7.7.13

Giuseppe Marotta e lo stereotipo napoletano (di Luca Scarlini)

Giuseppe Marotta (1902-1963) negli annali della letteratura italiana compare più spesso nelle vesti di opinionista, per le sue numerose rubriche giornalistiche, che come scrittore. Memorabili in questo
senso le polemiche cinematografiche con Pasolini, che era per molti aspetti suo bersaglio polemico
favorito. Per il resto il titolo capitale della sua produzione, L’oro di Napoli (1947), reso famoso in tutto il mondo dal film omonimo di Vittorio De Sica, indica come evidente una linea narrativa che molti hanno voluto vedere solo quale bozzettismo quasi ottocentesco, laddove l’umorismo stemperava realtà crude in una sequenza di aggraziate figurette da presepio.
Avagliano ora rimanda in libreria San Gennaro non dice mai di no (prefazione di Michele Prisco), uscito originariamente nel 1948, in cui la situazione si propone esattamente in questi termini. Si tratta, infatti, di una serie di pagine nate nel corso di un lungo soggiorno partenopeo nel 1947, dopo che da molti anni l’autore risiedeva a Milano.
Gli anni erano quelli, terribili, del dopoguerra stentato e faticoso, della borsa nera e delle «segnorine», che alimentano le risentite allegorie barocche de La pelle di Curzio Malaparte (1949), capolavoro romanzesco, strepitosa macchina simbolica, straordinariamente sgradito al mondo intellettuale napoletano. Qui invece, come recita il titolo, che tira in ballo il santo patrono, che ogni anno o quasi ripropone la sua miracolosa performance in cattedrale, il racconto stempera tutto nelle tinte all’acquarello.
Per questo il contrabbando diviene soprattutto occasione mancata per pittori di città, che per il momento non hanno ancora saputo apprezzare lo strepitoso nuovo repertorio di immaginarie tavolozze fornite dalle innumerevoli bancarelle. Un alone mitico contorna Giuseppe Navarra, detto «il re di Poggioreale», che dispensa beneficienze ai poveri e si reca a recuperare il tesoro di San Gennaro, custodito in Vaticano, di cui si pone come difensore. L’ossessione napoletana per la retorica è protagonista di Porzio, racconto in cui si discetta del talento oratorio di un celebre avvocato, che deve difendere un cliente accusato di grave reato.
Il risultato di questa scorribanda, che passa dai bassi e dai vicoli scuri, approda poi al sole meridiano di Amalfi e a una Capri non troppo turistica, in cui si raccomanda di non scegliere a propria guida Edwin Cerio e Axel Münthe, ma di lasciarsi andare all’estro del momento. Ogni stereotipo partenopeo viene passato in rassegna, a partire dalla pizza «dolce e amara, lunga e breve, antica e nuova, sicura e imprevedibile», per passare alle carrozzelle e ai panni che sbattono al vento dei palazzi spagnoli segnati dalle crepe. Il bozzetto quindi è la misura, spesso felice, del narrare, che talvolta prende un colore più aspro, come nella miniatura maligna del Khedivè, storia di un uomo mediocre che acquista e vende una canzonettista per vigliaccheria e rimane schiacciato dal ricordo di quel gesto.

“alias” 21 maggio 2012

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