14.11.13

Borgia a tavola. Le cene solitarie di Lucrezia e i fichi del Valentino (Leo Pescarolo)

Bartolomeo Veneto, Ritratto di Flora
(per diversi studiosi raffigura Lucrezia Borgia)
I fasti gastronomici rinascimentali delle corti medicee, e di quella dei Gonzaga, non si addicevano alla proverbiale avarizia di Ercole I d'Este, duca di Ferrara, padre di Alfonso, il marito di Lucrezia Borgia. Raramente appariva sulle mense ducali, il pavone farcito di anguille (che peraltro pullulavano nelle vicine Valli di Comacchio), che era il piatto preferito della vitale principessa romana. Questo fatto molto la rattristava, abituata com'era al piacere della tavola, che da sempre si praticava alla corte papale, da dove proveniva. Lei, che amava le tavole imbandite con decine di convitati, era costretta a cenare spesso in solitudine, quando il marito, maniaco fabbro fonditore di cannoni, e guerriero instancabile, la lasciava sola per compiere l'una o l'altra di tali imprese. Fu proprio questo uno dei motivi che contribuirono al formarsi della leggenda di Lucrezia avvelenatrice, poiché si diceva che gli ospiti temevano per la propria vita dell'accostarsi alla sua tavola. E invece i ferraresi crapuloni, ne stavano lontani per lo squallore della mensa. Lucrezia infatti mai compì, né avrebbe compiuto, veneficio contro alcuno, dovendo la sua triste fama solo alle scelleratezze del fratello e del padre pontefice.
Insomma sembra incredibile, ma nel Castello di Ferrara, la città della salama da sugo, e dei cappellacci di zucca, si faceva una gran fame. Per cui non è azzardato dare credito alle voci che allora circolavano, che Lucrezia fosse divenuta l'amante di Francesco Gonzaga, suo cognato, sedotta da doni frequenti, in segno, anche emblematico del suo amore di rostrati storioni che provenivano dalle foci del Po, o di lucci pescati nell' ansa lacustre che il Mincio formava davanti al Castello di Mantova. E poiché il Duca padre intercettava gli omaggi dei pescioni, e li dirottava, cambiando la pergamenina d'accompagno, alle sue amanti, o ai signori confinanti, Lucrezia, per dispetto, o per golosità cedette ai desideri del cognato, noto amatore e gourmet.
Tutte diverse le attitudini gastronimiche del Duca Cesare Borgia, detto il Valentino, fratello di Lucrezia. Non per nulla Nicolò Macchiavelli scrisse il libello: «Del modo tenuto dal Duca Va¬lentino nello ammazzare (a tavola) Vitellozzo Vitelli (il destino nel nome!), Oliverotto da Fermo, e Messer Pagalo Orsini». Quando alla fine del banchetto i tre, storditi dai cibi e dai vini si rivolsero a lui per ringraziarlo, ordinò: «Portate ancora fichi». E quello era il segnale del loro immediato sgozzamento. In precedenza agli sventurati erano stati serviti: spiedi di tordi avvolti nella rete di maiale e salvia, pasticcio di anguille, lamprede e gamberetti, asinello arrosto con fave cotte nel latte, dolci di marzapane, pinoli e panna zuccherata, capponi bolliti ricoperti di salsa bianca, trota salmonata alla salsa vede, erbe cotte, marmellate, gelatine di dolci e gelsomini caramellati. E poi, finalmente, i fichi.
Saper quanti altri vennero eliminati dal Valentino, sempre a tavola, ma per veneficio, none possibile: la «Cantarella», il veleno prediletto dal Duca, da lui creato (e del quale prendeva quotidianamente piccole dosi per immunizzarsi), aveva due «virtù»: faceva effetto molti giorni dopo, e non lasciava alcuna traccia.

“weeckendestate – la Repubblica”, 16 settembre 1982


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