12.10.13

Darwin, un gigante che non ci consola (Beniamino Placido)

Auguriamoci che la nostra televisione abbia stasera uno schermo più grande, colori più accesi, un nuovo senso della profondità per presentarci Charles Darwin quale egli è: un gigante.
Veramente, lo sceneggiato inglese in sette puntate di cui la nostra televisione presenterà questa sera (Rete 1, ore 21,55) la prima, non si riferisce al Darwin delle grandi scoperte, ma al Darwin che, ventiduenne, si imbarca nel 1831 sulla Beagle per un viaggio di esplorazione intorno al mondo, in cui raccoglierà le premesse per l'opera maggiore, Origine della specie per selezione naturale, che apparirà nel 1859.
Come sarebbe a dire: origine della specie? Non è stata creata questa specie — umana vegetale animale — direttamente da Dio, una volte par tutte? E che cos'è questa selezione naturale? Come Dio l'ha creata, la specie — umana, vegetale, animale —. così la natura la conserva. E la conserverà. Nei secoli dei secoli.
Giustamente la Chiesa si scandalizza, nel 1859. Ha capito fin troppo bene ciò che Darwin ha fatto. Ha detto della «specie» ciò che Galileo aveva detto della terra: «eppur si muove». Darwin è uno di quei giganti del pensiero ottocentesco — come Marx, come Freud e (giacché oggi ci vuole) come Nietzsche — dopo i quali non è più possibile pensare allo stesso modo di prima. E tuttavia, mentre meniamo pubblico vanto di passare le nostre giornate intellettualmente operose con Marx, con Freud e (da qualche anno) con Nietzsche, non citiamo mai Darwin, non lo annoveriamo mai fra i nostri interlocutori privilegiati. Perché?
Facciamo l'ipotesi più semplice (magari per scartarla subito dopo): forse ci dà ancora fastidio quest'idea di discendere dalla scimmia. Forse non siamo tanto diversi dalla moglie del vescovo di Worchester che diceva allarmata al marito: «Come? Noi discendere dalle scimmie? Speriamo che non sia vero. Ma se è vero, preghiamo che non si venga a sapere». Quant'è più nobile, quanto suona meglio la difesa ufficiale che la Chiesa fa della validità letterale delle Scritture. Specie in latino: «Nihilominus sententia cattolica est, verba illa scripturae esse ad litteram inteligenda. Ac proinde vere, ac realiter tulisse Deum costam Adamae, et ex ella corpus Evae formasse».
Ac proinde, ac realiter: per la verità Darwin non ha mai detto una banalità simile: l'uomo discende dalla scimmia. Ha detto una cosa molto più terribile. Sulla base di tre fatti osservabili in natura e di due deduzioni personali, Darwin ha affermato, nell'Origine della specie, quanto segue.
Primo fatto: tutti gli organismi tendono a riprodursi in proporzione geometrica. I cuccioli di qualsiasi specie tendono ad essere più numerosi dei genitori.
Secondo fatto: ciò nonostante, il numero dei membri di una specie tende a rimanere stabile.
Prima deduzione: vuol dire che c'è, che ha agito una certa competizione per la sopravvivenza.
Terzo fatto: gli individui che compongono una specie non sono mai perfettamente identici fra di loro. Ci sono sempre fra di loro delle «variazioni ».
Seconda deduzione: si può allora supporre che agisce una certa selezione naturale. Alcune di quelle variazioni saranno più favorevoli alla sopravvivenza, altre meno.
Facciamo adesso tre più due. Sommiamo i tre fatti e le due deduzioni. La isomma sarà la rivoluzione copernicana di Darwin. Al posto di una spiegazione del'universo «teleologica», che guarda al futuro (il mondo è stato creato in fondo « ad maiorem Dei gloriam ») Darwin sostituisce una spiegazione « genetica », che guarda al passato.
Quest'uomo vuoi detronizzare Dio, dicevano scandalizzati i teologi dell’Ottocento. Quest'uomo ha decretato, assai prima di Nietzsche, la morte di Dio. D'ora in poi, sarà lui la lepre e la Chiesa il cacciatore. Sarà la Chiesa a doverlo inseguire. E tanto per dimostrare che la specie — anche quella divina — si evolve sotto il peso della necessità ambientale, lo stesso concetto di Dio creatore andrà modificandosi.
Perché i fatti daranno ragione a Darwin. Alcune cose della teoria darwiniana sono ancora poco chiare, poco convincenti. ma il codice genetico, il progresso nello studio dei fossili, la teoria della deriva continentale sono tutte a suo favore.
Però la noi non interessa che Darwin abbia ragione. « Aver ragione » in termini di scienza è un concetto molto delicato da adoprare. Assai più importante è il fatto che ha avuto ragione. Che si è imposto. Che ha imposto la sua teoria a tutta la cultura del secolo. E' lui, Darwin, e non Max Weber, il « Marx della borghesia». Il darwinismo è stato la filosofia che ha presieduto al colossale sviluppo industriale americano del secondo Ottocento e lo ha legittimato. Pensava John D. Rockefeler: « La rosa americana può fiorirle con lo splendore e la fragranza che tanto rallegra chi la coglie soltanto a patto di sacrificare i giovani germogli che le crescono attorno ». E Andrew Carnegie: « Una lotta è inevitabile, e si risolverà nella sopravvivenza del più forte».
E’ lui, Darwin il profeta del capitalismo realizzato. Non ci si sarebbe riconosciuto più di quanto Marx non sa riconoscerebbe nel socialismo realizzato. Come gli sarebbe potuta piacere l'affermazione da zar stalinista di John D. Rockefeller «Il mio danaro ime l'ha dato Iddio»? La legge della sopravvivenza del più fonte si risolveva troppo spesso nel trionfo del più furbo.
E qui veniamo al motivo vero per cui noi non teniamo in casa il dipinto della sua barba accanto a quelle venerande di Marx e di Freud. Perché temiamo di metterci in casa un apologeta del capitalismo selvaggio, del «laissez faire», della competizione sfrenata. Come se il capitalismo la smettesse di fiorire solo perché noi facciamo come lo struzzo — animale notoriamente poco evoluto - e nascondiamo la testa nella sabbia.
E poi, e soprattutto, perché nella dottrina di Darwin non c'è nessuna consolazione. Marx ci conforta facendoci credere che vedremo «la rivoluzione» («giorno verrà, presago il cor mel dice»). Freud ci autorizza a sperare in miracolose romanzesche terapie. La lettura di Nietzsche ci dà l'illusione che possiamo essere noi il superuomo (e non lo siamo già par il fatto stes¬so che lo leggiamo?). Ma allo sterminio che il darwinismo vede e prevede non c'è rimedio.
E Darwin lo sapeva. Lo sapeva anche meglio ci noi. Noi oggi sappiamo - e in questo stiamo un po' meglio di lui — che nel mondo attuale non ci sono soltanto lotte spietate per la sopravvivenza, ci sono anche forme di solidarietà. Darwin a questo aveva pensato poco. Perciò la fine della sua vita fu molto amara. Il giovanetto che vedremo in televisione questa sera aveva messo piede sulla «Beagle» con animo romantico. Amava la letteratura la musica i grandi paesaggi. Il vecchio che ha vinto la battaglia della scienza ha nell’autobiografia e nelle lettere pagine molto amare. Non riesce a trovare conforto in nulla. Nemmeno in Shakespeare, che tanto aveva amato.


“la Repubblica”, 10 novembre 1979

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