Enzo Jannacci |
A Milano ho vissuto dai primi anni Cinquanta agli ultimi Settanta. Era la mia città, il mio luogo dell’anima: via Solferino, via Garibaldi, via Lanzone, piazza Vetra, i Navigli, porta Cicca, la Milano di Stendhal, di Porta Venezia, di corso Magenta, la Milano della cosiddetta seconda scapigliatura, degli artisti, degli scrittori, dei fotografi, di Brera e del Giamaica, la Milano del liberty, del floreale, dei vialoni napoleonici, del romanico di sant’Ambrogio, la Milano del 25 aprile, dell’orgoglio partigiano, della ricostruzione, la Milano laboriosa degli artigiani e delle fabbriche, la Milano dell’immigrazione operaia, dei treni del Sud, del triangolo industriale, la Milano europea, la Milano capitale morale, aperta alle nuove idee, ai nuovi fermenti, alle nuove esperienze culturali, la Milano dell’Umanitaria, del Piccolo di Grassi e di Strehler, di Feltrinelli, dei poeti e del cabaret, ma anche la Milano delle battaglie, delle sconfitte, delle delusioni, la Milano di piazza Fontana, di Pinelli e di Calabresi, e poi, la Milano della restaurazione craxiana, della moda, dei vip, del consumismo, del falso e dell’apparenza, della corruzione, del dio denaro...
Ma questa non è più la mia storia privata, che poco conta: è storia di tutti. È la storia che Enzo Jannacci, vecchio amico di una stagione irripetibile e feconda, con il suo linguaggio visionario, appassionato, corrosivo, ha raccontato per mezzo secolo con le canzoni, e non solo. È la “nostra” storia nella storia di una lunga e straordinaria carriera di un artista straordinario, assoluto, proteiforme e univoco al tempo stesso, che si vede e che personalmente vedo troppo poco, se non in qualche rara, folgorante, vitale e memorabile incursione nella mediocre e avvilente arena-totem televisiva dei nostri ultimi decenni. Gli anni, la vita, le biografie ci hanno allontanati. Io me ne sono andata e a Milano ci torno occasionalmente, per lavoro. E se bisogna andare, parafrasando Enzo, se bisogna andare, andiamo, se bisogna scrivere, scriviamo. E allora eccomi qui a parlare e a scrivere delle canzoni, del mondo e dell’insegnamento morale, e perciò di amicizia, di rispetto, di solidarietà, di passione ideale, di impegno: valori obsoleti a quanto sembra, ma dei quali, come Enzo postilla amaramente in calce ad uno dei suoi cd più belli, dedicato al padre, lui stesso si è nutrito e nei quali, come me e come tanti altri, ha continuato a riconoscersi. E a credere. Nonostante tutti i No.
I ragazzi non capivano,
ti guardavano, piangevano, e non capivano che era tutto un No,
sorridevano, si fidavano, ma sbagliavano, non capivano.
Allora i ragazzi sparavano, i ragazzi si ammazzavano,
ma per morire si nascondevano, si vergognavano.
I ragazzi non capivano che era tutto un No...
Sembra non concedere nulla alla Speranza questo Jannacci degli anni Ottanta, anni foschi della smemoratezza e della depurazione dell’immaginario collettivo, anni dell’assassinio del Sogno, dell’Utopia, anni del riflusso, del superfluo, della corsa al successo, al denaro, anni di smarrimento di un Paese che puzza di festa e si avvia allegramente alla perdizione, e presto si ritroverà col culo per terra.
E allora? Allora noi andiamo, allora andiamo, ma dov’è che si va, caro Enzo.
Non fa sconti questo medico cantautore anomalo appassionato di disponibilità, finché dura. Questo genio del contropiede, questo poeta surreale, cantore di una periferia grigia e desolata della società, interprete empatico di un’umanità scomoda, irregolare, stracciona e disperata, fatta di barboni, di “napoli”, di disadattati, di fuori-di-testa, di puttane e di pappa. Questo giullare che ride raramente dietro una maschera stralunata, seria, quasi tragica, che si affaccia dallo schermo-chitarra, stretta al collo, a difesa. Pallido, magrissimo, – “pesavo cinquantaquattro chili” – occhialuto, impacciato, timido, inquieto, che usa le canzoni come arma, come sberleffo per ridere di sé e del mondo. Questo giovane che mi sta davanti, capelli cortissimi, mani nervose – mentre parliamo distrugge il bracciale a maglie del cronometro che ha al polso – che ha appena finito di cantare di un tale che andava a Rogoredo a cercare i so dané e che risponde quasi attonito alle mie curiosità. È il 1963, una sera d’ottobre, mezzanotte, siamo appartati di qualche tavolino dalla gente – intellettuali, artisti, tiratardi – che affolla la saletta buia e fumosa dell’Intra’s Derby Club, via Monte Bianco, dalle parti della Fiera campionaria, Milano. L’intervista verte sul caso “Canzoniere minimo”, programma televisivo “castigato” dalla censura bacchettona. Ne ho parlato nel pomeriggio con Gino Negri all’Umanitaria, poi con Gaber, Maria Monti, Spadaccino, Silverio Pisu, Paolo Poli, e dopo cena con Bruno Lauzi che viene con la chitarra e canta per me e per Marcello, cinque anni: Menica Menica, oggi è domenica, oggi l’amore si fa, e poi quel capolavoro in cui si narra di un tale speciale, diverso, poeta, che si uccide per la gran confusione mentale...
