11.7.13

Aimé Césaire, il poeta della Martinica e della “nègritude” (Marco Dotti)


Césaire Aimé

«Fammi ribelle come un pugno
 quando il braccio si stende»
Poeta, autore di teatro, teorico politico, è morto ieri nella Martinica in cui era nato novantaquattro anni fa il grande cantore della negritudine, che tra i primi aveva chiamato al tribunale della coscienza la civiltà europea reponsabile della colonizzazione. Breton aveva detto della sua parola che è «bella come ossigeno allo stato nascente».
Per quanto potesse risultare spiazzante, e persino sconvolgente in ragione di quello Michel Leiris individuò come il suo «lirismo a briglia sciolta», l'opera di Aimé Césaire, se debitamente sfrondata da certe escrescenze barocche, conserverà per sempre la peculiarità di non essersi mai davvero allontanata dal contesto antillano. Partendo da quella «sacca innominabile della fame, della miseria e dell'oppressione» che era e purtroppo rimane la Martinica francese, e dalla casa paterna «piccola e crudele, che nelle sue viscere di legno marcio ospita decine di topi» dove era nato il 26 giugno di novantaquattro anni fa , Césaire ha mostrato - fino alla sua scomparsa avvenuta ieri a Fort de France - di sapersi muovere seguendo la duplice tensione e il doppio richiamo di un immaginario al tempo stesso particolare e universale. Un immaginario incarnato dal microcosmo antillano e dalla comunità nera, non più distinta su una base «nazionale» bensì secondo quel criterio fluido per il quale Césaire avrebbe coniato una fortunata definizione ormai passata al sillabario politico dello scorso millennio: negritudine.

Il suo immaginario «concreto»
Césaire è stato autore di un'opera, di un programma, di un registro poetico e politico dotati di straordinaria linearità e coerenza, come ribadisce anche il titolo di quello che rimane il suo ultimo libro, Negro sono e negro resterò (Città aperta edizioni, 2006), frutto di una lunga serie di conversazioni con Françoise Vergès in cui, a partire dalla scelta tutt'altro che neutra del termine «nègre», lo scrittore ritornava sul suo essere orgogliosamente e incondizionatamente «negro, negro dal profondo del cielo immemoriale». Tanto negli scritti politici, quando nella sua opera propriamente poetica, al contrario di molti suoi compagni smarriti lungo la strada a senso unico di una politica troppo istituzionale, Césaire è riuscito a coniugare la lucidissima capacità di critica e analisi sociale sintetizzata nel Discorso sul colonialismo del '55 con una non meno disarmante abilità di scrittura, entrambe ancorate con successo a quello che Michel Leiris ha definito un «immaginario essenzialmente e radicalmente concreto».
Dalle poesie di Io, Laminaria all'oratorio teatrale della Tragedia di Re Cristoforo, dalla pièce Una stagione in Congo fino ai versi di Ferrements e I cani tacciono, il lavoro di Césaire si è mostrato fedele soprattutto a una rigorosa «estetica della parola» e della potenza suscitata dall'immaginazione poetica, rilette in chiave «africana». In una lettera sulla poesia, indirizzata a una delle sue prime interpreti, Lylian Kesteloot, scriveva: «Nel Mestiere di vivere di Pavese, trovo una notazione: il verde dell'albero è la sua forza (in latino viridis; vis, la forza). Accostamento suggestivo, da interpretare all'africana». E ancora: «non so neppure se senza parola ci possa essere un «io»... il mio «io» è vago, sfocato, incerto, è simile a una specie di torpore. Solo la parola mi permette di capirmi, di cogliermi». Una convinzione, questa, sulla quale sarebbe tornato anche nel corso di una delle ultime interviste concesse nel 1988, prima del suo ritiro dalla scena della politica attiva - che lo ha visto per lunghi anni deputato all'Assemblea nazionale e fondatore e dirigente del partito progressista della Martinica - ribadendo come «tutti i miei segreti si trovano nelle mie poesie. Bisogna solo decriptarli, decodificarli e trovarne la chiave. Sono certo che vi sia una fondamentale coerenza nel grande disordine apparente dei miei scritti. Ho inventato il mio vocabolario e ho forgiato la mia mitologia».
Essendosi trovato a fiancheggiare, per un certo periodo sul finire degli anni '30, l'ultima ondata del movimento surrealista, Aimé Césaire aveva tratto dal gruppo di Breton soprattutto la passione per Lautréamont e Rimbaud, chiavi delle sua futura produzione poetica e saggistica. Proprio al creatore di Maldoror e di tutta una «mitologia moderna», Césaire avrebbe infatti dedicato uno dei suoi primi e più acuti saggi, provocatoriamente titolato «La poesia di Lautréamont bella come un decreto di espropriazione», mentre a Rimbaud si sarebbe dichiaratamente ispirato per quello che rimane, probabilmente, il suo capolavoro poetico, il Cahier d'un retour au pays natal.
Opera prima di Césaire, pubblicata su rivista nel 1939 e apparsa in volume solo nel 1947 dall'editore Bordas, il Cahier è stata il manifesto di più di una generazione di intellettuali, che direttamente o indirettamente si sono riconosciuti nell'idea e nello spazio inaugurato dal concetto di négritude. Corrosiva, amara, dirompente, questa opera è segnata da una evidente urgenza biografica, quella del ritorno dello scrittore nel suo «paese natale». È un viaggio alla rovescia, in cui è forte l'eco della «tratta immemoriale» degli schiavi, e in cui la parola si converte in una sorta di incanto magico, di fascinazione rivoltosa: «fammi ribelle a ogni vanità, ma docile al tuo genio, come un pugno, quando si stende il braccio... Fammi depositario del suo sangue, del suo risentimento, fa di me un uomo di termine e di iniziazione».

Dall'universo di Lautréamont
André Breton, nella sua premessa all'edizione del 1947, ipotizzava che questi versi fossero stati rubati all'universo di Lautréamont. E li definiva un «documento unico, insostituibile, che come ogni vera poesia «comincia con l'eccesso, la dismisura, le ricerche colpite da interdetto, nel grande, cieco tam-tam, fino a una incomprensibile pioggia di stelle... La parola di Aimé Césaire è bella come ossigeno allo stato nascente».
Un poema di Césaire, disse alla sua maniera Jean-Paul Sartre, è qualcosa che «esplode ruotando su di sé come un razzo», per questa ragione la «densità delle sue parole, gettate in aria come pietre da un vulcano, è precisamente quella negritudine che si definisce contro l'Europa e la colonizzazione». In anni più recenti, uno fra i più attenti studiosi dell'opera di Césaire, Georges Ngal, ha fatto notare come le suggestioni mutuate da Lautréamont si estendano dalla poesia alla saggistica dello scrittore antillano, dando luogo a inedite convergenze dottrinali tra il secondo Canto di Maldoror e l'apparente linearità del Discorso sul colonialismo. Opera solo a prima vista ben strutturata e suddivisa, al contrario di quanto avveniva per il Cahier d'un retour au pays natal - dove prosa e poesia si confondevano, senza soluzioni tipografiche di continuità - il Discorso sul colonialismo rivela che lo sviluppo e l'articolazione del pensiero di Césaire erano ormai irrinunciabilmente segnati dalla sua «esplosione lirica». Quella di cui parlava Leiris, quella che si voleva propria di una parola dichiaratamente «profetica», o forse solo informata dall'«emozione primaria» dell'essere uomini.

“il manifesto”, 18 aprile 2008

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