14.8.13

1929, la detective-story all'italiana. Un giallo quasi nero (Annamaria Lamarra)

«I personaggi sono tratteggiati molto rozzamente, i motivi delle azioni sono grossolani, le vicende goffe, e tutto così inverosimile, specialmente la concatenazione dei fatti; si lascia troppo al caso, la volgarità la fa da padrona». 1930. A lanciare questo j'accuse è Bertold Brecht; l'oggetto incriminato è la detective story che negli anni 30 esplode come una delle forme più vistose della novella letteratura di massa. Poco noto agli appassionati di Poirot e di Miss Marple, in questi stessi anni, anche in Italia, il giallo fa la sua parte suscitando tra consensi e dissensi l'attenzione di personaggi t di tutto rispetto, da Gramsci a cui piace, a Flora a cui invece non piace affatto.
Sulla nascita del giallo italiano, sui suoi eroi, così diversi dall'ispettore Maigret e da Sherlock Holmes, hanno discusso per tre giorni giallofili di tutto il mondo, critici, autori e lettori, riuniti in un convegno a Trieste, città diventata da qualche anno insieme con Cattolica la patria adottiva del giallo.
Messi da parte i mostri sacri della letteratura anglosassone americana, questa volta alla ribalta sono stati soprattutto loro, i vari De Vincenzo e Richard, i protagonisti dei romanzi di De Angelis e D'Errico, i più noti rappresentanti della pri¬ma generazione di giallisti italiani.
«Gli anni Trenta infatti, — ha spiegato Giuseppe Petronio, autore di Il punto sul romanzo poliziesco da poco pubblicato nelle edizioni Laterza — segnarono l'esordio di due scuole all'interno del genere classico: quella psicologica alla Simenon, e quella d'azione alla Chandler, in sintonia la prima con la realtà francese, la seconda con la società americana del tempo con la sua prepotente letteratura realistica, con quel , filone di dime-stories, di letteratura popolare da quattro soldi, da cui Hammett e Chandler provenivano. Sulla scia di queste due scuole nascono il giallo tedesco e quello italiano. In Germania negli ultimi anni Trenta il giallo fu abbastanza diffuso, in polemica con quello anglosassone e in versione nazionalsocialista, finché nel 1941 non fu proibita la vendita».
«Il giallo italiano — ha aggiunto Gianni Canova dell'Università di Milano — nasce nel '29 quando Mondadori dà inizio alla serie detta gialla dal colore della copertina». Mondadori, è noto, aveva già inaugurato altri colori un po' meno fortunati: l'azzurro per la narrativa, il verde per la storia romanzata, il bianco per il fantastico. «La serie gialla — racconta ancora — ha una nascita artificiale, da laboratorio; viene imposta quando, dopo una serie di indagini tra ì lettori, si scopre che la detective story inglese, americana e francese è popolarissima tra gli italiani. Gli eroi stranieri però non vanno bene alla censura fascista, che pretende almeno il 20% di autori nostrani. E così i vari Varaldo, De Stefano, Spagnol e D'Errico vengono per così dire riciclati. Il risultato è una specie di pastiche pieno di prestiti da altri generi, tutto proiettato su uno sfondo agreste e idilliaco in perfetto ossequio alla geografia fascista. Lo spazio del giallo italiano è quello di un mondo oleografico, provinciale, claustrofobico. Per gli italiani, spiega Canova, è difficile inventare il prototipo del detective che è del tutto assente dalla scena nazionale: come si fa a inventarsene uno quando si vive in un paese in cui vige la sana abitudine di mettere in galera i sospettati? Che il giallo nasca in democrazia è del resto un'opinione diffusa tra gli studiosi. Persino la morte finisce per assumere connotazioni del tutto diverse, qualche volta sparisce addirittura. La tendenza prevalente è verso la costruzione di un universo assolutamente incruento. Nella Crociera del Colorado di De Stefani, per esempio, alla fine c'è solo un suicidio per amore. La stessa rimozione la troviamo nelle Scarpette rosse dove l'ordine infranto non viene ripristinato secondo quella che per W. Benjamin è la dinamica del giallo borghese, per il semplice fatto che non è mai stato violato. Spesso poi al delitto viene preferito il furto che tutto sommato è il crimine peggiore, giacché, scrisse Varaldi «le persone passano ma le cose restano, e la società si poggia sulle cose».
Il fantasma del delitto lo aggira con un sentimentalismo patetico e rassicurante anche E. D'Errico, il creatore del commissario Richard della Sureté di Parigi, le cui inchieste si svolgono tutte nella capitale o nella provincia francese in omaggio alla norma fascista che vuole il colpevole non italiano.
Antonio De Angelis è l'autore di una sorte di manifesto del giallo italiano: «l'essenziale per me è creare un clima, far vivere al lettore il dramma. E questo lo si può ottenere anche facendo svolgere la vicenda in Italia con creature italiane. Dopo tutto questa è pur sempre la terra dei Borgia, di Ezzelino da Romano, dei papi, della regina Giovanna. Se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi ha da essere romanzo italiano... Metterci proprio noi a scrivere storie poliziesche che si svolgono su suolo straniero, non potrà mai costituire esercitazione artistica nonché arte».
De Angelis non è il solo a preoccuparsi delle fortune possibili di un giallo all'italiana, racconta Renzo Cremante. I commenti per tutto il decennio fioccano da ogni parte. Piovene sull' “Ambrosiano” del 6 agosto del 1932 scrive che il rapporto con il macabro, rivitalizzato dalla psicologia è l'elemento più interessante dell'arte moderna; il romanzo giallo con la sua indiscriminata vicinanza di normale e anormale, di patologi¬co e di pauroso, è l'espressione letteraria delle nuove tendenze.
Per Pavolini (“Scenario” settembre 1935) il giallo è la riscoperta della dimensione simbolica, la rappresentazione dell'inconscio collettivo. Vinicio Paladini invece s'interroga sulla convivenza formale della analisi frazionale — la detection — con il gioco del mistero. Un interrogativo riproposto anni più tardi da Sciascia, per il quale, a proposito della doppia natura del giallo, andrebbe interrogato il dottor Freud.


l’Unità, 2 giugno 1985

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