Scritta come su due tavoli, fra il romanzo e l'autobiografia fittizia, a lungo chiusa nel faldone con la materia prima dei Souvenirs d'égotisme, infine oscurata dalle grandi imprese narrative (Il Rosso e il Nero, 1830; Lucien Leuwen, 1834; La certosa di Parma, 1839) che in quegli anni eternavano Henri Beyle con lo pseudonimo di Stendhal, la Vita di Henry Brulard (Garzanti «I grandi libri) torna nella accurata versione di Nunzia Palmieri e con una smagliante introduzione di Mario Lavagetto, la quale si affianca, per acume e chiarezza espositiva, alle pagine ormai classiche di Trompeo, Foscolo-Benedetto, Macchia, Del Litto e, ovviamente, di Jean Starobinski.
Stesa a cavallo del 1835-36 ( retrocessa al '32 da un incipit che la avvia a San Pietro in Montorio, sul Gianicolo, la mattina d'una memorabile ottobrata) la Vita rappresenta il bilancio di un borghese cinquantenne, esule e scrittore semiclandestino, che evita la presa diretta del racconto di formazione e sceglie piuttosto la retrospettiva del romanzo familiare. Nella simbiosi di travestimento e impudicizia, il modello è rintracciabile nelle Confessioni di Rousseau, tuttavia dedotto in uno stile che ne reprime l'enfasi e comunica per scatti e soprassalti, anzi per stenogrammi che aboliscono il connettivo e fissano soltanto l'essenziale. In gioco, ancora una volta, è quanto lo stesso Stendhal definisce il «debordante ammasso di io e di me», l'ingombro irremovibile dell'autobiografia, alla lettera la «cosa indecente»: vale a dire, qui, l'infanzia nell'odiata Grenoble, le figure parentali (un padre gretto e reazionario, la madre invece amata di un amore che lambisce il carnale), i postumi della Grande Rivoluzione, il mito di Napoleone (scriverà, malgrado un cocente disamore: «Rispetto un solo uomo: NAPOLEONE»), infine i luoghi/libri/passioni di un'attitudine erratica che vive la superficie dell'esistenza come profondità, aderendo ai dati sensibili e sospettando qualunque trascendenza non coincida con la promise de bonheur, cioè l'emozione estetica, la ricompensa già iscritta nelle molecole del cristallo amoroso o nelle forme dell'opera d'arte: fossero un volto di donna, l'incarnato di un Raffaello, un'aria dell'adorato Cimarosa. Così conclude Lavagetto: «Lo pseudonimo diventa un espediente per dire l'indicibile (...) e soprattutto per dire 'io'. Qualche anno dopo Edgar Allan Poe parlerà di un libro impossibile (...) che nessuno potrebbe scrivere anche se ne avesse il coraggio, My Heart Laid Bare, Il mio cuore messo a nudo. (...) Henry Brulard consente ad Henri Beyle di avvicinarsi a quel libro impossibile (...) lasciando che sia lui ad essere io e a mettere a nudo, episodicamente, il suo cuore». Del resto Brulard è proprio un nome-scrigno, tiene dentro di sé l'antico batticuore, l'ardore etimologico di ogni adolescenza.
“alias”, 7 febbraio 2004
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