14.9.13

Il sesso del cervello. A colloquio con Rita Levi-Montalcini (Laura Lilli)

ROMA —  Telefonate, telefonate, telefonate. Mai sentite tante telefonate, a Noi voi loro, donna (terza rete radiofonica, tutte le mattine alle dieci tranne il sabato e la domenica) come quel venerdì. Telefonate di entusiasmo: così numerose da costituire in sé una notizia. « Fatecene sentire ancora tante, di donne come questa », dicevano; «così lucide, così scientifiche, così poco bla-bla-bla, così profondamente "femministe"».
Nell'occhio di questo tifone telefonico sedeva, al (piccolo tavolo rotondo dello studio Rai - di fronte ad Anna Maria Mori che l'intervistava, una grande scienziata: Rita Levi-Montalcini, neurobiologia («la neurobiologia include vari rami della scienza che si occupano dei sistema nervoso, dall'anatomia alla psicologia»), torinese, 70 anni, cittadina americana oltre olle italiana (prima perseguitata dalle leggi razziali è poi approdata alla Washington University di Saint (Louis nel Missouri, dove ha insegnato e fatto ricerche dal '47 al '77). L'elenco dei suoi premi e riconoscimenti scientifici è lungo due pagine.
A Rita Levi-Montalcini si deve, secondo l'Enciclopedia della Scienza e della Tecnica Mondadori, «la scoperta del fattore di accrescimento della fibra nervosa (Nerve Growth Factor, Ngf) e dell'immunosimpatectomia».
La scienziata ebbe un padre «terribile», che in primo tempo la obbligò a frequentare un liceo femminile da cui emerse « disarmata di fronte al futuro e profondamente infelice ». Riuscì a superarne le resistenze e ad iscriversi al liceo, poi all' università (Medicina) dove strinse un'amicizia « per la vita » con i due futuri celebri Salvador E. Luria e Renato Dulbecco, e «dove torreggiava il professor Giuseppe Levi » (il padre di Natalia Gtazburg, passato alla storia letteraria per via di Lessico familiare, n.d.r.), che avrebbe avuto grande influenza nella sua vita scientifica e che, da maestro, sarebbe diventato «suo primo e unico assistente nel laboratorio di neuroembriologia sperimentale» allestito, dopo le leggi razziali, nella sua camera da letto.

La donna diversa
Lo stesso professor Levi, quando, dopo il '43, la Levi-Montalcini si rifugiò, con la famiglia, sotto falso nome, a Firenze, rischiò di farla scoprire. «Arrivò inaspettato dal Nord e si annunciò con voce tonante (la voce che aveva fatto tremare legioni di studenti) alla padrona di casa, che era del tutto ignara della nostra vera identità: "Prof. Giuseppe Levi, ah, no, dimenticavo, professor Giuseppe Lovisato, mi chiami la Rita". Ebbe l'avvertenza, insperabile in lui che disprezzava ogni norma di sicurezza, di chiamarmi per nome, non ricordando esattamente come avessi sostituito il Levi. Da quel giorno tuttavia la nostra padrona ebbe qualche sospetto sulla vera identità nostra e dei molti amici che venivano a trovarci, dichiarandosi profughi del Sud, malgrado il loro inconfondibile accento piemontese».
Poi l'America, e gli studi severi, mai disgiunti da drastiche prese di posizione «femministe» pronunciate in conferenze a movimenti femminili ma anche nelle algide sale di congressi scientifici.
Ma non è raccontando la sua biografia che, quel giorno, la scienziata ha suscitato gli entusiasmi delle ascoltatrici. E' perché ha parlato dell'intelligenza femmimile: «diversa», sì, ma non «inferiore» a quella maschile. Offrendo, forse per la prima volta, un contributo concreto e scientifico alla definizione di quella «diversità» che di recente i movimenti femministi hanno accanitamente rivendicato, pur non riuscendo a definirla che come «altro».
La tentazione di mettere, metaforicamente, il dito, su questo «altro», era troppo forte perché rinunciassimo a cercare Rita Levi-Mcntalcini e a chiederle se non aveva voglia di parlarcene un po' più dettagliatamente. La troviamo al Cnr, nel Laboratorio di Biologia Cellulare che ha diretto dal '69 («ora ho passato i limiti d'età e continuo come ricercatrice»).
Sulle pareti bianche dello studio, un grande poster di Martin Luther King con la dicitura «Se un uomo non ha trovato qualcosa per cui morire non è degno di vivere». La scienziata sorride, con dolcezza. Ha calze nere traforate, un vestito nero senza maniche, un giro di perle, una spilla d'oro, un orologino d'oro, un braccialetto d'oro. Luther King, una spettacolosa carriera scientifica, un sorriso gentile e un'eleganza d'altri tempi: se cercavamo «il nuovo tipo di donna» l'abbiamo qui, sotto gli occhi.
«Ho tre passioni», dice. «Nell'ordine: l'Ngf, la questione femminile e il potenziamento della neurobiologia in Italia ».
Parliamo subito del cervello lemmi ni le, vuole? Per tanto tempo si è insistito sul fatto che pesa meno di quello maschile...
« Questo è un argomento cruciale, sempre deformato. L'intero corpo della donna pesa molto meno di quello dell'uomo, e il peso del cervello è in proporzione. Tutto qui. Anzi, relativamente, il cervello della donna pesa un poco di più. Ma questa istoria del peso, d'altronde, non prova niente. Anatole France aveva un cervello che pesava pochissimo. E a tutt'oggi sappiamo così poco sui cervello che non siamo in grado di dire quali circuiti siano portatori di una banalità e quali di una scoperta geniale ».
La donna non è dunque meno intelligente dell'uomo?
«No. Se fino ad oggi ha prodotto meno dell'uomo nel campo dell'attività mentale e creativa — soprattutto nella musica, nella filosofia e nella scienza — questo lo attribuisco, d’accordo con Simone de Beauvoir all'oppressione dell'ambiente, della storia e della cultura. E infatti oggi, che l'oppressione sta un poco allentandosi, il numero delle donne scienziate — dai premi Nobel alle giovani ricercatrici — sta vertiginosamente aumentando. Questo però non deve bendarci gli occhi e farci vedere la donna identica all'uomo: non lo è».
Esistono in natura dei «caratteri femminili», non inventati dalla cultura?
«Sì: una maggiore capacità intuitiva, una minore aggressività... in italiano questo termine non ha la valenza positiva che ha in inglese: diciamo che la donna è meno "motivata". Poi, su questa minore "motivazione", la società istruisce la trappola del "ruolo". E certo, l'homo sapiens, nei suoi tre milioni di anni-vita, ha selezionato, premiando la donna che accettava il ruolo e penalizzando quella che lo rifiutava».