Di fronte a me, Enzo ha cominciato a sciogliersi. Parla. Racconta. Ricorda. È appassionato, sincero. Un attore, scrivo sul quadernino di appunti dove – no no no no non mi lasciar, mai mai mai – mi lascerà scritte le parole della sua canzone più famosa, quella del barbone che gli era vegnù anca in ment de andà a negà e poi ci ripensa. Le origini meridionali – il nonno salito da Foggia – l’infanzia, otto anni di pianoforte al Conservatorio, l’interesse per il jazz: Jerry Mulligan, Stan Getz, Chet Baker, Franco Cerri, Enrico Intra, il Santa Tecla, la Taverna Mexico, le serate nei locali, in giro per l’Europa, nelle caverne, nel buio, a suonare come dannati, come “minatori”. Poi la scoperta del rock, l’esperienza corsara al limone con Gaber, e intanto gli studi di medicina, le prime canzoni: El purtava i scarp del tennis, Veronica, L’ombrello di mio fratello, l’Armando, e il teatro: Carraro e Milly, T’ho cumprà i calzett de seda cunt la riga nera, il Gerolamo. C’ero, e la gente come me andava in visibilio allibita di fronte a questo fenomeno nuovo, bellissimo, istrionico, beffardo, che sa anche essere poetico, malinconico, struggente, che ti inchioda, ti prende di petto, ti fa pensare, ti scuote, mentre ti fa ridere e ti commuove – Sei minuti all’alba, Sfiorisci bel fiore, Il passaggio a livello, M’hann ciamàa, Vincenzina, Ti te sé no... –, che sfida ogni convenzione canonica canora e musicale con le sue mascheresie – come direbbe un altro mio grande amico giocoliere della lingua e dei linguaggi (Gianni Toti, n.d.r.)– nemmeno tanto “mascherate”, in bilico tra lucidità e nonsense, nate da una sapiente costruzione dell’assurdo e che testimoniano dell’impegno morale, e perciò “politico”, dell’artista, teso a superare, scardinare, sovvertire convenzioni codificate consolatorie piccolo-borghesi tipiche della canzonetta popolare, attingendo all’estremo, al fantastico, alla frusta dell’ironia, contro il cosiddetto “realismo”, guardando da “surrealista” ciò che vede e che, soprattutto, vuole mostrare a noi.
Difficile da capire, da accettare, da mandar giù – e da vendere – questo Jannacci, al di là di una cerchia ristretta di seguaci entusiasti. La durezza, l’immediatezza espressionista, icastica, del dialetto, la scelta consapevole di un universo “strambo”, dove si muovono figure al limite di perdenti, di spostati, che hanno spesso la sua faccia, i suoi tic, la sua gestualità teatrale, personalissima, apparentemente meccanica: non è cibo da benpensanti anestetizzati conformisti. Il successo popolare verrà tardi, grazie anche all’incontro felice e decisivo con Dario Fo, con la canzone Vengo anch’io, no tu no. È il ’68, c’è aria buona di fantasia, di immaginazione al potere, di ribaltamenti radicali. C’è voglia di buttare tutto all’aria.
Difficile il percorso di questo poeta della Milano più ombre che luccichii, degli operai sconfitti, degli amori traditi. Difficile, accidentato, caratterizzato da alti e bassi, inquieto e discontinuo, attraversato da altre importanti esperienze artistiche parallele o intrecciate, sovrapposte: il teatro, la scrittura, il cinema: Bianciardi-Lizzani, Monicelli-Tognazzi, i viaggi e i soggiorni di studio all’estero: il Sudafrica-Barnard, New York-la Columbia University, l’impegno professionale come medico chirurgo nelle strutture pubbliche e nel suo studio, dalle parti dell’Idroscalo, a un passo dalla casa dove è nato e da dove, bambino, vedeva gli aerei solcare il cielo di Milano, così bello quando c’è... Difficile per Enzo inserirsi nella nuova realtà discografica, piegarsi alle logiche affaristiche e miopi del mercato, adattarsi a un mondo che va, ma dov’è che va, un mondo “ancora in guerra”, dove c’è sempre meno spazio per l’intelligenza, l’ironia, l’ingegno. Dove non c’è spazio, non c’è testa, non c’è tempo per uno come quel Jannacci lì. Dove non c’è spazio per la Milano opaca delle periferie, delle fabbriche, delle ringhiere, delle latterie, delle piole, delle crôte, dei trani, per la Milano di quei nostri giorni lontani. La Milano di Rocco e i suoi fratelli, dei treni della miseria che salgono da quell’altra Italia, laggiù, dalle terre della fame della lotta e del riscatto, irrorate da sangue rosso, contadino e sindacalista... la Milano mattiniera e operosa, che avanza sui polpacci forti e il sorriso spavaldo delle tuse della CCC cucirini cantoni coats, quelle che otto ore al giorno alla linea, bianche e rosse come il tricolore, producono rocchetti e spagnolette, un arcobaleno di fili per rammendare montagne di calzini grigi e bucati. Le “vincenzine” che amano la fabbrica, giù, in fondo alla via, dalle parti della Fiera Campionaria, e dalle parti del Derby’s Club che ha chiuso da poco i battenti sulla strada ancora buia, sui passi degli attardati intellettuali pallidi, tirati, aggobbiti da una notte di fumo, di musica, di whisky e chiacchiere.
Anni Sessanta dei miracoli smentiti, delle speranze perdute, dei fermenti delusi. Prima del diluvio.
Grazie, Salvatore, per questa "chicca"...
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