14.8.13

La fortuna di Oscar Wilde nell'Italia del Novecento (Attilio Bertolucci)

Un brivido per Dorian Gray
Non voglio, né posso tentare una sia pur breve storia della fortuna di Wilde in Italia, che nel suo primo tempo avrà pur toccato D'Annunzio e Gozzano. Quest'ultimo in versi memorabili parla di Arturo e Federico; ma certo anche Oscar dev'essere entrato nella bibliotechina scelta e un po' nevrotica del suo Totò Merumeni.
L'Universale Sonzogno, coi suoi piccoli volumi a buon mercato, infilabili, senza gonfiarlo troppo, nel possente Georges dal latino in italiano, offrì subito, o quasi, ai giovani di casa nostra innamorati di carte e di stampe al limiti del proibito, versioni non so quanto precise ed eleganti di Wilde. (Comunque un evviva a quei traduttori intrepidi, probabilmente pagati malissimo: uno, Valsecchi, che rese niente male per il benemerito editore milanese l'impalpabile musica di Verlaine, finì suicida in una roggia lombarda).
Ricordo La casa dei melograni, Il ventaglio di Lady Windermere e il De Profundis  con giunta di  Ballata del Carcere di Reading.
Che ancora, dico il De Profundis, sfamava i liceali fra il dopoguerra smorente e il fascismo torpidamente «triumphans». Veniva avanti l'abominevole onda di riflusso, con richiamo all'ordine estetico e morale, dubbia vittoria del soffocante novecentismo figurativo e contemporaneo diffondersi del cosiddetto basso crocianesimo, nemico morigerato di tutti gli ismi, ma soprattutto dell'estetismo e del decadentismo, apportatori di peste nella sana, ben portante, florida Italia.
A un certo punto le donne italiane non floride si meritarono il marchio infamante di donne-crisi. Ma non era un archetipo di esse Salomé di Wilde-Beardsley? Bella forza: i due rinomati omosessuali non potevano sopportare che androgini, efebi e simili.
Qui si va a finire nella storia del costume, che non guasta trattandosi di un tale maestro di vita, naturalmente « deprecabile e perciò giustamente condannato e morto in esilio ». Verso il '30 Oscar Wilde era già, da noi, più che combattuto obliato. L'intellighentsia che, se mai, si nutriva di Gide, lo avrà incontrato più che altro, ridotto a personaggio pittoresco, nella limpida prosa del francese rievocante avventure nordafricane... Ma chi leggeva ormai Il Ritratto di Dorian Gray, che in una vecchia edizione popolare era stato mutato in Doriano Gray dipinto?» Con forse un abile gioco di ambiguità voluto dall'editore, fra il giovane Gray dipinto nel quadro e, perché no, nelle labbra, sulle guance, magari sulle palpebre. Da cui brividi dell'allettato lettore.
A proposito. Quando Maria Schneider, qualche anno fa, scandalizzò ed eccito gli italiani (più eccitati che scandalizzati) recandosi a dormire all'ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma, con una ricoverata giovine inglese dalla vita di giunco, il nostro Goffredo Parise scrisse un pezzo divertente sostenendo che la detta inglese, come sesso, fosse da catalogarsi con Dorian Gray e altri eroi di tale fatta. Fra i quali egli citava anche un Foster che io proprio non conosco, e vorrei tanto che Parise mi indicasse il romanzo, o racconto in cui l'ha incontrato, così che io possa arricchire il mio carente repertorio.
La raccolta di lettere di Oscar Wilde che Masolino D'Amico ha curato qualche tempo fa per Einaudi, ci dice che il vento sta cambiando. Non penso che il fatto sia attribuibile soltanto alla voga del liberty, stile del resto bellissimo, degno nei suoi capricci migliori del gotico più fiammeggiante, del manierismo, per dirla con Longhi alludente alla loro mirabile calligrafia, più cancellieresco.
Wilde è un eroe (ha pagato di persona) di quel decadentismo che, si voglia o no, è uno dei momenti liberatori della cultura europea, e per questo lo condannarono i tiranni del nostro secolo, i piccoli, forse inconsapevoli maestri di scuola, anche assurti a compilatori di storie della letteratura. Ma, specie nelle due scintillanti commedie, in certi dialoghi di Intenzioni (miniera di riflessioni di estetica e di illuminazioni critiche) Wilde raggiunge una sorta di grazia che supera le cifre e le sigle del decandentismo e del liberty: i vecchi, mai abbastanza rimpianti trattatisti l'avrebbero chiamata, onorandola, attica.

Avete visto le sue fotografie. Per quanto si industriasse con sarti egregi e garofani verdi all'occhiello, era piuttosto brutto e goffo della persona. Ebbe il suo compenso nell'agilissima niente, nella scrittura perfetta. E, ricordiamolo, anche in una grande umanità. Si legga, nell'epistolario, la coraggiosa lettera alle autorità carcerarie inglesi perché non si infierisse, come si faceva, e lui prigioniero era buon testimone, sui bambini criminalizzati, sofferenti nelle celle umide mentre i bei coetanei ruzzavano per i prati vittoriani con poney non meno di essi lungocriniti, e palline e mazze da «criquet».

"la Repubblica", 27 agosto 1978

Nessun commento:

Posta un commento