ROMA — Telefonate, telefonate, telefonate. Mai
sentite tante telefonate, a Noi voi loro,
donna (terza rete radiofonica, tutte le mattine alle dieci tranne il sabato
e la domenica) come quel venerdì. Telefonate di entusiasmo: così numerose da
costituire in sé una notizia. « Fatecene sentire ancora tante, di donne come
questa », dicevano; «così lucide, così scientifiche, così poco bla-bla-bla,
così profondamente "femministe"».
Nell'occhio di questo tifone telefonico
sedeva, al (piccolo tavolo rotondo dello studio Rai - di fronte ad Anna Maria
Mori che l'intervistava, una grande scienziata: Rita Levi-Montalcini,
neurobiologia («la neurobiologia include vari rami della scienza che si
occupano dei sistema nervoso, dall'anatomia alla psicologia»), torinese, 70
anni, cittadina americana oltre olle italiana (prima perseguitata dalle leggi
razziali è poi approdata alla Washington University di Saint (Louis nel Missouri,
dove ha insegnato e fatto ricerche dal '47 al '77). L'elenco dei suoi premi e riconoscimenti
scientifici è lungo due pagine.
A Rita Levi-Montalcini si deve,
secondo l'Enciclopedia della Scienza e
della Tecnica Mondadori, «la scoperta del fattore di accrescimento della
fibra nervosa (Nerve Growth Factor, Ngf) e dell'immunosimpatectomia».
La scienziata ebbe un padre «terribile», che in primo tempo la obbligò a frequentare un liceo femminile da
cui emerse « disarmata di fronte al futuro e profondamente infelice ». Riuscì a
superarne le resistenze e ad iscriversi al liceo, poi all' università (Medicina)
dove strinse un'amicizia « per la vita » con i due futuri celebri Salvador E.
Luria e Renato Dulbecco, e «dove torreggiava il professor Giuseppe Levi » (il
padre di Natalia Gtazburg, passato alla storia letteraria per via di Lessico familiare, n.d.r.), che avrebbe
avuto grande influenza nella sua vita scientifica e che, da maestro, sarebbe
diventato «suo primo e unico assistente nel laboratorio di neuroembriologia
sperimentale» allestito, dopo le leggi razziali, nella sua camera da letto.
La donna diversa
Lo stesso professor Levi, quando,
dopo il '43, la Levi-Montalcini si rifugiò, con la famiglia, sotto falso nome,
a Firenze, rischiò di farla scoprire. «Arrivò inaspettato dal Nord e si annunciò
con voce tonante (la voce che aveva fatto tremare legioni di studenti) alla
padrona di casa, che era del tutto ignara della nostra vera identità:
"Prof. Giuseppe Levi, ah, no, dimenticavo, professor Giuseppe Lovisato, mi
chiami la Rita". Ebbe l'avvertenza, insperabile in lui che disprezzava
ogni norma di sicurezza, di chiamarmi per nome, non ricordando esattamente come
avessi sostituito il Levi. Da quel giorno tuttavia la nostra padrona ebbe
qualche sospetto sulla vera identità nostra e dei molti amici che venivano a
trovarci, dichiarandosi profughi del Sud, malgrado il loro inconfondibile
accento piemontese».
Poi l'America, e gli studi severi,
mai disgiunti da drastiche prese di posizione «femministe» pronunciate in
conferenze a movimenti femminili ma anche nelle algide sale di congressi
scientifici.
Ma non è raccontando la sua
biografia che, quel giorno, la scienziata ha suscitato gli entusiasmi delle ascoltatrici.
E' perché ha parlato dell'intelligenza femmimile: «diversa», sì, ma non «inferiore»
a quella maschile. Offrendo, forse per la prima volta, un contributo concreto e
scientifico alla definizione di quella «diversità» che di recente i movimenti
femministi hanno accanitamente rivendicato, pur non riuscendo a definirla che
come «altro».
La tentazione di mettere, metaforicamente,
il dito, su questo «altro», era troppo forte perché rinunciassimo a cercare
Rita Levi-Mcntalcini e a chiederle se non aveva voglia di parlarcene un po' più
dettagliatamente. La troviamo al Cnr, nel Laboratorio di Biologia Cellulare che
ha diretto dal '69 («ora ho passato i limiti d'età e continuo come ricercatrice»).
Sulle pareti bianche dello studio,
un grande poster di Martin Luther King con la dicitura «Se un uomo non ha
trovato qualcosa per cui morire non è degno di vivere». La scienziata sorride,
con dolcezza. Ha calze nere traforate, un vestito nero senza maniche, un giro
di perle, una spilla d'oro, un orologino d'oro, un braccialetto d'oro. Luther
King, una spettacolosa carriera scientifica, un sorriso gentile e un'eleganza
d'altri tempi: se cercavamo «il nuovo tipo di donna» l'abbiamo qui, sotto gli
occhi.
«Ho tre passioni», dice.
«Nell'ordine: l'Ngf, la questione femminile e il potenziamento della
neurobiologia in Italia ».
Parliamo subito del cervello lemmi ni le, vuole? Per tanto tempo si è
insistito sul fatto che pesa meno di quello maschile...
