12.6.13

Ottocento bifronte (di Michele Nani)

Marzo 2009. La rievocazione delle Cinque Giornate al Castello Sforzesco di Milano
«Ora la fede se ne va e la scienza viva e completa non è venuta ancora. Perché dunque glorificare tanto questi tempi che i più ottimisti chiamano di transizione?»: poco prima dell'Unità italiana, così si interrogava Ippolito Nievo per mezzo del suo alter ego Carlino Altoviti, uno fra i tanti che «non credono più e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione». Sottolineandone il carattere bifronte, di quell'epoca «in transizione» offre ora un profilo di sintesi Salvatore Lupo con Il passato del nostro presente. «Il lungo Ottocento è il passato che più ha influenzato il nostro presente»: perché è stata l'epoca di un «grande mutamento», profondo e accelerato, se messo a confronto con i tempi graduali delle trasformazioni dei millenni precedenti. Si è trattato di un cambiamento durevole, destinato a segnare una svolta irreversibile nella storia dell'umanità, a partire dalle grandi rivoluzioni in America e in Francia, dall'industrializzazione e dalla diffusione della «nuova politica» (liberalismo, democrazia, nazionalismo, socialismo). Ciò non significa, ricorda però Lupo, che gli uomini e le donne del XIX secolo vivessero in un mondo simile al nostro: le loro vite furono segnate da «oppressive continuità» con i secoli precedenti, dalla fame come dal dominio della religione, dal peso di rapporti sociali tradizionali come da ostacoli all'emancipazione giuridica di donne, lavoratori, minoranze e sudditi coloniali destinati a persistere fino al nuovo secolo.

Un lascito ambivalente
Ai vecchi imperi (russo, asburgico, ottomano) si affiancarono nel corso dell'Ottocento imperialismi di tipo nuovo, come l'esperienza napoleonica, il dominio su buona parte dei mari e delle terre emerse che rese possibile l'egemonia economica britannica (e lo stesso «modello» politico inglese), ma anche l'espansionismo statunitense ai danni dei nativi e del Messico. Al cuore del secolo Lupo colloca il 1848, la più grande ondata rivoluzionaria della storia europea, alla quale fece seguito il primo boom capitalistico e una serie di conflitti armati che ridisegnarono la carta politica europea (le guerre per l'unificazione tedesca e italiana) e segnarono il destino di una nuova potenza extraeuropea (la guerra civile americana).
La seconda metà del secolo fu animata dalla dialettica fra globalizzazione (commerciale, coloniale, ma anche migratoria) e rafforzamento degli Stati e delle economie nazionali. Lo scontro internazionale si dispiegò sul piano delle politiche di potenza, ma soprattutto su quello della forza economica, per giungere a un punto critico quando Germania, Stati Uniti e Giappone minacciarono il primato industriale britannico. Analogamente, sul piano delle ideologie e delle culture diffuse, si affermarono prospettive universalistiche (su tutte l'«internazionalismo proletario» socialista), che vennero però contrastate da reazioni aggressive, come il nazionalismo xenofobo, il razzismo coloniale e contro gli immigrati, l'antisemitismo.
Il «lungo» XIX secolo finì con la più tragica delle esperienze, la prima guerra mondiale, una strage di dimensioni mai viste fino ad allora. Lupo rifiuta la contrapposizione fra un pacifico Ottocento e un buio Novecento, ma invita comunque a considerare il lascito del «migliore» Ottocento. Lo sviluppo economico, l'accesso alla cittadinanza, la fine del colonialismo, l'egualitarismo dei diritti sociali rappresenterebbero il prolungamento novecentesco di processi avviati nel secolo precedente. Per questo il libro si chiude con un invito a far nostra la «fede nel progresso» caratteristica dell'ormai lontano XIX secolo e, viene da aggiungere, oggi minata dalla consapevolezza della distruzione sociale e ambientale portata dal capitalismo dei consumi.
Genere ingrato, la breve sintesi di «storia generale» deve fare i conti con scelte drastiche. Lupo esplicita chiaramente le proprie: si concentra sulla storia dell'attuale Occidente e riserva un quarto circa dello spazio alla storia d'Italia; preferisce dar conto di «eventi» e «idee» e rivolge minor attenzione alla storia economica e sociale, al lavoro, alla famiglia e alle donne; sottrae pagine alla narrazione per renderla più articolata, inserendo paragrafi dedicati alla storiografia sull'Ottocento (nei quali la revisione di Furet si alterna a quelle post-coloniali e globali di Said, Anderson e Bayly), al «discorso politico» (da Montesquieu a Marx e Engels) o ad alcune opere letterarie dell'epoca (come i Miserabili di Hugo e Cuore di De Amicis).
La tirannia dello spazio si allenta, invece, quando si affrontano studi più circoscritti, che presentano anche l'altro, prezioso vantaggio di introdurre il lettore nelle dinamiche più minute delle società del passato, come nel caso di due avvincenti ricerche sull'Ottocento italiano.
Il patriota traditore di Gianluca Albergoni si sofferma su una vicenda apparentemente «minore», quella di Pietro Perego, un uomo del Risorgimento che finì i suoi giorni fra i sostenitori dell'Impero asburgico. L'itinerario del milanese Perego prese le mosse da una famiglia piccolo-borghese, che riservò al figlio unico la migliore educazione e un supporto continuo. Precocemente attivo nel campo letterario, appena diciottenne Perego prese parte al Quarantotto milanese come giornalista e militante, poi partecipò ai tentativi insurrezionali nel Comasco e, ancora, fu tra i protagonisti del dibattito politico nel Piemonte del 1848-49.
Con la sconfitta dei sogni patriottici anche un mazziniano fu costretto a fare i conti con la realtà: fece così ritorno nella città natale, ove sfruttò la relativa tolleranza della nuova restaurazione asburgica. Ma nel 1851 Perego era di nuovo a Torino e, a causa di una pubblicazione colma di livore contro i repubblicani federalisti, si ritrovò emarginato anche dagli ambienti più radicali del fronte patriottico e dovette incamminarsi sulla strada dell'esilio.

