13.10.13

Checco Rissone racconta Vittorio De Sica (Guido Vergani)

Checco Rissone
VICENZA  - "Gli scaricavano addosso tutti i ruoli da vecchio. Barbe, rughe, incanutite criniere e voce tremolante. Era un secondo caratterista e lo consideravano troppo brutto, troppo nasone e troppo afflitto dai piedi dolci per affidargli parti da giovanotto. Allora, giù vecchi, giù ottuagenari al generichetto Vittorio De Sica, al figlio dell' assicuratore salernitano. Ne voleva fare un ragioniere per un impiego stabile alla Banca d' Italia. Ma si arrese e lo sostenne come può fare un talent scout. Fu lui a portarlo per mano da Luigi Almirante, un grande maestro, perché imparasse a recitare". Non serve sollecitare, stimolare con domande Checco Rissone perché racconti il "suo De Sica", ne rievochi i faticati e spesso affamati anni del debutto sulle scene, la gavetta. E' anche un modo per narrarsi, per andare con la memoria all'irripetibile stagione della giovinezza. Figlio d'arte Rissone, (il padre trovarobe e il nonno Giovanni tanto celebre come tiranno shakespeariano da sentirsi rifiutare un chilo di manzo per brodo da un macellaio di Bologna che lo aveva riconosciuto e non riusciva a dimenticare le sue canagliate in scena) aveva sedici anni quando si conobbero, ma tale era la sua praticaccia di palcoscenico da poter guardare un po' dall'alto i primi passi del mancato ragioniere De Sica che di anni ne aveva, allora, ventiquattro ma non era corazzato di scaltrezza né nella vita, né sulla scena.
"Aveva due debolezze: il gioco e il farsi dominare dalle donne" racconta: "L'ho cominciato a frequentare proprio per la seconda di queste vulnerabilità. Eravamo a Buenos Aires. Io con la compagnia di Dario Niccodemi, la ‘Vergani-Cimara’, Vittorio recitava i suoi vecchi con Italia Almirante Manzini la cinematografica, la paperona: veniva dal muto e non ne imboccava una, si inabissava in dieci fotte, in dieci papere a raffica. Fu il teatro a farci incontrare. Ma l'amicizia nacque per una faccenda sentimentale. Vittorio era succubo di una piccola attrice che gli dava gli incubi, minacciando un pargolo. Veniva a chiedere consigli. Gli suggerivamo di buttarla nel Rio de la Plata. Noi, quelli di Niccodemi, eravamo gli arrivati. Forse, Vittorio mi guardava come un fratello maggiore. Avevo debuttato a quaranta giorni. Ero, insomma, più giovane di Vittorio, ma più vaccinato al teatro, al lavoro e alla vita. Per questo, bussava a consigli. Inutili consigli, perché quella sua generosa debolezza gli ha creato fastidi per tutta l'esistenza, con quel saltare da una famiglia all'altra, da una moglie all'altra con quelle due cene nella stessa serata: una da mia sorella Giuditta; l'altra con Maria Mercader a stomaco già pieno".
Quando la compagnia Niccodemi entra in disarmo per l'addio al teatro di Vera Vergani, Checco Rissone e Vittorio De Sica si ritrovano nella "Almirante-Rissone-Tofano": uno al seguito di Giuditta; l' altro al seguito del proprio maestro. Non hanno il nome in ditta. Sono ancora caratteristi. "Si era sul finire degli anni Trenta" racconta Rissone. "Vera era stata sostituita da Elsa Merlini. Mia sorella non accettò la convivenza. Era intuibile che non si sarebbero ripetuti gli antichi fulgori. Niccodemi era ormai stanco ed ammalato. I transfughi della "Vergani-Cimara" si misero insieme. Era una compagnia un po' digestiva, ma con un repertorio nobilmente comico, leggero, anche perché sulla nobiltà delle scelte vegliava il coltissimo Tofano. Un giorno, capitò che l'attor giovane, Manlio Mannozzi, ci voltasse le spalle. Sulla piazza, non c'erano alternative. Tutti erano già scritturati, perché, allora, i contratti erano triennali. Almirante spinse avanti De Sica e una spinta gliela diede anche mia sorella che aveva già il cuore morbido per quel generico. Erano già in idillio. Vittorio si caricò di brillantina, di gommina. Lo vestirono da Ceravoglio, il sarto degli attori di grido. Sfoderò i suoi dentoni da cavallo. Impostò una camminata meno da piedi piatti e fece il suo esordio come homme à femme, come latin lover da scena".