« Questo è un argomento
cruciale, sempre deformato. L'intero corpo della donna pesa molto meno di
quello dell'uomo, e il peso del cervello è in proporzione. Tutto qui. Anzi,
relativamente, il cervello della donna pesa un poco di più. Ma questa istoria
del peso, d'altronde, non prova niente. Anatole France aveva un cervello che
pesava pochissimo. E a tutt'oggi sappiamo così poco sui cervello che non siamo
in grado di dire quali circuiti siano portatori di una banalità e quali di una
scoperta geniale ».
La donna non è dunque meno intelligente dell'uomo?
«No. Se fino ad oggi ha prodotto
meno dell'uomo nel campo dell'attività mentale e creativa — soprattutto nella
musica, nella filosofia e nella scienza — questo lo attribuisco, d’accordo con
Simone de Beauvoir all'oppressione dell'ambiente, della storia e della cultura.
E infatti oggi, che l'oppressione sta un poco allentandosi, il numero delle
donne scienziate — dai premi Nobel alle giovani ricercatrici — sta
vertiginosamente aumentando. Questo però non deve bendarci gli occhi e farci vedere
la donna identica all'uomo: non lo è».
Esistono in natura dei «caratteri femminili», non inventati dalla
cultura?
«Sì: una maggiore capacità intuitiva,
una minore aggressività... in italiano questo termine non ha la valenza
positiva che ha in inglese: diciamo che la donna è meno "motivata". Poi,
su questa minore "motivazione", la società istruisce la trappola del
"ruolo". E certo, l'homo sapiens,
nei suoi tre milioni di anni-vita, ha selezionato, premiando la donna che accettava
il ruolo e penalizzando quella che lo rifiutava».
Neonate e neonati
Il cervello ha dunque un sesso?
« Sì, possiamo dire così ».
E questa «configurazione sessuale» del cervello è precedente
all'esposizione del bambino all’influenza dell'ambiente?
«Sì. Esperimenti sui topi e
sullo scimmie (e tutto ci porta a credere che i risultati possano essere estesi
all'uomo) dimostrano che esistono, per il cervello, periodi "critici":
quello immediatamente prenatale e quello immediatamente post-natale
(tre-quattro settimane: prima comunque che alla bambina sia data la prima
bambola) in cui la circolazione di ormoni maschili o femminili nel neonato o
nella neonata modificano irreversibilmente alcuni circuiti cerebrali (quelli
dei a parte più "arcaica" del cervello, preposta al comportamento).
Si tratta di una trasformazione morfologica irreversibile. Più tardi, nella
vita dell'adulto, gli stessi ormoni opereranno, sì: ma con effetto di
potenziamento. Dunque, reversibile».
Quando si è arrivati a queste scoperte?
«Dei periodi
"critici", "vulnerabili", aveva già parlato Lorenz a
proposito del famoso "imprinting'' negli animali appena nati. Quello che
si è studiato più di recente è il rapporto tra gli ormoni (sessuali e non
sessuali: in questo caso ci interessano gli ormoni sessuali, ma non è detto
cine in assoluto siano i più importanti) e i circuiti cerebrali. Si è visto che
tutte le cellule hanno del "recettori" che legano gli ormoni alla
membrana della cellula, appunto. E si è visto anche che, nei momenti
"critici", due cervelli probabilmente identici hanno differente
recettività a seconda che l'ormone somministrato sia maschile o femminile ».
Nel caso del neonato possiamo dire «autosomministrato»?
«Sì: perché l'ormone è presente,
circola. Se invece si interviene "dal di fuori", si possono cambiare
le cose. Se a una femmina appena nata si dà del testosterone (ormone maschile)
la si trasforma, dal punto di vista comportamentale, in maschio. Ora, il punto
cruciale è che nel cervello del neonato maschio, l'ormone maschile penetra
oltre la membrana della cellula-bersaglio; nel neonato-femmina, invece,
l'ormone femminile non ce la fa a raggiungere la cellula-bersaglio: una
proteina lo blocca prima».
E poiché il cervello maschile svilupperà un'aggressività che al
cervello femminile sarà inibita, potremmo parlare di una sorta di « congiura
naturale » contro la donna, che si aggiunge a quella culturale?
«In un certo senso potremmo, ma
solo se guardiamo alle cose dal punto di vista del primato — maschile —
dell'aggressività. Diciamo che la donna, prima di essere socialmente repressa,
lo è naturalmente. E il colmo dell'ironia è che poi l'ormone maschile — che
invece nulla ferma nel suo viaggio verso la cellula — una volta penetrato oltre
la membrana, raggiunge il nucleo sotto forma di estradiolo, cioè di ormone
femminile... ».
Dunque l'ormone femminile dopo tutto è più forte...
«Forse si può dire così. E'
"più forte", ma per il cervello femminile è tardi. Nel cervello
femminile, l'estraidiolo non ce la fa a raggiungere la membrana della cellula».
Tutto ciò non le pare frustrante, per le donne?
«Nient'affatto. Insisto che
diversità non significa inferiorità. Le donne — e il loro cervello —
costituiscono un immenso serbatoio di potenzialità non sfruttate. Quello che
occorre è che la società, invece di penalizzare la donna, ne conosca esigenze e
differenze: ne tenga conto e se ne serva. Sarà la prima a tirarne beneficio».
Postilla
Il ritaglio, ripreso da “la
Repubblica” è senza indicazione di data, ma la recensione nel retro del film di
Monicelli Temporale Rosy (Tullio
Kezich) permette di collocare l’articolo tra la fine del 1979 e l’inizio del
1980. (S.L.L.)
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