Traiettorie intellettuali
La disillusione e le difficoltà materiali, che lo portarono anche all'arruolamento mercenario nella legione anglo-svizzera, lo convinsero poi a rientrare ancora a Milano nel 1857, sfruttando l'amnistia imperiale. Deluso dalla politica risorgimentale, rimase attivo nel giornalismo e nella letteratura, assumendo posizioni apertamente contrarie al moto unitario e politicamente sempre più conservatrici. Morì nel 1863, consumato da molteplici frustrazioni e dall'alcol, forse avvelenato da sicari del partito clericale, con il quale era entrato in rotta di collisione.
Per quanto lo scavo nelle peregrinazioni, nelle prese di posizione e negli scritti di un personaggio di secondo piano sia incredibilmente approfondito e testimoni delle straordinarie possibilità offerte da un buon uso degli archivi ottocenteschi, Il patriota traditore non è una biografia tradizionale. La traiettoria di Perego rappresenta infatti, negli intenti dell'autore, un caso particolarmente efficace per ritornare criticamente su importanti problemi storiografici. Al di là del racconto «eroico» o «romantico», molti intellettuali della generazione risorgimentale si dedicarono alla politica e alla letteratura come leve di affermazione sociale. L'inerzia del quadro nel quale si muovevano non sminuisce, anzi ci fa comprendere la forza delle loro aspettative e ambizioni, le ragioni per cui scelsero di farsi «patrioti».

