7.7.13

Senza scadenza e senza speranza. L’esilio di Piero Gobetti (di Marco Revelli)

«Così, dinanzi al Louvre, un'immagine m'opprime. Penso al mio grande cigno, con i suoi gesti folli, come gli esuli, ridicolo e sublime, e divorato da un desiderio senza requie...». Con questa figura folgorante, tratta dall'ottantanovesimo brano dei Fleurs du mal, dedicato a Victor Hugo, Stefano Levi della Torre aveva aperto la sua lezione introduttiva al ciclo torinese sull'esilio «Quando la libertà è altrove». Nelle parole di Baudelaire l'esule si riflette nel cigno, perso nella Parigi stravolta dai lavori di ristrutturazione urbana che avevano devastato il volto della città e disseccato il ruscello in cui l'animale-simbolo dell'eleganza era solito nuotare: spaesato, impacciato, i piedi palmati incerti sul selciato arido, le ali febbrilmente agitate nella polvere, il bianco piumaggio oltraggiato dal fango.

La solitudine della separatezza
Spaesato, il cigno, esattamente come l'esule, sradicato, posto ferocemente fuori-luogo. Sublime nella sua tragica solitudine, in quel disperato levare il capo «verso il cielo ironico e ferocemente azzurro... in atto di lanciare rimproveri a Dio». E «ridicolo» nel disagio di chi ha perduto il proprio habitat e la misura consueta dei gesti. «Penso alla negra smagrita e tisica scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col suo occhio sconvolto, gli alberi di cocco assenti della superba Africa dietro il muro immenso della nebbia; - concludeva Baudelaire - penso a chiunque ha perduto ciò che non si ritrova mai più...; e penso ai marinai dimenticati su un'isola, ai prigionieri, ai vinti... e a molti altri ancora!».
Di quella doppia condizione, che costituisce la sostanza esistenziale dell'«esilio», Piero Gobetti conobbe soltanto il primo aspetto: la sublime, orgogliosa solitudine della separatezza, la divaricazione di destino rispetto a una comunità d'origine che cade in basso e si degrada. Una morte ingiusta nella sua precocità - due settimane appena dopo l'arrivo a Parigi nel febbraio del '26, neppure il tempo di trovare una casa - gli risparmiò invece l'altro aspetto, il lato oscuro dell'esilio: la quotidianità divelta del fuoriuscito, la situazione imbarazzante («ridicola»?) del corpo che non ha più il proprio luogo, della vita fuori contesto (le sue ali, potremmo dire, non ebbero il tempo di infradiciarsi nella polvere)...
E tuttavia (o forse proprio per questo) egli rimane, nel senso più proprio, l'incarnazione più pura della figura dell'esule. Trova, nella forma esemplare dell'esilio, la sua cifra più autentica. Prima ancora di abbandonare fisicamente la patria, prima - molto prima - di varcare il confine, e di lasciare Torino. Esule come dimensione spirituale. Esule in patria, appunto, per necessità esistenziale. Come condizione preliminare del «pensare» la politica in un paese (un «contesto») tanto degradato che ne determinerebbe l'impensabilità. Dentro una comunità così «caduta» che appare dall'interno irredimibile.

