11.7.13

Leopardi e Niebuhr (Cesare Segre)

In un vecchio ritaglio del Corriere della Sera, senza data, ma quasi certamente dei primi anni ottanta, ritrovo un bell’articolo che informa dei rapporti  tra Giacomo Leopardi e lo storico e uomo politico tedesco Niebhur. Ne riprendo un ampio stralcio. S.L.L.)
Giacomo Leopardi
Dopo la fallita fuga a Milano del 1819, è solo tra il novembre 1822 e il maggio 1823 che il ventiquattrenne Giacomo Leopardi passò un periodo fuori di Recanati: proprio in quella Roma che aveva sognato come un paradiso filologico, per i tesori manoscritti della Vaticana e la presenza di tanti dotti. Giacomo, dopo aver appreso da un precettore le conoscenze fondamentali d'italiano e latino, aveva proseguito da solo, studiando il greco, l'ebraico e varie lingue moderne. Si aggirava tra i 16.000 volumi della biblioteca paterna, e in sette anni di studio disperato non si fece solo una sterminata cultura classica e moderna, ma divenne un filologo capace di discutere l'attribuzione di un'opera greca o latina, di proporre congetture geniali a testi già più volte analizzati o appena scoperti.
Il bellissimo volume di Sebastiano Timpanaro sulla filologia del Leopardi (del 1955 e poi, rielaborato, del 1978) aiuta a capire la delusione di Giacomo di fronte agli studiosi incontrati a Roma: indubbia la loro erudizione e passione per la ricerca, ma secondo un'idea ristretta, antiquaria della filologia. In compenso, il soggiorno romano procurò a Leopardi un incontro che avrebbe contato moltissimo: quello con lo storico Barthold Georg von Niebuhr (1776-1831), allora ambasciatore di Prussia. Oltre che studioso, il Niebuhr era statista di prim'ordine, e nelle vicende politiche del tempo svolse un ruolo importante. 

