7.7.13

La poesia di Giovanni Giudici ( di Roberto Galiverni)

Giovanni Giudici
Scriveva così Giovanni Giudici nella poesia eponima del suo libro più conosciuto, La vita in versi: «Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano / complicità di visceri, saettano occhiate / d’accordi. E gli astanti s’affacciano // al limbo delle intermedie balaustre: / applaudono, compiangono entrambi i sensi / del sublime – l’infame, l’illustre». Nel 1965 questi versi suonavano come una divisa, o meglio come una maschera di medietà che è divenuta poi l’immagine per antonomasia di questo poeta: l’uomo comune, l’omino un poco kafkiano che vive, lavora e cammina nella grande città neocapitalista, gli amori e i tradimenti, l’educazione cattolica, il marxismo e l’ideologia, i sensi di colpa, i depistaggi e le piccole recite nei confronti della res gravis esistenziale e psicologica, ma anche burocratica e culturale, l’instabilità lavorativa e sociale, le trappole e le vie di fuga della quotidianità come il luogo di tutti il più noioso e avventuroso, il conformismo, l’ironia, la vulnerabilità, il patetismo, e via dicendo. Tutte situazioni e vicende a cui si dovrebbe affiancare l’aggettivo peculiare di Giudici: impiegatizio.
Ma La vita in versi, poesia e libro, possiede anche un significato metapoetico, perché è vero che questo personaggio si rappresenta anche come un poeta, uno scrittore di versi che ogni volta tutto confermano e insieme tutto smentiscono e mettono in causa. A partire dalle continue possibilità di sovrapposizione o di non corrispondenza tra res e verba, tra la vita e i versi, anche la creazione poetica si configura così come un fecondo territorio intermedio, il prediletto da Giudici, che giocando con l’intera tastiera delle possibilità offerte da una tale sfasatura, ha saputo avvantaggiarsi enormemente dell’inadempienza e dello straniamento reciproco di vita e poesia.
Ha scritto Alfonso Berardinelli che Giudici si serve di un «poesia che veste abiti poetici». È così. Estraneo fin da subito sia alle appendici dell’ermetismo canonico (quello del ventennio), sia al nuovo ermetismo della neoavanguardia (quello dell’epoca del mercato), ma anche alla poesia oggettuale dell’epigonismo montaliano o all’appassionata affabulazione ideologica pasoliniana, Giudici si pone in una linea di gran lunga minoritaria del Novecento italiano. Che vi sia approdato attraverso la via dell’amatissimo Saba, col suo nesso gravità-leggerezza, dell’anti-novecentista Noventa o dell’esempio gozzaniano, seguito però secondo la formula critica di un Gozzano senza crepuscolari (che non vale invece per Sanguineti, poeta ben più neocrepuscolare che neoavanguardista), oppure in conformità alla sua formazione cattolica e marxista, certo è che Giudici trova la lingua fuori di sé in forma di codice poetico, convenzione in larga parte pre-novecentesca, strumento d’uso, supporto più o meno affidabile, con un immediato valore socio-culturale e comunicativo. Un linguaggio «strumentale al dire (più che all’esprimersi)», ha detto Mengaldo.
Per Giudici, allora, più di tutto sembra valere il
modello del Manzoni degli Inni sacri,
delle odi e dei cori delle tragedie,
un poeta che sentiva vicino più di Leopardi: il verso breve, il costante riferimento metrico, la disposizione anti-lirica, la voce e la rappresentazione corale (e popolare, perfino), la vocazione
narrativa ma ancor più teatrale e drammatica, brechtiana ante litteram (del resto Manzoni significa subito la questione della coscienza individuale e della storia, e così della loro sacra rappresentazione). E il Giudici dei primi libri è appunto il poeta del romanzo-recita delle maschere dell’io, della messa in scena delle sue retoriche, delle voci diverse e dei personaggi; un poeta del codice e della regolarità espressiva che diventano il luogo di continue invenzioni, funambolismi e trasgressioni espressive; un poeta, in sostanza, di convenzioni e di contravvenzioni che non sono solo formali, ma etiche e conoscitive.