Senza scadenze, senza speranze
Se scorriamo le pagine della «Rivoluzione liberale» possiamo verificare come in effetti Gobetti evochi il tema dell'esilio - dell'«esilio in patria» - assai presto, più di tre anni prima della sua effettiva partenza per la Francia. «Abbiamo sempre saputo di lavorare a lunga scadenza, quasi soli, in mezzo a un popolo di sbandati che non è ancora una nazione» scriveva nel fascicolo del 9 novembre 1922, immediatamente a ridosso della Marcia su Roma, sotto il titolo La Tirannide. E aggiungeva: «Oggi dobbiamo continuare il nostro lavoro senza più pensare a scadenze, senza speranza. Non ci hanno esiliato. Ma restiamo esuli in patria». Dove è evidente che nel campo lessicale dell'«esilio» si inscrive il senso, radicale, dell'estraneità assoluta. Della separazione dalla comunità dei «proprii», dei contemporanei e dei conterranei, e della rescissione dei legami primari, dei vincoli di appartenenza, fosse anche solo nella forma ipotetica di una speranza, perché interpretata come contaminazione e corruzione del pensiero, resa e complicità col «cattivo presente», limite e accecamento.
Una «posizione intellettuale», dunque: separarsi dagli altri per poter guardare lontano. Emigrare interiormente per poter vedere chiaro («tra tanti ciechi e monocoli siamo condannati a vedere; tra tanti illusi dobbiamo esser consci di tutta un'esperienza storica e attuale»).
E infatti il quadro che potrà tracciare sulla scorta di quella secessione mentale, di quel programmatico rifiuto delle «illusioni», sarà lucidissimo nella sua impietosa assenza di prospettive credibili nel presente («I partiti di masse si sono dimostrati inferiori alle loro funzioni. Gli uomini politici sono stati tutti liquidati»). Cosicché la «scelta dell'esilio» - questa apodemia, per dirla col termine socratico, questa «uscita dal demos» per trovarsi monos mono, da solo a solo, in radicale solitudine - è, prima e più che un allontanamento nello spazio, uno spostamento nel tempo: l'abbandono di un momento storico perduto (il suo porsene fuori) per pensare un altrove temporale possibile. Il rifiuto di una compromissione irreparabile con un presente infetto, per poter lavorare in perfetta libertà mentale a un futuro radicalmente diverso, per poter pensare in forma autentica la «rottura».
Se il fascismo era davvero la «autobiografia della nazione», come sosteneva appunto Gobetti; se in esso si inveravano e certificavano tutte le tare storiche e i vizi innati di un paese che vive nel disprezzo della serietà e nel culto dell'unanimismo, che «crede alla collaborazione tra le classi» e «rinuncia per pigrizia alla lotta politica»; se il ministero Mussolini altro non era che la continuazione sotto altra forma della corruzione giolittiana e del trasformismo liberal-notabilare; se in sostanza in esso prendeva forma corporea il «blocco completo dell'altra Italia», allora, per «guarire» da quella malattia mortale, o anche solo per diagnosticarla, non restava che separarsi da quell'Italia e da quella nazione, proclamandosene «straniero».
Era necessario infrangere il patto di comunanza implicito nella cittadinanza col taglio netto di un'intransigenza assoluta, con l'irrevocabilità delle antitesi di stile prima che politiche: le antitesi cioè che non ammettono compromessi perché radicate in un'antropologia diversa. E che si sottraggono al calcolo di utilità, al pragmatismo falsamente realistico del male minore, scavando un fossato più profondo di qualunque frontiera.
Si direbbe che, da allora, Piero Gobetti abbia lavorato consapevolmente, testardamente, a costruire se stesso come «straniero», a forgiare, con una dura, quasi feroce disciplina, la propria nuova natura di «esule», tagliando a una a una ogni possibile via del ritorno, ogni possibile tentazione di conciliazione, ogni possibile illusione di soluzione intermedia, sordo a ogni richiamo alla prudenza, all'«aggiustamento», al «buon senso». Esasperando, al contrario, l'invocazione pedagogica del sacrificio, l'esercizio sistematico del disincanto e della testimonianza, la funzione conoscitiva dell'atto che non trova la propria ragione in un qualche risultato immediato, né la cerca, ma solo negli effetti a lunga scadenza che può generare, con la libertà assoluta che appartiene solo a chi, varcato un confine, non si aspetta nulla per sé. Solo appunto a chi, in «esilio» - e specificamente perché in esilio - al di fuori dei vincoli del cattivo presente, può rifondare un universo altro. E pensare, in forma costituente, l'alternativa.
E d'altra parte, questa coincidenza tra pensiero dell'esilio e pensiero costituente - tra dimensione estranea, «straniera», del pensare, e dimensione «sovrana» - non è così bizzarra come può sembrare. È anzi un luogo piuttosto visitato nel pensiero politico classico. Nota è infatti la funzione «costituente» del Forestiero (ateniese) nel Platone delle Leggi. E si può aggiungere che proprio nelle prime pagine della Politica Aristotele, a proposito di colui che vive al di fuori della «comunità statale» afferma che «o è un abietto o è superiore all'uomo».
Giorgio Agamben, poi, in un saggio del '98 dedicato esplicitamente alla Politica dell'esilio, lavorando soprattutto su Plotino, era giunto a concludere che l'esilio non è affatto «una relazione giuridico-politica marginale», forma debole della pena cui è lasciata una «uscita di sicurezza» nella fuga, ma, al contrario, in quanto condizione «che la vita umana riveste nello stato d'eccezione, è la figura della vita nella sua immediata e originaria relazione col potere sovrano», posta com'è nella terra di nessuno tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dall'ordinamento giuridico. Nella «soglia di indifferenza tra esterno e interno, esclusione e inclusione», più estranea di ogni «inimicizia» e insieme più intima di ogni «cittadinanza». Il che farebbe dell'esule non un «politico neutralizzato» o un «impolitico per impotenza», ma, al contrario, l'archetipo del «super-politico». Di chi, libero da ogni legame con la comunità così come si dà nel presente, può ripensarla radicalmente.