"Funzionava, quel figlio di buona donna. Funzionava per simpatia, per charme e per bravura. Certo, non avrebbe potuto affrontare Romeo, ma aveva mestiere e metteva in pratica un grande trucco di Almirante: la dialettalità nei ritmi, nelle cadenze. Almirante era un grosso maestro. Raccomandava: ‘Quando non sapete dire una battuta, pensatela in dialetto e traducetela in italiano’. Il partenopeo De Sica ha sublimato quella lezione. Da lì nasce la sua recitazione cordiale, umana, la sua comunicativa immediata. Da lì, probabilmente, nasce per via indiretta anche il neorealismo".
Ma non è solo di scena, di tecnica teatrale (Rissone, oggi, insegna alla "Scuola teatrale" della Regione veneta voluta dalla passione di un medico, Costantino De Luca; ha insegnato per anni e anni alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e dice: "Sono un attore in pensione, ma non ho melanconie, perché, ogni giorno, decine di miei allievi vanno in scena ed è come se ci andassi io") che la memoria si riempie nel raccontare il giovane De Sica. Sono storie di donne, di notti brave con le ballerine del "Maffei" di Torino, di giocate al lotto ("Sanremo e Montecarlo, la roulette e i tavoli di "chemin" erano un miraggio per la sua passione dostoevskijana. Ma si incaponiva a tentare gli ambi"), di cinghia tirata.
"La paga non arrivava alle 35 lire giornaliere" racconta "non sono immaginabili i chiodi che piantavamo. Vittorio era sempre al verde, anche perché era un ottimo figlio. Mandava sempre qualcosa al padre. Era un uomo generoso. Lo è stato anche con i figli, con le sue due famiglie. Spesso, per pagare il conto nelle trattorie, lasciavamo in ostaggio il suggeritore Balestrieri. Senza il suggeritore, sarebbe stata la catastrofe e l' amministratore Ernestino Almirante correva a saldare. Vittorio tentò anche di arrotondare con il cinema. Si presentò alla Fert di Torino che era, allora, la nostra Hollywood. Gli dissero: "Lei nella vita potrà fare tutto meno che il cinema". Furono, come si vede, straordinari profeti. Poi la "Rissone-Almirante-Tofano" si sciolse. Cominciò un periodo di miseria. I risparmi di mio padre se ne andarono: nella compagnia "Rissone-De Sica-Melnati" non si faceva una lira. Ricordo un inverno a Ferrara. Abitavamo in casa del capostazione, proprio davanti al teatro. Ci affacciavamo e, nella neve, non c'era un'orma, una sola orma verso il botteghino. Per la fame, bastava il castagnaccio che ha tempi lunghissimi di digestione. Il problema era di tirare sino al debutto milanese".
E' a Milano che il destino di Vittorio De Sica gira la boa. La compagnia non incassa un soldo, ma quel gruppo di attori fa al caso di Ramo e Mattoli, quelli di "Za Bum", per Totò. Tempesta in un bicchier d' acqua. Sono quaranta giorni di scrittura e l'incontro con Oreste Biancoli e Dino Falconi che cercano caratteristi per la rivista Le lucciole della città.
"Fu un delirio di incassi" racconta "ci facemmo tutti la macchina. Poi venne Le nuove lucciole. De Sica cantava Ludovico sei dolce come un fico, sempre più gocciolante di brillantina. Divenne lo Chevalier italiano, sbaragliando Odoardo Spadaro. E fu scoperto da Mario Camerini. La profezia della Fert andò in frantumi: Gli uomini che mascalzoni, Il signor Max e, via via, la sua grande avventura cinematografica. Se non fosse stato per Giuditta, forse non ci saremmo più visti. Io continuai a pestare le scene. Lui non aveva rimpianti per il teatro. Ma al teatro, alla lezione di Almirante sapeva di dovere tutto. Non per nulla, tra i nostri registi di cinema è stato l' unico capace di insegnare a recitare ai propri attori".


“la Repubblica”11 novembre 1984

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