Panegirista
Il Niebuhr, esponente di una filologia molto più solida e lungimirante di quella che si esercitava a Roma, vide subito nel giovane Leopardi un degno interlocutore; si diede anche da fare perché gli fosse conferito un incarico fisso alla Biblioteca Vaticana. Ma i suoi sforzi, e quelli dell'archeologo Bunsen, fallirono, probabilmente per le idee «pericolose» del Leopardi sulla politica e sulla religione.
Col Niebuhr, il Leopardi continuò a tenere i contatti, e quando il primo pubblicò (1823)      i testi di un oscuro panegirista latino del sec. V, Flavio Merobaude, Giacomo gli comunicò una serie di congetture che il Niebuhr in buona parte accolse o menzionò in una seconda edizione (1824), esprimendo su di lui un giudizio ammirativo, come per un giovane maestro.
Una parte dell'epistolario intercorso tra Leopardi e Niebuhr era già nota; ora Leonardo Polverini, nell'ultimo fascicolo della «Rivista storica italiana», pubblica altre due lettere del Leopardi scoperte nell'archivio dell'Accademia delle Scienze della Repubblica Democratica Tedesca, più una che si conosceva solo dalla minuta del Leopardi. Abbiamo dunque sott'occhio dei testi che integrano un episodio importante della sua vita.
Naturalmente si tratta di lettere di lavoro, con notizie su libri e manoscritti, con giudizi sulle pubblicazioni del Niebuhr. Ma ci sono anche considerazioni sullo stato degli studi in Italia («Io non conosco alcuna recente opera o scoperta italiana che meriti di esserle annunziata. E con mio dispiacere sono anche costretto a dirle che la mia situazione in questo paese è tale, che io mi trovo quasi all'oscuro di ogni novità letteraria»), anche con un divertente aneddoto, relativo ai grecisti ravennati di allora: «La scienza del greco in quella città è tanta, che quando mi fu presentato quel codice (di Aristofane), e mi videro leggere francamente quel bellissimo carattere del 10° secolo, tutti gli astanti si guardarono in viso, e furono sorpresi come di un miracolo».
Quando però Leopardi parla di un manoscritto barberiniano che aveva studiato a Roma, vien fuori un accenno a una vicenda di cui ebbe molto a soffrire. Riguarda monsignor Angelo Mai, prefetto della Vaticana e fervido, benemerito ricercatore ed editore di opere antiche. La scoperta, da parte sua, di frammenti del De re publica di Cicerone in un palinsesto aveva ispirato l'entusiastica canzone Ad Angelo Mai al ventiduenne Giacomo, che al Mai inviò poi, manoscritti, i suoi primi lavori filologici.
Purtroppo, come ha mostrato Timpanaro, il Mai fece proprie molte idee e congetture del Leopardi, che però non ebbe modo di accorgersene. Si accorse invece quando il Mai, è difficile dire se innocentemente, pubblicò in appendice a un suo volume un'operetta di Libanio appena scoperta dal Leopardi; che non gli perdonò. Quando il Mai fu fatto cardinale, Giacomo scrisse che della porpora era debitore «al gesuitismo e non alla filologia». Di questa faccenda si parla anche nelle nostre lettere; e l'accenno non doveva suonare sgradito al Niebuhr, che col Mai aveva duramente polemizzato (rappattumandosi poi).
La filologia incrocia fatti esistenziali quando il Niebuhr propone al Leopardi di trascrivere per lui parte di un manoscritto di Ravenna. Era consuetudine allora, in mancanza di microfilm e con la difficoltà e la durata dei viaggi, di affidarsi a qualche conoscente di fiducia per confronti e copie. Ravenna non è poi tanto lontana da Recanati. Ma Leopardi malinconicamente risponde: «Trovandomi nella mia famiglia privo di ogni proprietà, per avere il padre vivo, e non potendo essere mantenuto da lui fuori del mio paese, mi è assolutamente impossibile qualunque intrapresa per cui sia necessario il soggiornare in altra città». Non poteva per caso l'editore sovvenzionare il suo soggiorno? Dunque, come per il posto alla Vaticana, il Niebuhr si vede ancora pregato di un indiretto aiuto da Giacomo, desideroso di lasciare comunque il suo «borgo selvaggio». Ma in queste contingenze il Niebuhr ebbe poco successo, o non comprese quanto fosse grave almeno psicologicamente, la situazione dell'interlocutore.

Aristocratico
E’ probabile che Leopardi abbia visto nel Niebuhr, così ben radicato nella vita, così sicuro nell'azione, l'uomo completamente realizzato che egli non fu, e allo stesso tempo sia stato attratto dalla sua moralità di aristocratico protestante all'antica. Forse lo considerò una specie di padre elettivo. E' comunque notevole l'abbandono e l'affetto con cui gli parla («Io la supplico di tutto cuore a conservarmi la sua benevolenza, e tener per costante, che io perderò forse presto, e certo volentieri, la vita; ma non prima della vita la memoria della sua bontà, e l'ammirazione de' suoi meriti»).
La lettera da Firenze del 1827 preannuncia al Niebuhr il proposito di rinunciare presto alla filologia: «Trovando questi studi totalmente ignoti e sgraditi al nostro pubblico, obbligato anche da una debolezza estrema di nervi a risparmiare al possibile i miei occhi, e a contentarmi di pochissima lettera, le confesso che, quantunque di malissimo grado, mi sono ridotto a rinunziare quasi affatto alla filologia». Tre anni dopo, Leopardi avrebbe reso irreversibile il gran rifiuto, cedendo al dotto svizzero Louis de Sinner tutti i materiali filologici elaborati con tanta passione.
Bartold Georg Niebuhr
Nei dieci anni di vita che gli rimasero, Leopardi si dedicò prevalentemente alla poesia e alla stesura delle ultime Operette morali. Ma continuerà le sue letture classiche, e saprà ammirare, nella traduzione inglese del 1828, la Storia romana del Niebuhr, comprendendone la novità e la solidità, in contrasto con gl'interventi polemici di quanti rifiutavano il rinnovamento del quadro storico proposto. Tutti e due erano troppo grandi per il loro tempo.

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