Neonate e neonati

Il cervello ha dunque un sesso?
« Sì, possiamo dire così ».
E questa «configurazione sessuale» del cervello è precedente all'esposizione del bambino all’influenza dell'ambiente?
«Sì. Esperimenti sui topi e sullo scimmie (e tutto ci porta a credere che i risultati possano essere estesi all'uomo) dimostrano che esistono, per il cervello, periodi "critici": quello immediatamente prenatale e quello immediatamente post-natale (tre-quattro settimane: prima comunque che alla bambina sia data la prima bambola) in cui la circolazione di ormoni maschili o femminili nel neonato o nella neonata modificano irreversibilmente alcuni circuiti cerebrali (quelli dei a parte più "arcaica" del cervello, preposta al comportamento). Si tratta di una trasformazione morfologica irreversibile. Più tardi, nella vita dell'adulto, gli stessi ormoni opereranno, sì: ma con effetto di potenziamento. Dunque, reversibile».
Quando si è arrivati a queste scoperte?
«Dei periodi "critici", "vulnerabili", aveva già parlato Lorenz a proposito del famoso "imprinting'' negli animali appena nati. Quello che si è studiato più di recente è il rapporto tra gli ormoni (sessuali e non sessuali: in questo caso ci interessano gli ormoni sessuali, ma non è detto cine in assoluto siano i più importanti) e i circuiti cerebrali. Si è visto che tutte le cellule hanno del "recettori" che legano gli ormoni alla membrana della cellula, appunto. E si è visto anche che, nei momenti "critici", due cervelli probabilmente identici hanno differente recettività a seconda che l'ormone somministrato sia maschile o femminile ».
Nel caso del neonato possiamo dire «autosomministrato»?
«Sì: perché l'ormone è presente, circola. Se invece si interviene "dal di fuori", si possono cambiare le cose. Se a una femmina appena nata si dà del testosterone (ormone maschile) la si trasforma, dal punto di vista comportamentale, in maschio. Ora, il punto cruciale è che nel cervello del neonato maschio, l'ormone maschile penetra oltre la membrana della cellula-bersaglio; nel neonato-femmina, invece, l'ormone femminile non ce la fa a raggiungere la cellula-bersaglio: una proteina lo blocca prima».
E poiché il cervello maschile svilupperà un'aggressività che al cervello femminile sarà inibita, potremmo parlare di una sorta di « congiura naturale » contro la donna, che si aggiunge a quella culturale?
«In un certo senso potremmo, ma solo se guardiamo alle cose dal punto di vista del primato — maschile — dell'aggressività. Diciamo che la donna, prima di essere socialmente repressa, lo è naturalmente. E il colmo dell'ironia è che poi l'ormone maschile — che invece nulla ferma nel suo viaggio verso la cellula — una volta penetrato oltre la membrana, raggiunge il nucleo sotto forma di estradiolo, cioè di ormone femminile... ».
Dunque l'ormone femminile dopo tutto è più forte...
«Forse si può dire così. E' "più forte", ma per il cervello femminile è tardi. Nel cervello femminile, l'estraidiolo non ce la fa a raggiungere la membrana della cellula».
Tutto ciò non le pare frustrante, per le donne?
«Nient'affatto. Insisto che diversità non significa inferiorità. Le donne — e il loro cervello — costituiscono un immenso serbatoio di potenzialità non sfruttate. Quello che occorre è che la società, invece di penalizzare la donna, ne conosca esigenze e differenze: ne tenga conto e se ne serva. Sarà la prima a tirarne beneficio».

Postilla 
Il ritaglio, ripreso da “la Repubblica” è senza indicazione di data, ma la recensione nel retro del film di Monicelli Temporale Rosy (Tullio Kezich) permette di collocare l’articolo tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. (S.L.L.)

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