12.6.13

Tartarin. Un comico profeta di Provenza (Gian Carlo Roscioni)

Flaubert lesse Le prodigiose avventure di Tartarino di Tarascona, ancora fresche di stampa, una notte del 1872. Mentre il suo occhio percorreva velocemente le pagine del romanzo, tra mezzanotte e le due e trenta, l'autore di Madame Bovary si sorprendeva a ridere ad alta voce, da solo. Avrebbe poi scritto a Daudet che il suo libro era un puro e semplice capolavoro. Che pensare di questo giudizio, a un secolo di distanza? Credo che per apprezzare Tartarino (anzi, I tre libri di Tartarino: con questo titolo, nella collana Scrittori tradotti da scrittori, Einaudi pubblica pagg. 610, lire 24.000 la versione di Aldo Palazzeschi dell' intero ciclo tartarinesco) si debba oggi superare qualche ostacolo. I tre titoli, come altri dello stesso autore (in italiano, Cosino, Le lettere del mio mulino, ecc.) sono legati nella nostra memoria a ricordi scolastici; e si sa come una simile associazione possa provocare nel lettore adulto reazioni e resistenze paragonabili a quelle che risvegliano certi cibi, troppo generosamente propinati agli adolescenti di una volta. Basta però riprendere in mano Tartarino per rendere giustizia al suo inventore. Alphonse Daudet non è l'amabile e un po' zuccheroso affabulatore che credevamo di ricordare: nonostante qualche caduta, qualche intenerimento di troppo, la sua prosa è sorvegliatissima, il lessico sofisticato, il ritmo impeccabile. Solo per civetteria l'autore disse di Tartarino: La grana della scrittura non è molto fine né molto compatta. Anche il programma di una letteratura in piedi, gesticolata, dai modi esuberanti come quelli del suo eroe non va preso alla lettera. Sotto la vernice realistica, provenzale, c'è molta, fin troppa letteratura. Lo spettacolo è allestito con l' ausilio delle vecchie, collaudate ricette dell' eroicomico e del burlesco, sotto la tutela, qua e là un po' ingombrante, di Cervantes e di Dickens. E lo spunto di partenza la caccia a mostri immaginari che non compaiono mai si deve, nientedimeno, alla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine, dove figura la storia della Tarasca, un drago più grosso di un bue e più lungo di un cavallo che infesta le rive del Rodano. Ma se le avventure di Tartarino risultano ancora oggi prodigiose, non direi che questo si debba alla statura e alla ricchezza del personaggio. Il tipo del meridionale estroverso e sbruffone, bonariamente aggressivo e simpaticamente codardo, assomiglia troppo a un cliché; l' inventiva, l' ironia e il garbo di Daudet non bastano a riscattare il sapore di convenzione e di repertorio degli atteggiamenti del suo protagonista. Il vero pregio delle avventure che egli ci racconta sta nella rappresentazione, questa sì profondamente realistica, dei paesi in cui esse si svolgono. Il realismo di cui parlo è di un tipo molto particolare, e non s'incontra di frequente in letteratura. E' un realismo che non si appaga di mettere in scena il presente, ma intravede, presagisce il futuro: e ha un nome speciale, si chiama profezia. Il risultato più singolare in questa direzione si registra nelle pagine dedicate, in Tartarino sulle Alpi (1885), alla Svizzera, un paese che non c' è, non esiste più. L' industria turistica ha trasformato la patria di Guglielmo Tell in un gigantesco Guglielmo Hotel: “La Svizzera non è altro che un grande Casinò aperto dal giugno a settembre: un Casinò di panorami al quale si viene per distrazione dalle cinque parti del mondo, e sfruttato da una Compagnia internazionale ricchissima per centinaia e centinaia di milioni, e che ha la sua sede Ginevra e a Londra (...): inoltratevi nei paesi e non troverete un cantuccio solo che non sia artefatto, che non sia tutto un meccanismo come il palcoscenico di un teatro d' opera. Cascate illuminate a giorno, porte girevoli all' ingresso dei ghiacciai, e per le ascensioni delle ottime ferrovie idrauliche o funicolari. E i crepacci dove si può anche mettere un piede in fallo? Le vette da cui, a leggere i giornali, ogni tanto precipita una cordata di inglesi o di americani? Non è vero niente, tutta una montatura. Se cadete in un crepaccio, c' è sempre un groom o un portiere d' albergo pronto a raccogliervi, che vi chiede: Il signore è senza bagaglio?”. Quanto alle cordate che precipitano, sono messinscene per attirare i turisti assetati di emozioni: “Sopra una montagna dove nessuno si fosse mai rotto l'osso del collo gli inglesi non verrebbero, e tanto meno gli americani”.
Altro emblematico semaforo della progressiva adulterazione d'ogni società e d'ogni costume è, al polo opposto, questa misteriosa e stramba Algeria francese, dove ai profumi del vecchio Oriente si aggiungono quelli non meno forti dell' assenzio e della caserma. Granaio senza grano, l'Algeria è irrimediabilmente imbastardita dalla contaminazione con l'Europa. Gli occupanti francesi fanno scorpacciate di montone arrosto in mezzo a un popolo che muore di fame, e che noi inciviliamo aggiungendogli i nostri vizi. Il quadro che ne risulta ha qualcosa di stonato e di tragicomico, come una pagina del Vecchio Testamento raccontata da un sottufficiale alla tavola di un' osteria.
So di forzare un po' la mano a Daudet con questa lettura: ma mi vien fatto di vedere nei travestimenti di Tartarino da turco, da alpinista, da colonizzatore non solo il frutto della mitomania del personaggio, ma la metafora d' altre meno allegre e soprattutto irreversibili metamorfosi di cui il suo tempo comincia a essere testimone.
Nell' estrosissima traduzione Palazzeschi si prende con il testo originale ogni libertà: sviluppa, semplifica, precisa, stravolge. La sua lingua, toscaneggiante, evoca implicitamente un paesaggio umano molto diverso da quello della Provenza, e con esso mimiche più sobrie, comportamenti più guardinghi. Ma di questa incongruenza sarebbe sbagliato fare appunto al traduttore: se la partitura di Daudet perde, nelle sue mani, qualche cadenza provenzale, acquista d' altro canto nuove, fantasiose sonorità. Penso soprattutto a certe interiezioni e onomatopee di stampo inconfondibilmente palazzeschiano: ora è il cràcchete tràcchete che accompagna l'atto d'innestare una baionetta, ora il colorito Pan! Pum! Bum! Tum! che sostituisce il dimesso pan pan dell'originale francese. E' come un pizzico di allegria futurista, linguaiola e artificiale, sparso sul pathos agrodolce della comicità di Provenza: buffonerie sovrapposte ad altre buffonerie, in una farsa capace di superare i limiti di spazio e di tempo entro cui sembrava dovesse restar confinata.

“la Repubblica”, 7 novembre 1987

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