28.8.13

Di nostalgia si vive (di Sarantis Thanopulos)

Della nostalgia si dice generalmente male. Ricordo la scena di un film con Macario (Come persi la guerra, credo) ove il comico dichiara: “Brutta malattia la nostalgia. Ho conosciuto a Cuneo uno che ne è morto”. Ma io ho l’impressione che invece, il più delle volte, la nostalgia aiuti a vivere.  
L’articolo qui postato efficacemente riflette e comunica ricerche recenti di psicologia sociale sull’argomento. A me ha riportato alla memoria letture importanti, seppure lontane, nella Gela degli anni 70, soprattutto di notte, confermandomi in una convinzione che ormai fa parte delle mie radici: l’intuizione straordinaria e anticipatrice dei processi che si compiono dentro le anime che possedeva Giacomo Leopardi. 
Invito a rileggere (o a leggere) lo Zibaldone. (S.L.L.)
Nel 1999 uno psicologo sociale di origine greca, Constantine Sedikides, si era da poco trasferito dall’Università del North Carolina all’Università di Southampton, in Inghilterra. Come ha raccontato recentemente al N.Y.Times, qualche volta, durante la settimana, era colpito improvvisamente da attacchi di nostalgia per la sua vita negli Stati Uniti e per i suoi vecchi amici. Uno psicologo clinico del suo dipartimento, con cui gli era capitato di parlarne, gli aveva diagnosticato uno stato depressivo. Solitamente la nostalgia è considerata come patologia, associata alla melanconia e alla depressione. Sedikides, tuttavia, non si sentiva depresso.
La nostalgia, ha dichiarato, gli fa sentire che la sua vita ha radici e continuità. Ciò fornisce una trama alla sua esistenza e gli dà la forza di andare avanti. Rifiutando di vedere nella nostalgia un sentimento negativo, ha impegnato il suo laboratorio di psicologia sociale in una ricerca decennale che ha coinvolto gradualmente ricercatori di tutto il mondo.
La ricerca ha mostrato che la nostalgia controbilancia la solitudine, la noia e l’ansia. Le persone si sentono più vicine e più contente quando condividono ricordi nostalgici. Clay Routledge dell’Universita del North Dakota dice: «La nostalgia ha un importante funzione esistenziale: porta alla nostra mente esperienze predilette che ci assicurano che siamo persone di valore che hanno vite significative».
Sono affermazioni quasi ovvie ma nondimeno importanti perché in controtendenza rispetto alla desoggettivazione dell’esperienza umana che regna indisturbata nel campo della psichiatria, sempre più dominata dalla psicofarmacologia (si può scommettere che in qualche laboratorio già stanno sperimentando un farmaco che curi la nostalgia).
Il dato più interessante riportato da Routledge è il fatto che le persone capaci di nostalgia riescono a gestire meglio la paura della morte. Non conosciamo la nostra morte che in modo indiretto (come presentimento) tramite le perdite che subiamo: se ne va un oggetto e/o un contesto amato e insieme una parte della nostra esperienza, una parte di noi. La nostalgia non è, tuttavia, lo strumento per curare la perdita ma la prova che la cura funziona, che ha fatto effetto. Dietro la nostalgia c’è il lavoro del lutto: l’assunzione interna dell’oggetto perduto e della relazione con esso che ci consente di farlo rivivere in noi e di ritrovarlo, al tempo stesso, nel mondo esterno in oggetti nuovi. Non è la ripetizione del medesimo ma l’incontro del consueto con l’inconsueto, la trasformazione del paesaggio interno in paesaggio esterno e viceversa. Il ricordo struggente di un tempo passato ci dice che si tratta di un tempo (di una storia) vivente che continua a essere in scena dentro di noi. La cosa perduta è diventata gusto, sentimento del vivere che più è radicato nel passato più si appropria del futuro. Interiorizzando le situazioni vissute intensamente, interiorizziamo anche la storia che le precede e le attraversa e il nostro sentire diventa parte della molteplicità dell’esperienza umana che trascende la nostra morte.


“il manifesto”, 20 luglio 2013

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