Un costante lavoro su se stesso
Si può spiegare forse così, con l'intuizione di questa potente anche se invisibile carica di sovranità intellettuale, l'interesse che Gobetti ebbe sempre per i grandi «esuli», a cominciare da Dante, presentissimo nel suo processo di formazione (splendida la pagina sul Purgatorio, in cui immagina la «tristezza vuota, il senso di infinito abbattimento» che dovettero accompagnare «l'esule» nella sua faticosa conquista del Paradiso, attraverso il sacrificio dell'ascesi nel risalire «tutta la montagna dei peccati e provare ad ognuno rimorso»).
E anche, per certi versi - ne arrischio l'ipotesi - il costante «lavoro su se stesso» che egli andò compiendo, fin dall'adolescenza, nel tentativo di tagliare i fli interiori che lo legavano alla propria famiglia, al mondo sentimentale degli affetti, nel tentativo di spegnere ogni pulsione di commozione, ogni forma di coinvolgimento sentimentale (tutti, tranne quello fondamentale con la sua compagna della vita, Ada), nella convinzione che fossero un ostacolo all'autonomia del pensiero, alla chiarezza dello sguardo.
«Bisogna che io sia rude - scriverà ad Ada, a commento della morte, drammatica, di uno zio assai amato nell'infanzia - che mi sforzi di non avere affetti di sorta. Sotto questa costruzione di impassibilità serpe in me un'infinita pietà per tutto ciò che è anonimo, per tutto ciò che è martirio incosciente di personalità, per ciò che non è riuscito. Credo che Dante avesse questi brividi quando pensava il vestibolo dell'inferno. Ma tu capisci che questa commozione, che è come la mia antitesi non è più per i singoli, ma è come un tono sentimentale, più o meno giustificato della mia visione del mondo».
Come che sia, certo è che si deve a quella sua interiore estraneità da tutti i «sensi comuni» del suo tempo - alla sua non compromissione con la dimensione pratica della politica a lui contemporanea - se la sua voce fu tra le poche, pochissime, a superare il confine di quella terribile «crisi italiana» che fu l'origine del fascismo, e a raggiungere una nuova generazione di ribelli. Se Gobetti, dal suo esilio interiore, riuscì a parlare a un'altra Italia, anch'essa straniera a quella che aveva occupato plebiscitariamente la penisola negli anni del regime, e per certi versi, ancor oggi, a noi.

il manifesto, 18 ottobre 2007

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