Ho provato a riassumere queste cose perché a partire all’incirca da Lume dei tuoi misteri (1984) e Salutz (1986), la poesia di Giudici diventa qualcosa d’altro e di diverso, girandosi come su se stessa. E in questo, così come per Montale, Sereni, Caproni, Fortini o Zanzotto, diventa quanto mai rappresentativa della particolare curvatura dell’ultima parte del Novecento poetico italiano. Il secolo breve finisce sì presto, ma la sua fine poi è lunghissima (viene da chiedersi dove ci si trovi adesso). Inaugurato da un’alba al grigio crepuscolare, termina nell’ironia cosmica, nelle luci fredde dell’astrazione, nel sole nero, nei bagliori a volte splendidi e accecanti di una notte anche molto cupa. Proprio qui Giudici ha una sua parte originale e importante.
Con questo non voglio però dire che non sia più se stesso. Anzi, molti elementi della sua poesia rappresentano un’autentica costante. Il fatto è, semmai, che quegli stessi elementi si ricompongono a partire da un processo creativo e un intendimento diversi, che finiscono in qualche misura per ri-semantizzarli; e allo stesso modo sostanzialmente diversa è l’idea di poesia che li sostiene; o meglio, che ne deriva.
Anche dal punto di vista critico sembra esserci una specie di bipartizione. L’interesse di Fortini, Raboni, Mengaldo, Berardinelli, va anzitutto al primo Giudici, quello che ormai anche grazie a loro è stato più stabilmente storicizzato, mentre l’attenzione di Ossola o di alcuni critici più giovani, che magari hanno amato Giudici partendo proprio dai primi libri, ad esempio Testa, Bertoni o Zucco, riguarda sempre più il secondo. Lo spostamento va individuato nel ruolo via via più interiorizzato e
insieme più autonomo e attivo della lingua poetica, che Giudici ora non va a cercare fuori di sé, quanto prova a lasciare che si manifesti e si dica da dentro. Giudici rovescia gli occhi verso se stesso, ma non per delimitare o celebrare una qualche misura individuale o privata, quanto per sondare, quasi fosse una cavia, qualcosa che sta, alla lettera, oltre sé. E il sogno, il dormiveglia, le distrazioni, l’esplorazione del profondo, la memoria, e insomma tutto l’ambito della biologia, costituiscono il territorio fisico prima ancora che mentale di una simile auscultazione.
Di qui i temi ricorrenti dell’ultimo Giudici, come l’infanzia, il dialogo coi morti e con la madre mai davvero avuta, lo sguardo verso l’origine, ma anche, che non è diverso, verso l’oltre e le verità ultime di un orizzonte paradisiaco in verità mai troppo voluto (cosa che non si può dire invece del poco-terrestre Luzi). È questo il Giudici che si protende al massimo – alto o basso che sia – dalla sua balaustra intermedia, ma, sia detto a merito della concretezza e del calore umano della sua poesia, senza mai staccare del tutto il piede da terra.
Perdendo il suo carattere sociale e istituzionale a vantaggio di uno antropologico e corale, il discorso poetico diventa allora un discorso della poesia, con il genitivo molto più soggettivo che oggettivo. È a questo punto che in Giudici s’attiva tutta una serie di prolifiche contraddizioni per così dire strutturali: quella tra normatività del codice letterario e glossolalia (con più di un orecchio rivolto al nume Pascoli, ovviamente: «Piccoli miei accorro a dirvi / Non scherzate sui binari / Non dissipate il tempo avaro / In quel cip cip di conversari»), tra discorso indiretto e diretto, tra (auto)biografia e (auto)biologia, tra poesia-congegno e poesia-organismo, tra sintassi e verso, tra corporeità e pensiero, tra storia e assoluto, tra individuo e specie, tra ordinaryman e everyman, ma anche, a monte di tutto, tra dire e fare, cioè tra la poesia (oggetto-strumento) che si dice e la poesia (soggetto-agente) che si fa.
Come dal titolo di un intervento fondamentale di Giudici: La poesia che si fa, appunto. Attraverso un «io» iper-ricettivo, multiplo, fragile, esposto, è la lingua poetica, è il poema, come Giudici preferisce chiamarlo, che avviene al presente, ogni volta tessendosi e ritessendosi appunto da dentro, come un’autentica azione poetica.
Chi avrebbe potuto sospettarlo che in quel mezzo uomo aziendale si nascondesse un mezzo sciamano? Giovannino, anche lui?... Del resto, proprio Pascoli, questa unione stupefacente di un professore e di un contadino che sapeva la lingua degli uccelli, è stato insieme il padre e la madre del nostro Novecento poetico proprio perché, attraverso la sua anfibia natura, ha rappresentato meglio di chiunque altro il mistero stesso della poesia. E certo Giudici è stato uno dei suoi figli migliori.

“alias”, 4 giugno 2012

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