bocca, inclinare un braccio, per seminare scontento e inquietudine: quelli che sembrano dettagli e inezie possono assurgere al ruolo di fatti della più grave importanza, "perciocché anco le leggeri percosse, se elle sono molte, sogliono uccidere".
“la Repubblica”, 4 giugno 1985
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