Successi e fallimenti
Albergoni mostra come i contesti ci aiutino a capire le variegate modalità di appropriazione del discorso nazionale. Nelle quotidiane lotte dei patrioti per quel riconoscimento pubblico capace di dar senso alla loro vite, la duttile retorica nazionale si piegò infatti a molteplici usi. Come mostra esemplarmente la vicenda di Perego, a volte il discorso patriottico sottolineava la dimensione culturale, comunitaria e prepolitica della nazione, altre volte si faceva strumento di lotta politica (anche interna fra patrioti), mentre in casi estremi poteva giungere a negare l'unità stessa della nazione (nel repubblicanesimo antiaristocratico) o a riconciliarsi con le istituzioni imperiali asburgiche, rinunciando all'indipendenza politica. Quegli usi e, più in generale, i diversi esiti politici della generazione risorgimentale non furono frutto di scelte astratte, ma risultarono influenzati dal profilo dei singoli, dalle distanze sociali che li separavano, dai campi nei quali scelsero di operare: elementi che condizionarono pesantemente il successo personale o, come nel caso di Perego, il fallimento politico ed esistenziale dei patrioti.
L'ultima ricerca di David Kertzer porta ancor oltre il tentativo di una storia sociale dell'Ottocento italiano: La sfida di Amalia racconta, con felice taglio narrativo, le vite di una famiglia di contadini, nel contesto delle relazioni fra le diverse classi sociali del Bolognese di fine secolo. Alle origini del volume si trova un processo scaturito dalla denuncia di Amalia Bagnacavalli, contadina di Oreglia di Vergato, contro l'Ospizio degli Esposti. Seguendo una consuetudine secolare, le famiglie contadine integravano i propri redditi accogliendo sin dalla più tenera età gli «esposti», cioè i bambini abbandonati a migliaia nelle città dell'epoca e accolti nei primi giorni di vita dai brefotrofi. Nell'Italia postunitaria questi ospizi divennero pubblici e alla cura degli esposti era destinata una delle più alte spese sociali dell'epoca. Oltre che di madri non sposate, molti di questi bimbi erano figli di prostitute e alcuni di loro nascevano già malati di sifilide, che trasmettevano alla balia nell'atto stesso di succhiare il latte.
Questa modalità di contagio, nota da secoli, destinava le nutrici a cure dolorose a base di mercurio e, generalmente, alla morte, destino che sovente condividevano con qualche famigliare. Nel 1890 un bambino trasmise la sifilide ad Amalia, il medico condotto del paese le diagnosticò il male e la indirizzò allo studio di un giovane e intraprendente avvocato bolognese. Di origini borghesi, Augusto Barbieri era fortemente critico della politica e dell'amministrazione postunitaria. Colse l'occasione per tentare di farsi un nome, ergendosi a difensore della giustizia e sferrando un attacco alla gestione degli ospedali e alla figura del suo presidente, il conte Francesco Isolani, uno dei più importanti membri dell'aristocrazia locale.

La contadina e il conte
Isolani e la dirigenza medica erano accusati di negligenza e di non essersi presi cura della sicurezza di una persona legata a loro da un rapporto di lavoro. Avevano un fondamento queste accuse? Gli esiti negativi delle sperimentazioni con latte vaccino ponevano i brefotrofi nella drastica alternativa fra due rischi: rimandare l'affido, per attendere qualche mese le manifestazioni piene della sifilide, mettendo così a repentaglio, per l'inevitabile malnutrizione, le vite di centinaia di bambini; oppure, dopo una precoce visita medica, consegnare i nuovi nati alle balie e indennizzare sommariamente, in cambio del silenzio, quelle che si fossero ammalate. Quest'ultimo era generalmente ritenuto il male minore. Una soluzione vera e propria sarebbe venuta solo con il nuovo secolo, con l'identificazione del batterio responsabile della sifilide e la messa a punto di nuove cure, ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale, con la pastorizzazione e il latte artificiale. Tuttavia già ai tempi di Amalia esistevano specifiche direttive nazionali per prevenire il contagio alle quali l'ospizio bolognese non si era attenuto.
 Fra perizie, controperizie e ricorsi, il processo si trascinò fino al 1897 e incoraggiò le denunce di altre nutrici, oltre che un fitto dibattito pubblico. Lasciamo al lettore la curiosità sull'esito giudiziario e sul percorso di Amalia e dei suoi famigliari. Le loro vicende sono potute emergere grazie agli atti processuali, che restano una delle fonti privilegiate per la storia delle classi subalterne, ma anche grazie al mutamento storico ottocentesco: che una contadina analfabeta portasse in giudizio un conte era reso possibile dal contesto postunitario, dalla costruzione di uno Stato di diritto e dalla crisi dell'egemonia ecclesiastica e nobiliare a opera di una nuova e aggressiva borghesia urbana. Con indubbia maestria - e con l'aiuto di uno studioso «indigeno», Giancarlo Dalle Donne - Kertzer si è mosso fra numerosi fondi d'archivio ed è riuscito nell'impresa di ripercorrere alcune fragili vite contadine ottocentesche e di renderle accessibili a un pubblico più vasto di quello degli studiosi di storia.

“il manifesto”, 29 marzo 2011

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